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dell’età evolutiva hanno studiato la straordinaria capacità dei
bambini piccoli di interpretare i propri e gli altrui comportamenti
in termini di stati mentali.
Quando ha inizio per i bambini la comprensione della mente,
della vita mentale delle persone e di stati mentali come i pensieri,
i sogni, i desideri e le speranze? Sono stati condotti su questo
argomento numerosi studi che hanno contribuito a chiarire e a
trasformare la nostra immagine di questo aspetto della
comprensione infantile. E’ ora chiaro che, probabilmente a tre
anni e con certezza a quattro anni di età, la maggior parte dei
bambini comprende che le azioni delle persone sono in parte
frutto delle loro intenzioni, idee, emozioni e obiettivi. Questi
studi si sono per lo più concentrati sulla comprensione infantile
delle credenze a tre – quattro anni. Perché tale enfasi sulle
credenze? Una ragione è che una adeguata comprensione della
credenza rivela una caratteristica chiave della nostra
comprensione quotidiana della mente: che la mente rappresenta il
mondo e che, a loro volta, tali rappresentazioni determinano le
azioni. Dunque, il pieno sviluppo di una teoria della mente
permette ai bambini di rendersi conto che le persone possono
avere stati mentali diversi dai propri e che esse agiscono sulla
base delle loro rappresentazioni mentali, piuttosto che sulla base
di come la realtà si presenta effettivamente.
Gli psicologi dello sviluppo che hanno affrontato questo
problema hanno scelto tra due possibili percorsi: o la via
“diretta”, che comporta l’analizzare la comprensione dei diversi
6
stati mentali da parte dei bambini piccolo, nel tentativo di
rintracciare le origini di questa abilità; oppure la via “indiretta”,
che comporta lo studiare il perché alcuni bambini non riescono a
sviluppare il concetto di mente. Questo percorso “alternativo” è
stato intrapreso con lo studio dei bambini autistici, i quali ci
rivelano ciò che può essere necessario per lo sviluppo del
concetto di mente.
Se nei bambini autistici il deficit di comprensione degli stati
mentali appare primario e su base innata, ciò non esclude che
storie evolutive problematiche possano portare a uno sviluppo
deficitario di tali abilità. Main (1991) e Fonagy (Fonagy e Target,
2001) hanno posto in relazione lo sviluppo delle capacità di
pensare sugli stati mentali con la qualità del rapporto di
attaccamento del bambino con le figure che ne hanno cura.
Negli ultimi anni, soprattutto attraverso le ricerche condotte
dalla Meins, si è cercato di sviluppare quegli aspetti della teoria
dell’attaccamento o, meglio, del concetto di “sicurezza”, che
mettono in luce la rilevanza e il peso delle determinanti sociali
nello sviluppo cognitivo. In questo senso, il modo in cui viene
inteso il termine della “sicurezza” dell’attaccamento si ricollega
non tanto alla sua accezione traumatica di risposta agli eventi di
separazione, quanto piuttosto fa riferimento a quell’ampio
repertorio di competenze individuali di cui il bambino dispone
per affrontare e gestire gli eventi quotidiani (Meins, 1997). In
quest’ottica, quindi, le figure di attaccamento, oltre a svolgere un
ruolo di protezione dai pericoli e dalle vulnerabilità, risultano
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fondamentali nel fornire il contesto interpersonale nel quale i
bambini imparano a usare la propria mente.
Il nostro scopo sarà quello di partire dalle intuizioni della Main
circa il legame tra gli stili di attaccamento e la capacità di
riflettere sui propri e gli altrui stati mentali; esaminare gli studi
condotti da Fonagy e il suo gruppo di ricerca sulla “funzione
riflessiva”; approfondire il lavoro della Meins volto ad
identificare alcuni ambiti dello sviluppo cognitivo sensibili
all’influenza della variabile della “sicurezza”. Ne risulta un
quadro in cui la teoria della mente infantile mostra le sue
profonde radici nella relazione interpersonale con il caregiver e
in cui una buona qualità della relazione di attaccamento si correla
allo sviluppo, in entrambi i membri della relazione, non solo di
rappresentazioni di sé e dell’altro positive, ma anche di quei
processi metacognitivi che danno la possibilità di riflettere sui
propri e altrui stati mentali e di modificarli.
Sicurezza e teoria della mente assumono così la valenza di aspetti
diversi di un unico costrutto concettuale complesso e
multidimensionale.
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Il concetto di “teoria della mente” è strettamente correlato al
concetto più generale di “metacognizione”. Da un lato, la teoria
della mente sarebbe un aspetto specifico di più ampie capacità
metacognitive; in particolare, Bruner e Feldman (1993, cit. in
Caviglia, 2003) ritengono che la teoria della mente faccia
riferimento a un solo aspetto della metacognizione: la
comprensione delle false credenze. Dall’altro, per possedere una
competenza metacognitiva, occorre possedere una teoria della
mente, ovvero la capacità di rappresentare, prevedere e spigare i
propri e altrui stati mentali (Semerari, 2000).
Inoltre, la “teoria della mente” costituisce un particolare
approccio di quella che viene chiamata “psicologia del senso
comune” o “psicologia intuitiva” (Folk psychology), termini usati
per riferirsi al modo in cui le persone descrivono e spiegano la
propria quotidiana comprensione del mondo facendo
costantemente riferimento a stati mentali quali desideri, credenze,
emozioni, intenzioni. Questo costante ricorso al mentalismo
rende la nostra psicologia intuitiva una teoria della mente
(Camaioni, 1995).
CAPITOLO I
CONTESTUALIZZAZIONE STORICA E TEORICA
DEL CONCETTO DI “TEORIA DELLA MENTE”
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1.1 La Folk Psychology
Gli eventi sociali che si presentano alla nostra osservazione, o
che ci coinvolgono, non hanno senso ai nostri occhi se non filtrati
dal complesso apparato di attribuzioni di intenzionalità, che
costituisce la fitta trama delle nostre relazioni sociali. Questi
sistemi di interpretazione degli esseri umani sono indicati con il
termine “folk psychology”.
La folk psychology, che potremmo tradurre con psicologia
popolare, o psicologia ingenua, o psicologia del senso comune, si
riferisce alla comprensione ingenua che la gente ha dei propri
stati mentali (Cornoldi, 1995). Così come la gente possiede
un’idea ingenua del mondo fisico, analogamente essa sviluppa
concetti ingenui relativamente al mondo psicologico.
Già Flavell, nel suo articolo nel 1979, affermava: “…penso che
le credenze tacite possono giocare un ruolo importante nelle
iniziative cognitive del mondo dei bambini più grandi e degli
adulti e che l’acquisizione di queste credenze possa essere
interessante da studiare” (Flavell, op. cit., p. 907).
Secondo Goldman: “…che la gente comune abbia una teoria
della mente è questione controversa, ma è indubbio che essa
abbia una folk psychology nel senso di una collezione di concetti
sugli stati mentali. D’altra parte la gente può davvero non avere,
probabilmente, accesso introspettivo diretto ai contenuti
(significati) dei suoi concetti mentali […]. Proprio per questa
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ragione abbiamo bisogno di una scienza cognitiva che scopra che
cosa sono quei contenuti” (Goldman, 1993, cit. in Cornoldi,
1995, p. 41). A tal proposito, Goldman ritiene che lo studio della
folk psychology rientri nell’area della psicologia che concerne i
concetti di stato mentale. Ciò presuppone che parlanti maturi
abbiano un ampio numero di termini mentalistici (“volere”,
“sapere”, “felice”, “preoccupato”, ecc.) nel loro repertorio, da
usare in costruzione con altre frasi e per generar più complesse
espressioni mentalistiche (Cornoldi, op. cit.).
Anche nell’ambito della psicologia sociale si è cercato di
individuare i processi che consentono agli individui sia di
descrivere e interpretare il comportamento dei loro simili, sia di
strutturare le loro osservazioni in schemi di giudizio e di
aspettativa stabili e organizzati. Estremo interesse ha assunto, in
particolare, l’analisi del giudizio sociale, ossia lo studio di come
le persone cercano spiegazioni per il loro e per l’altrui
comportamento. Quando devono inferire le cause che stanno
dietro specifiche azioni e sentimenti, le persone mettono in atto
dei processi di “attribuzione causale”. Il primo psicologo ad
occuparsi di questi problemi è stato Heider (1958, cit. in Arcuri,
1995) secondo cui è compito della psicologia del senso comune
comprendere il modo in cui le persone interpretano gli
avvenimenti del loro mondo sociale. Essi agiscono secondo i
principi di un’epistemologia ingenua, i cui assiomi possono
essere messi in luce attraverso un’analisi del linguaggio
impiegato dalle persone stesse per descrivere le proprie
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esperienze. Sempre in questo ambito, Jones e Davis (1965, cit. in
Arcuri, 1995), raccogliendo l’eredità concettuale di Heider,
propongono la teoria dell’ “inferenza corrispondente”, che
suggerisce in che misura il comportamento degli individui
corrisponde o riflette disposizioni interne di tipo stabile. In
pratica, nelle situazioni di giudizio quotidiane, i soggetti, sulla
base delle caratteristiche del comportamento messo in atto dagli
attori e tenendo conto delle situazioni in cui esso si è manifestato,
producono delle inferenze sul grado di intenzionalità che lo
precedeva e sulle disposizioni stabili che lo hanno determinato
(Arcuri, 1995).
Nella vita quotidiana facciamo continue previsioni sul
comportamento degli altri, attribuendo loro degli scopi, dei piani
volti al conseguimento di tali scopi e delle credenze, con cui
regolare il rapporto mezzi–fini. Le previsione, derivate dalla
psicologia della vita quotidiana, hanno molto spesso successo e
consentono, la maggior parte delle volte, una efficace
coordinazione tra le persone. La psicologia del senso comune
rappresenta, perciò, una teoria capace di ottime prestazioni nella
previsione dei comportamenti, ed è per questo che i concetti, che
ne sono alla base, meritano l’attenzione della psicologia
scientifica (Semerari, 2000).
I lavori svolti dagli psicologi cognitivisti evidenziano come i
concetti del senso comune, lungi dall’essere caratterizzabili in
termini puramente convenzionali, riflettano le nostre strutture
percettive, le nostre attività e la struttura del mondo che ci
12
circonda. La psicologia del senso comune assume,
essenzialmente, che la condotta sia regolata da un sistema
gerarchico di scopi e di credenze, e che vi siano meccanismi di
regolazione per i conflitti tra scopi. In pratica, la psicologia del
senso comune crede che le persone agiscano in vista dei loro
scopi e in base al loro giudizio e che, quando insorgono
incompatibilità tra scopi, sia sempre possibile operare un bilancio
e una scelta. Tuttavia, la clinica è ricca di esempi che sfidano gli
assunti del senso comune. Tra questi, il senso di coazione nel
sentirsi costretti a mettere in atto comportamenti e linee d’azione
che il soggetto dichiara essere contrastanti ai propri fini e al
proprio miglior giudizio (Semerari, 2000).
Secondo Cornoldi, la folk psychology ha molto in comune con
quella che, lui stesso, definisce conoscenza metacognitiva: è
semplicemente il differente accento posto dalla ricerca sulla
psicologia del senso comune a farne un dominio più limitato.
Nella folk psychology, infatti, viene dato meno spazio ai concetti
mentali che implicano una relazione con i prodotti (creare,
scrivere, ecc.), con il comportamento, o con l’immagine di sé;
esiste minore interesse per gli aspetti evolutivi; non c’è un
inquadramento in una teoria metacognitiva più generale che
esamini le influenze delle credenze sul comportamento. Tuttavia,
la folk psychology rappresenta, comunque, un interessante campo
di indagine per la raccolta di vistosi elementi utilizzabili per una
teoria metacognitiva più generale (Cornoldi, 1995).
13
1.2 La metacognizione
La definizione di “metacognizione” fu introdotta originariamente
da Flavell (1979), il primo ad occuparsene in modo moderno e
sperimentale, intendendola come: “…ogni conoscenza e attività
cognitiva che prende come oggetto, o regola, ogni aspetto di
qualsiasi impresa cognitiva”. E’ chiamata metacognizione perché
il suo significato centrale è “cognizione della cognizione”
(Cornoldi, 1995). In questo senso, egli si riferisce alla
conoscenza dei propri processi cognitivi e alla conoscenza che
può essere usata per controllare questi processi.
Se è vero che per la metacognizione si può trovare una
definizione e un’illustrazione unitaria (ad esempio: “insieme
dell’attività psichica che presiede al funzionamento cognitivo”),
è ormai quasi unanimemente accettata l’idea che ambiti diversi
della metacognizione possono essere oggetto di separata analisi.
In particolare, possiamo considerare come il costrutto di
metacognizione assuma una rilevanza applicativa in diversi
campi dell’interesse psicologico. A tal proposito presentiamo due
promettenti prospettive che hanno ampiamente studiato ed
esplorato il concetto di metacognizione.
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1.2.1 La metacognizione in psicologia
generale
Una distinzione ampiamente utilizzata nell’ambito della
psicologia generale riguarda, da un lato, i “processi metacognitivi
di controllo”, che guidano l’effettivo funzionamento cognitivo e,
dall’altro, la “conoscenza metacognitiva” (espressione
intercambiabile con quella di “metaconoscenza”) e cioè l’insieme
delle riflessioni che un individuo ha sviluppato sul proprio
funzionamento cognitivo e che, benché presumibilmente
utilizzate durante l’esecuzione dei processi metacognitivi di
controllo, si sviluppano in parte indipendentemente (Cornoldi,
1995).
Flavell fu tra i primi ad analizzare i processi metacognitivi che
costituirebbero, nel corso dello sviluppo del bambino, una “teoria
della mente”. Secondo l’autore (Flavell et al., 1977) il bambino
acquisisce nello sviluppo alcuni “postulati base” i quali
scandiscono l’evolversi e la strutturazione della sua “teoria”.
Essi sono:
1. La mente esiste: la prima acquisizione nello sviluppo consiste
nel sapere che c’è la mente, che gli esseri umani sono soggetti
che hanno coscienza e conoscono (1-2 anni).
2. La mente ha delle connessioni con il mondo fisico:
comprensione grossolana delle relazioni tra fenomeni mentali,
eventi e comportamenti (2-3 anni).
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3. La mente è separata dal mondo fisico e differisce da esso: i
pensieri non sono realtà fisiche ed in quanto “non osservabili”
non sono pubblici e quindi non direttamente accessibili (3
anni).
4. La mente può rappresentare gli oggetti e gli eventi in modo
accurato oppure non accurato: una specifica cosa del mondo
reale può essere rappresentata mentalmente in modi diversi,
alcuni dei quali possono essere falsi (4 anni).
5. La mente media, in modo attivo, l’interpretazione della realtà
e delle emozioni sperimentate: la mente può potenzialmente
selezionare, organizzare o trasformare le informazioni
provenienti dall’ambiente, e dunque distorcere o arricchire la
realtà (5-6 anni).
Inizialmente le ricerche sulla metacognizione sono state
compiute per valutare le capacità mnemoniche dei bambini in età
prescolare, riferendo in questo modo il concetto di
metacognizione essenzialmente a quello di metamemoria, intesa
come: “la conoscenza e la comprensione intuitiva della memoria”
(Kail, 1979, cit. in Cornoldi, 1995).
Le prime ricerche condotte da Flavell, infatti, indagavano le
capacità mnemoniche presenti in bambini di età prescolare e
scolare. Dunque, egli introdusse inizialmente il termine
“metamemoria”, per indicare una forma di conoscenza che ha per
oggetto la memoria, relativamente al suo contenuto e ai suoi
processi, e la conoscenza che un individuo possiede su se stesso
16
come soggetto che ricorda. L’elemento di novità della proposta
era l’idea che la conoscenza avesse un ruolo causale
relativamente all’attivazione dei processi di controllo e alla
prestazione di memoria (Mazzoni e Cornoldi, 1991).
I risultati di queste sue ricerche, hanno suggerito che: “…i
bambini piccoli dispongono di una conoscenza ed una cognizione
piuttosto limitata dei fenomeni cognitivi, ovvero sono limitati
nella loro metacognizione. Pertanto essi svolgono uno scarso
monitoraggio della loro memoria, comprensione ed altri processi
cognitivi” (Flavell, 1992, cit. in Semerari, 2000, pag. 162).
Per estendere a campi conoscitivi diversi dalla memoria la
possibilità di una conoscenza riflessiva ad essi relativa, è stato
utilizzato il termine più ampio di “metaconoscenza”. In realtà, si
preferisce parlare di “conoscenza metacognitiva”, facendo
riferimento alla più generale capacità dell’individuo di conoscere
e riflettere sui contenuti e sui meccanismi della propria
conoscenza. Tuttavia, non esiste ad oggi una definizione di
conoscenza metacognitiva univocamente accettata. E’ possibile,
comunque, effettuare una distinzione tra conoscenza e
metaconoscenza, in base al loro oggetto: la prima ha per oggetto
dati e informazioni; la seconda ha per oggetto alcuni dei processi
mentali che operano su tali informazioni e dati, e sui loro risultati
(Mazzoni e Cornoldi, 1991).
In definitiva, possiamo riconoscere che appartiene all’ambito
metacognitivo quella parte della conoscenza di sé che riguarda la
propria abilità nell’attività cognitiva in esame, gli interessi e le
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preferenze personali, le attribuzioni dei propri successi e
insuccessi, ecc.
Una tendenza corrente sembra essere quella di definire pezzi più
piccoli di metacognizione (auto-monitoraggio, monitoraggio
della comprensione, metamemoria, attribuzione di stati mentali
ecc.). Una buona ragione per questo è che la metacognizione è un
concetto eterogeneo e qualsiasi definizione ampia è certamente
insufficiente.
1.2.2 La metacognizione in psicoterapia
E’ ovvio che la psicoterapia ha continuamente a che fare con i
processi metacognitivi. Tuttavia, è solo di recente che la
consapevolezza della distinzione tra contenuti problematici e
funzioni metacognitive va affacciandosi alla coscienza dei
terapeuti in tutta la sua rilevanza teorica e clinica (Semerari,
2000).
Il gruppo di cognitivisti del III Centro di Psicoterapia Cognitiva
di Roma attribuisce alla metacognizione un significato piuttosto
ampio, che consente di utilizzarlo come costrutto clinico
fondamentale per la psicoterapia. Questi autori definiscono la
metacognizione come: “…la capacità dell’individuo di compiere
operazioni cognitive euristiche sulle proprie e altrui condotte
psicologiche, nonché la capacità di utilizzare tali conoscenze a
fini strategici per la soluzione di compiti e per padroneggiare
specifici stati mentali fonte di sofferenza soggettiva” (Carcione et
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al., 1997, cit. in Semerari, 2000, p. 164). La metacognizione è,
dunque, l’insieme delle abilità che ci permettono di comprendere
e di regolare gli stati mentali, una funzione che utilizziamo
costantemente per regolare il nostro comportamento quotidiano.
Ad esempio, sappiamo che certe cose ci annoiano, altre ci
interessano e sappiamo che l’interesse e la noia influenzano in
modo diverso la nostra concentrazione. Queste conoscenze
verranno usate per regolare le nostre azioni, tenendo conto,
appunto, delle variazioni che prevediamo nei nostri stati mentali.
Un esempio famoso di uso di strategie metacognitive è l’episodio
di Ulisse con le sirene. Ulisse sa che desidera tornare ad Itaca, sa
che desidera udire il canto delle sirene, sa che udire il canto
modificherà il suo desiderio di tornare e sa che tale
modificazione sarà transitoria. Su questa conoscenza delle
variazioni dei suoi stati mentali elaborerà una strategia
consapevole e molto semplice: legarsi al palo (Semerari, 2001).
L’uso di strategie metacognitive mira non solo alla conoscenza
dei propri stati mentali, ma anche e soprattutto di quelli altrui:
prevedere le intenzioni o reazioni dell’altro è un’operazione che
svolgiamo frequentemente pur non conoscendo nulla dell’altro.
L’unica cosa a cui affidarsi è l’innata capacità umana di
rappresentarsi e prevedere gli stati mentali. Semerari, infatti,
ricorda la radice biologica delle funzioni metacognitive: “…noi
nasciamo con l’innata capacità di essere lettori della mente,
anche se lo sviluppo di questa capacità può essere favorito o
impedito dalle vicende della nostra vita” (Semerari, 2001, p. 1).