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INTRODUZIONE
Le Nazioni Unite sono state istituite nel 1945 con il fine primario di mantenere
la pace e la sicurezza internazionale e nell‟ottica di salvare le generazioni future
dal “flagello della guerra”
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, le cui conseguenze erano ben vive nei ricordi dei
padri fondatori.
Nel corso dei sessant‟anni, ed oltre, di attività, questa organizzazione
internazionale a carattere universale ha affrontato il difficile periodo della
guerra fredda che ha comportato una sostanziale paralisi del Consiglio di
Sicurezza a causa di un uso eccessivo del potere di veto - concesso ai membri
permanenti - che ha impedito all‟organo di adempiere alla sua responsabilità
principale ossia quella del mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale
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. Le Nazioni Unite hanno anche dovuto far fronte alla non
completa attuazione del sistema di sicurezza collettiva stabilita dello stesso
Statuto, che ha portato alla nascita delle operazioni di peacekeeping, le quali
costituiscono la forma di intervento più significativa utilizzata
dall‟Organizzazione per adempiere al suo fine fondamentale, diventando un
elemento costante – quasi permanente – della sua attività. Le stesse operazioni
di mantenimento della pace hanno affrontato i cambiamenti conseguenti alla
fine dell‟era bipolare che ha comportato un aumento dei conflitti interni agli
Stati caratterizzati da forme di violenza contro la popolazione locale, che,
conseguentemente, necessitano di interventi più corposi delle Nazioni Unite, le
quali, non disponendo delle risorse finanziare, materiali ed umane sufficienti,
devono fare continuo affidamento alle volontà degli Stati membri di contribuire
o meno alla risoluzione di una determinata crisi. Tale aspetto fa sorgere
problematiche dal punto di vista della condotta e della disciplina di tutto il
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Preambolo della Carta delle Nazioni Unite “Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le
future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione
ha portato indicibili afflizioni all‟umanità (…)”, adottata a San Francisco il 26 giugno 1945 ed è
entrata in vigore, con il deposito del ventinovesimo strumento di ratifica, il 24 ottobre 1945.
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Così come disposto dall‟articolo 24 della Carta ONU.
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personale partecipante a queste missioni e soprattutto di quello fornito dagli
Stati membri. Il riferimento è ai deprecabili casi di cattiva condotta che hanno
minacciato e minacciano la credibilità, l‟imparzialità e l‟integrità delle missioni
e della stessa Organizzazione. Dati questi presupposti è lecito domandarsi se
l‟attività di peacekeeping è davvero così essenziale e che cosa l‟Organizzazione ha
fatto per migliorarla, ma anche se le Nazioni Unite riescono e riusciranno a
perseguire l‟ambizioso obiettivo che è stato delineato e che si sono poste negli
ultimi quindici anni circa, ossia quello della human security o people security. Vale
a dire un concetto di ampio di sicurezza che non include il mero e semplice
stato di non guerra, ma contempla tutta una serie di azioni che intendono
salvaguardare la sicurezza dell‟uomo in quanto tale a 360 gradi, dall‟aspetto
economico a quello alimentare, da quello inerente la salute a quello ambientale,
dalla sicurezza nell‟ambito della comunità a quella politica. Elementi dunque
strettamente connessi tra di loro, i quali portano a non considerare più lo Stato
come soggetto esclusivo del concetto di sicurezza, ma appunto l‟uomo.
Il lavoro svolto parte proprio dalla descrizione dell‟evoluzione della nozione di
sicurezza. In particolare la nascita e lo sviluppo di processi che hanno mutato la
struttura delle relazioni internazionali e la presa di coscienza che le attuali
minacce hanno il carattere della globalità - in quanto non sono relegate entro in
confini di un singolo Stato, ma sono appunto transnazionali - hanno messo in
crisi il tradizionale concetto di sicurezza, vale a dire quello statocentrico. In
questo quadro, in cui vi è la tendenza ad allargare lo spazio da nazionale a
internazionale, si inserisce il concetto di sistema di sicurezza collettiva previsto
dalla Carta delle Nazioni Unite, il quale aspetta ancora una integrale e completa
attuazione. In tal senso sono volte le analisi dello Statuto e in particolare delle
disposizioni contenute nei Capitoli VI, VII e VIII della Carta, intitolati
rispettivamente “Soluzione pacifica delle controversie”, “Azione rispetto alle
minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione”,
“Accordi regionali”. L‟analisi del concetto di sicurezza intreccia anche quello di
difesa, in quanto vi è la tendenza ad utilizzarli come sinonimi, quando nella
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realtà hanno due connotazioni differenti. Ecco dunque che opposto al sistema di
sicurezza collettivo delle Nazioni Unite vi è il sistema di difesa collettiva della
NATO, del quale è stato messo in luce la continua evoluzione rispetto ai
cambiamenti degli assetti mondiali e la capacità di questa alleanza militare di
rimanere un importante attore nello scenario internazionale.
A fronte di una serie di cambiamenti circa la considerazione della sicurezza e
delle minacce ad essa, a partire dagli anni novanta in seno alle Nazioni Unite vi
è stata una riflessione su una nuova accezione multidimensionale della
sicurezza: la human security, la quale integra l‟approccio state security, favorendo
lo sviluppo umano ed accrescendo i diritti umani. La human security può essere
intesa come la protezione delle persone dai pericoli, la quale richiede da una
parte la creazione di processi e istituzioni che siano in grado di affrontare le
minacce, dall‟altra l‟attuazione di strategie che permettano lo sviluppo delle
potenzialità degli individui e la loro partecipazione alle decisioni riguardanti la
comunità. Viene messo in luce, inoltre, come questo nuovo approccio non sia
circoscritto all‟ambito onusiano, ma abbia trovato terreno fertile anche
all‟interno di alcune organizzazioni a carattere regionale, in particolare
nell‟Unione Europea, nell‟OSCE e nel Consiglio d ’Europa.
La necessità di affrontare le varie minacce alla sicurezza è stata sostenuta dalle
Nazioni Unite con l‟istituzione delle operazioni di peacekeeping, vale a dire
azione atipiche - non previste dallo Statuto - che hanno permesso e permettono
all‟Organizzazione di perseguire il fine del mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale nonostante l‟incompleta realizzazione del sistema di
sicurezza collettiva che la rende orfana di forze armate disposte in via
permanente. Difatti la non attuazione delle disposizioni del Capitolo VII della
Carta hanno pregiudicato la possibilità delle Nazioni Unite di avviare efficaci
azioni a tutela della pace e della sicurezza internazionale, le quali dunque, per
la costituzione di questo tipo di operazioni, fanno costantemente ricorso ai
contributi – finanziari, di personale e di equipaggiamenti - degli Stati membri,
con tutte le criticità che ne conseguono. Le missioni di peacekeeping sono state
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intraprese fin dai primi tempi di funzionamento delle Nazioni Unite, le quali
nel corso degli anni hanno saputo adattarle al contesto internazionale in
continuo mutamento. In particolare la fine del sistema bipolare ha decretato un
profondo mutamento di queste azioni, infatti fino agli anni novanta si parlava
di operazioni tradizionali di mantenimento della pace caratterizzate
essenzialmente da compiti di separazione e interposizione tra le parti, mentre
dopo la caduta del muro di Berlino si parla di operazioni multidimensionali di
peacekeeping, in quanto dispiegate in un contesto non più caratterizzato da
conflitti tra Stati, ma da conflitti interni agli Stati stessi originati da tensioni
nazionalistiche, etniche o religiose e comportanti un alto grado di violenza
contro la popolazione locale. L‟agire all‟interno di uno Stato martoriato da un
conflitto, nel quale l‟autorità governativa potrebbe non essere in grado di
mantenere la sicurezza della propria popolazione e gestire l‟ordine pubblico,
necessita di interventi più complessi, multidimensionali e soprattutto
caratterizzati da nuove professionalità e competenze: accanto all‟impiego
convenzionale di tipo militare vengono affiancate nuove capacità quali
operatori umanitari, osservatori elettorali e dei diritti umani e così via. La
descrizione dei principi fondamentali, da sempre presenti nelle operazioni di
mantenimento della pace, è seguita dall‟annoso dibattito e le molteplici ipotesi
presenti in dottrina circa il fondamento giuridico di tali interventi, dato il
silenzio in tal senso dello Statuto dell‟Organizzazione.
Coerentemente con i mutamenti degli equilibri e dello scenario internazionale,
il dispiegamento di missioni peacekeeping sempre più ampie, complesse e
sofisticate e il loro crescente numero, ha fatto sorgere la necessità di una riforma
del mantenimento della pace che trova le sue radici nell‟istituzione - nel 1992 -
del Department of Peacekeeping Operations quale organo preposto
all‟organizzazione della missione sotto tutti i punti di vista, militare, operativo,
logistico ed amministrativo e con il compito di coadiuvare il Segretario
Generale al quale spetta tradizionalmente la loro preparazione e il loro
comando. Il lavoro del Dipartimento si inserisce solo alla fine l‟iter che viene
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seguito per istituire una missione di mantenimento della pace, ossia dopo
l‟approvazione del mandato da parte del Consiglio di Sicurezza, e avvalendosi
dell‟ausilio dei suoi uffici procede alla pianificazione, preparazione e gestione
dell‟operazione in tutte le sue fasi.
Alcuni importanti fallimenti che si sono verificati nella prima metà degli anni
novanta – in Somalia, Bosnia-Erzegovina e Ruanda – hanno costretto, pochi
anni più tardi, l‟allora Segretario Generale Kofi Annan ad avviare
un‟autovalutazione delle attività dell‟Organizzazione per giungere ad un
rinnovamento delle azioni di mantenimento della pace, con lo scopo di
individuare le debolezze sulle quali agire per evitare gli errori commessi in
alcuni contesti. La proposta di riforma prende corpo nel 2000 con il rapporto
redatto dal Panel on United Nations Peace Operations, conosciuto come rapporto
Brahimi, il quale mette in luce i punti salienti da migliorare, quali la necessità di
un maggior sostegno – da parte degli Stati – alle Nazioni Unite, delineare chiari
e adeguati mandati per le missioni in modo tale che possano essere
implementati con successo, ma anche l‟esigenza di definire e far rispettare
elevati standard di competenza e d‟integrità per le Forze impegnate in tali
attività, e l‟opportunità di avviare un‟analisi preventiva dell‟ambiente e della
situazione in cui la missione deve operare in modo da delineare strategie mirate
ed efficaci. Il rapporto Brahimi ha messo in moto una serie di riforme e anche
una considerevole produzione documenti, linee guida e manuali da parte del
Department of Peacekeeping Operations il quale ha avviato quello che è stato
chiamato processo “New Horizion”, un programma ambizioso per il
mantenimento della pace che ha lo scopo di creare un ampio consenso sugli
orientamenti futuri e sugli obiettivi comuni da perseguire nel breve e nel
medio-lungo periodo.
I meccanismi di rinnovamento e miglioramento del peacekeeping hanno portato
le Nazioni Unite a prendere coscienza dell‟impatto negativo che i conflitti
hanno sulle donne e specularmente della necessaria presenza reale ed attiva
delle donne all‟interno non solo delle missioni di mantenimento della pace, ma
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anche dei processi di decision-making. In tal senso è stata svolta un‟analisi dei
principali documenti - a partire dalla risoluzione 1325 – e delle iniziative
adottate dall‟Organizzazione per giungere a verificare i risultati a cui si è
realmente giunti.
Dopo aver descritto principi, evoluzione e processi di riforma e miglioramento
del peacekeeping, la quarta parte di questo lavoro prende in considerazione il
caso della presenza delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del
Congo. In primo luogo viene effettuata sia una breve ricostruzione della
situazione presente nel continente africano – il quale conosce a tutt‟oggi una
serie di scontri, conflitti e guerre difficili da placare definitivamente – che
un‟analisi delle vicende molto complesse – dalla fine del colonialismo ai nostri
giorni - che hanno segnato la storia di questo Stato dell‟Africa centrale e che
hanno determinato l‟intervento delle Nazioni Unite. In particolare vengono
delineati i caratteri della prima missione di peacekeeping intrapresa negli anno
sessanta, l‟ONUC, la quale rientra in quelle che sono state definite operazioni
tradizionali di mantenimento della pace, dispiegata con lo scopo assicurare il
ritiro delle forze belghe dal Paese, salvo poi veder ampliato il proprio mandato
autorizzando la Forza ad utilizzare le armi, al di là della legittima difesa. Il
secondo intervento, la missione MONUC che si è trasformata l‟anno scorso in
MONUSCO, aderisce invece ai compiti di una operazione multidimensionale di
mantenimento della pace, e in tal senso sono stati messi in evidenza la relazione
tra le vicende interne al Paese e le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che via
via hanno ampliato ed affinato il mandato di questa missione. L‟elemento che
ha permesso di giungere all‟ultima parte del lavoro è rappresentato dai gravi
casi di cattiva condotta che hanno caratterizzato alcune missioni di
mantenimento della pace e in particolare l‟alto numero di episodi di
sfruttamento e abuso sessuale accaduti proprio nell‟operazione nella
Repubblica Democratica del Congo. I numerosi scandali di misconduct hanno
rischiato di compromettere la credibilità e l‟integrità, non solo delle singole
missioni ma delle stesse Nazioni Unite nel complesso, e a tal proposito sono
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state sviluppate una serie di politiche in materia di sfruttamento e abuso
sessuale avviando una riforma in tal senso, con particolare attenzione alla
necessità di uniformare gli standard di condotta per tutte le componenti che
partecipano alle missioni, vale a dire sia per il personale ONU che per i
contingenti militari forniti dagli Stati membri. A fronte dell‟esigenza di
determinare chiare regole e standard di comportamento, vi è comunque
l‟altrettanta necessità di garantire la sicurezza degli stessi peacekeepers impegnati
in operazioni sempre più complesse e dispiegate in contesti che possono
comportare dei rischi per la loro incolumità.