5
penale, si dimostrano in grado di far fronte alla nuova emergenza. La crisi del
diritto penale conduce così alla necessità di trovare una via alternativa alla lotta
contro la criminalità. Questa via risulterà essere quella della prevenzione.
Nasce la “nuova prevenzione”, intesa come il prodotto di una crisi del
sistema penale che ha come conseguenza una trasformazione complessiva delle
strategie e dei meccanismi di controllo della criminalità (Selmini, 2004). La
nuova prevenzione ha come obiettivi la riduzione dei fenomeni criminali, da un
lato, e la maggiore rassicurazione sociale da questi ultimi dall’altro. La
prevenzione consiste nell’attuare strategie che limitano le condotte criminali,
intervenendo su queste ultime prima ancora che si verifichino. La conseguenza è
che il diritto penale, in quanto successivo alla condotta criminale, viene di fatto a
trovarsi al di fuori di tali strategie preventive e la risposta al pericolo deviante
viene offerta da nuove agenzie a ciò preposte, quali ad esempio gli enti locali, i
servizi sociali, le imprese private, il volontariato ed i comuni cittadini.
Per le amministrazioni locali si è parlato, con riferimento a questo
cambiamento di prospettiva, di “nuovo governo locale”: la necessità di “fare
qualcosa” ha spinto verso una innovazione delle strutture amministrative
decentrate, portando ad attribuire nuove competenze a soggetti che in precedenza
ne erano privi, come ad esempio il Sindaco e, di conseguenza, il Comune, ai
quali spettano oggi alcune competenze in materia di pubblica sicurezza in
precedenza rientranti nell’ambito delle attività dello Stato centrale.
La prevenzione porta anche ad un cambiamento dei destinatari di tali
strategie: diventano oggetto di studio non più solo gli autori dei reati ma anche le
vittime reali o potenziali e la comunità intesa nella sua generalità.
La prevenzione comunitaria è appunto una delle forme della nuova
prevenzione. Essa consiste nella sensibilizzazione dei cittadini al problema della
criminalità, affermando la necessità di costituire una società che sappia
difendersi attraverso lo sviluppo di modelli associativi e forme nuove di
solidarietà. Uno di questi modelli è, come detto, il comitato di cittadini.
6
Il comitato di cittadini è un fenomeno che ha fatto la sua comparsa nella
società italiana intorno agli anni Novanta a seguito di nuove preoccupazioni
generate dall’immigrazione, dall’aumento della micro-criminalità e dalla crisi
della Prima Repubblica con la susseguente diffidenza da parte della comunità
verso la classe politica in seguito alle vicende di Tangentopoli.
“I comitati cittadini […] sono gruppi organizzati, ma debolmente
strutturati, formati da cittadini che si riuniscono su base territoriale e utilizzano
prevalentemente forme di protesta per opporsi ad interventi che ritengono
danneggerebbero la qualità della vita sul loro territorio o chiedere miglioramenti
di essa” (Della Porta, 2004).
Ma non solo. Infatti l’origine del comitatismo, specie in alcune città come
Torino e Modena, presenta una stretta connessione con il fenomeno migratorio
visto come tra le principali cause del disagio legato ad una criminalità crescente
e ad un senso di insicurezza che ha in alcuni casi esasperato gli animi al punto da
provocare esplosioni di violenza ed intolleranza come nel caso del quartiere
Crocetta a Modena (Chiodi, 1999). In questo caso specifico può ipotizzarsi che
ci si trovi di fronte ad un esempio della teoria dell’etichettamento, frutto delle
teorizzazioni dei Neo-Chicagoans: l’immigrato, in quanto “diverso”, è
facilmente individuabile; le condotte criminali dell’extracomunitario assumono
maggiore risalto da quelle commesse dagli italiani; la conclusione cui vi è rischio
di pervenire è l’equivalenza extracomunitario-spacciatore-delinquente. Anche
nel caso torinese si riscontrano proteste a volte violente causate dal senso di
insicurezza dalle quali alto è stato il rischio del verificarsi di una vera e propria
crisi urbana (Allasino, Bobbio, Neri, 2000).
Come detto, i comitati di cittadini sono comparsi sulla scena italiana
verso la metà degli anni Novanta. Ed è proprio in quegli anni che si registrano in
Emilia Romagna i primi tentativi di censire il fenomeno. Al riguardo due saranno
le ricerche presentate nei Rapporti Annuali di Quaderni di Città Sicure: il primo
del 1996 (Giacomozzi, Selmini), l’altro nell’anno successivo (Selmini). Per
quanto riguarda il comitatismo bolognese, l’indagine empirica svolta ha portato a
7
dei risultati imprevisti. Anche Bologna, al pari di molte città, ha conosciuto un
periodo di forte cambiamento sociale. La Bononia felix, città provinciale e a
misura d’uomo ha subito un’evoluzione divenendo sempre più città
metropolitana con tutti i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta. Inoltre, il
capoluogo emiliano ha visto notevolmente incrementare la popolazione
studentesca, passata dai 16.000 degli anni Sessanta-Settanta agli attuali 100.000
(trai quali vanno però inclusi anche gli studenti di origine bolognese o
provenienti dai paesi limitrofi). Tutto ciò a scapito di una diminuzione dei
residenti che da 500.000 sono attualmente circa 360.000. Anche a Bologna,
quindi, si riscontra quel maggiore senso di insicurezza avvertito in altre città
italiane, in particolare a partire dalla prima metà degli anni Novanta. È questo il
periodo nel quale anche nel capoluogo della regione emiliana sorgono alcuni
comitati (ancora pochi) impegnati sul fronte della sicurezza. I risultati imprevisti
cui si faceva riferimento sono legati proprio alle tematiche affrontate dai comitati
bolognesi.
Dal bisogno di sicurezza che ha caratterizzato le origini, i comitati si sono
spostati alle soglie del nuovo Millennio verso un tema avvertito come più
attuale: il diritto alla salute. È infatti intorno al 2000 che cresce il numero dei
comitati che si dichiarano anti-smog. Ma non è tutto. A conferma che una delle
caratteristiche dei comitati è la loro mutevolezza, qualcosa sta ancora
cambiando. Andando per ordine, alcuni dei primi comitati nati sul tema della
sicurezza si sono in seguito avvicinati (senza rinnegare del tutto le origini) al
tema dell’inquinamento in concomitanza con la nascita di numerosi comitati
anti-smog: è probabile che in questo caso abbia fatto da “collante” trai vari
comitati non solo l’interesse comune nei confronti del nuovo tema ma anche una
battaglia legale contro l’allora Giunta comunale di centro-destra. Da questa
esperienza è nata l’idea di un libro intitolato Contro il nemico invisibile:
comitati, inquinamento e salute a Bologna (2002). Il nuovo cambiamento, tuttora
in atto, è diretto verso un aspetto connesso al bisogno di sicurezza: il degrado.
Non a caso, il sostegno alla partecipazione dei cittadini alla prevenzione può
8
essere attuato mediante il miglioramento fisico e sociale dell’ambiente in cui si
vive e sempre non a caso l’esperienza del quartiere Crocetta a Modena è un
chiaro esempio di come i residenti siano convinti che solo migliorando la
vivibilità della zona abitata anche la reputazione del quartiere potrà migliorare. Il
degrado è visto quindi come fonte di insicurezza, terreno fertile per
comportamenti devianti. La “teoria delle finestre rotte” (Broken Windows) di J.
Wilson e G. L. Kelling può essere un buon esempio: il disordine e le inciviltà
aumentano in quelle zone in cui il controllo formale ed informale è carente. In
definitiva, degrado chiama degrado. Nel caso bolognese si potrebbe dire che è
ciò che accade in alcune zone del centro storico come via del Pratello, definita da
molti residenti come una zona franca, stando anche alle parole di alcuni studenti
che confermano che la via è fuori da ogni controllo e ci si può dedicare ad alcune
attività considerate illecite come ad esempio l’affissione abusiva. Anche la
cittadella universitaria conosce problemi analoghi. Come si avrà modo di vedere,
le richieste per risolvere i problemi però non sempre trovano d’accordo i
comitati.
A differenza del Pratello, i cui problemi sono più recenti, per la zona
universitaria già da un decennio si parla di una “questione Piazza Verdi”.
Sebbene molti rappresentanti lamentino un senso di abbandono da parte delle
Istituzioni, risulta evidente come in alcuni casi (Piazza Verdi tra i primi) più che
di “vuoto di potere” bisognerebbe parlare di difficoltà e di tentativi falliti con i
quali le varie Amministrazioni hanno cercato di governare la problematicità
senza riuscirvi (vario è stato, ad esempio, l’utilizzo di metodi rientranti nella
prevenzione situazionale, come le telecamere installate in alcune zone del centro
storico considerate a rischio).
Le difficoltà incontrate nell’azione da parte dei residenti e delle autorità
per migliorare la vivibilità di queste aree in cui forte è la presenza di gruppi
caratterizzati da identità diverse (residenti, studenti, punk-a-bestia, comunità di
migranti, ecc...), possono essere analizzate alla luce delle ricerche del
criminologo americano Robert Sampson, il quale, nel corso dei suoi studi sui
9
comportamenti devianti come causa di degrado urbano e sociale, si esprime in
termini di collective efficacy.
Secondo Sampson, la teoria delle Broken Windows di Wilson e Kelling,
parte da un presupposto sbagliato: il degrado, in determinate zone, non aumenta
perché il controllo formale ed informale è carente, bensì perché la collettività
presente in quei luoghi non è fortemente radicata ed omogenea e soprattutto è
composta da individui che non si conoscono, che non agiscono insieme e che
non provano alcun senso di appartenenza a quei luoghi.
Seguendo la teoria di Sampson, dunque, si potrebbe affermare che la
difficoltà nella gestione delle aree di Bologna definite “franche”, deriva da una
clientela sempre più eterogenea sia nello stile di vita che negli interessi, che
rende complicata una qualunque forma di dialogo e il raggiungimento di un
comune punto di incontro, sebbene non manchino tentativi di instaurare un
confronto costruttivo tra le varie categorie di fruitori degli spazi cittadini. Molti
comitati, infatti, dicono di cercare un dialogo con gli studenti. Gli studenti,
appunto. Una categoria con la quale c’è uno stretto rapporto di amore-odio. Lo
testimoniano le iniziative e gli impegni presi da molte associazioni studentesche
che sono chiamate a partecipare a tavoli di concertazione istituiti da vari
quartieri. Spesso si sentono chiamati in causa ma loro stessi dichiarano di sentirsi
vittime del degrado. E tutti, comitati e studenti, sono concordi nel dire che
mancano gli spazi da dedicare allo svago giovanile e che il modo in cui è stata
pensata la “cittadella studentesca” va contro entrambe le categorie. Non a caso si
parla di una contrapposizione tra “popolo della notte” e “popolo del giorno”, i
quali, trovandosi a condividere degli spazi in comune, finiscono con l’entrare in
conflitto tra loro.
In definitiva, durante gli anni Novanta a Bologna, come in gran parte
dell’Italia, i primi arrivi di extracomunitari provocano insicurezza e portano alla
nascita di aggregazioni di cittadini per fronteggiare il problema. Oggi, invece,
ciò che più trova impegnati i comitati bolognesi è la lotta al degrado e su questo
fronte non di rado ci si scontra con le esigenze di un’altra classe, quella degli
10
studenti, con la quale se da un lato si cerca un dialogo, dall’altro non mancano le
divergenze di opinioni.
Questi cambiamenti di temi ed il modo in cui li si affronta possono essere
spiegati alla luce della teoria del sociologo Kai T. Erikson: i comitati possono
essere considerati come piccole comunità sorte a difesa del proprio territorio da
ogni forma di devianza, dove per devianza bisogna intendere non un tipo
particolare di comportamento, bensì una qualità conferita a quel comportamento
dalla gente che viene in contatto con esso; gente che condivide valori comuni
all’interno di confini caratterizzati dalla propria identità culturale. Secondo
Erikson, dunque, i membri di una comunità definiscono “deviante” il
comportamento di quei soggetti che non rispettano le regole morali del gruppo e
che per questo si trovano ai confini della comunità stessa. Ma si tratta di soggetti
di cui la comunità medesima ha bisogno: “la stigmatizzazione di ‘altri’ pericolosi
garantisce infatti la stabilità dei ‘confini morali’ di una collettività. Le ‘cerimonie
di degradazione’ del criminale […] delineano vere e proprie ‘agorà’ in cui la
comunità - confrontandosi apertamente con coloro che si sono avventurati al di
là dei suoi margini - ha modo di discutere pubblicamente sulla propria identità,
sui valori che la sorreggono e sui confini morali che separano gli insiders dagli
outsiders” (De Giorgi, 2005).
Per concludere, gli immigrati prima, gli studenti poi, possono essere
considerati come quelle classi, molto diverse tra loro, ma accomunate dal
bisogno che il comitatismo bolognese ha di loro per mantenere una propria
identità collettiva. Un bisogno che può spaziare da una via o da un quartiere per
poi “abbracciare” tutta la città a difesa di un comune ideale: l’affermazione della
propria bolognesità.
11
CAPITOLO I:
LA PERCEZIONE DI INSICUREZZA E LE POLITICHE
URBANE DI PREVENZIONE DELLA DEVIANZA. ORIGINE
E SVILUPPO DEI COMITATI DI CITTADINI.
I.1. Il bisogno di sicurezza in Italia tra gli anni Novanta ed i primi del nuovo
Millennio.
Per molti decenni l’opinione pubblica italiana è rimasta indifferente al
tema della sicurezza personale. Per spiegare i motivi di questo disinteresse si è
osservato che il senso di insicurezza del singolo è strettamente connesso ad un
tipo di criminalità micro, una criminalità spesso di natura predatoria che colpisce
direttamente il cittadino ed i suoi interessi personali, quali la propria incolumità o
il patrimonio. Ma prima degli anni Novanta l’attenzione della collettività, delle
Istituzioni e dei media era rivolta ad un tipo di criminalità macro, legata ai delitti
politici perpetuati dal terrorismo di destra e di sinistra, o dai delitti di mafia. Solo
negli ultimi anni del secolo scorso si avverte un cambiamento di priorità da parte
dei cittadini: se in precedenza ciò che veniva chiesto alle Istituzioni era maggiore
protezione dalla criminalità organizzata e da quella di natura politica, oggi il
senso di insicurezza è divenuto più soggettivo.
I motivi del cambiamento possono essere di varia natura. Gli studiosi,
dibattendo sulle cause circa l’aumento dell’insicurezza, le riassumono in base ad
alcuni fattori a volte tra loro alternativi e concorrenti. Si è parlato di “fattore
criminale”, intendendo con tale espressione l’evoluzione dei reati verso forme di
natura più personale, minando la sicurezza del singolo in quanto tale e
provocando, di conseguenza, un’enfatizzazione del senso di vulnerabilità da
12
parte dei cittadini; di “fattore istituzionale”, ossia del maggiore o minore grado di
fiducia verso le Istituzioni, responsabili di non garantire un controllo adeguato ed
efficace della società dai rischi e di non essere quindi in grado di rassicurarla;
connesso a quest’ultimo vi è anche un “fattore politico”, dovuto alla capacità
degli attori politici di sfruttare le inquietudini e le paure della collettività per
conseguire i propri fini piuttosto che normalizzare il senso di insicurezza, oppure
di tradurre la domanda sicuritaria in ambito locale ed urbano come mezzo di
negoziazione idoneo alla riduzione del conflitto
1
; inoltre, si può ravvisare
l’esistenza di un “fattore di solidarietà sociale”, consistente nella riduzione delle
reti amicali di relazione interpersonale, nella crisi di legami di natura
comunitaria, che comportano una flessione nella difesa dell’ambiente
provocando un isolamento e un senso di disorientamento trai cittadini
2
; ed in
conclusione, un fattore che riassume in tutto o in parte quelli precedenti è quello
legato alla globalizzazione: questa fa si che problemi geograficamente lontani,
come una guerra o una catastrofe naturale, o eventi di natura economica, come le
crisi di borsa, pur non essendo prevedibili o controllabili dagli attori politici e
dalle istituzioni, hanno ripercussioni dirette sulla vita dei singoli e sui bilanci
delle famiglie, il tutto amplificato da un altro aspetto della globalizzazione che è
quello relativo alla divulgazione mediatica di tali eventi.
Questi fattori, dunque, si ritiene abbiano portato ad una
soggettivizzazione dell’insicurezza, ad un crescente bisogno di sicurezza
personale, e ad un’attenzione maggiore verso tematiche che in passato trovavano
limitata attenzione da parte dell’opinione pubblica italiana. Non è un caso,
quindi, che la “questione criminalità”, a partire dalla metà degli anni Novanta,
1
A Torino la domanda di sicurezza ha provocato intorno alla metà degli anni Novanta l’insorgere
di moti di scontento che hanno generato il rischio di una “crisi urbana” evitato dalla successiva
azione politica della Giunta neo-eletta che ha agito di concerto anche con i cittadini fautori della
protesta (Allasino, Bobbio, Neri, 2000).
2
Il criminologo americano Robert J. Sampson si esprime al riguardo in termini di collective
efficacy, intendendo con tale espressione che più forte è la rete amicale che i residenti riescono a
costruire, minore è il rischio che il quartiere sia soggetto a fenomeni di degrado o a fattori
criminogeni.
13
abbia subito un cambiamento nelle priorità della collettività, un cambiamento
ravvisabile anche negli studi statistici condotti in quegli anni.
L’arco temporale che va dal 1997 al 2001 è stato oggetto di studio da
parte dell’Osservatorio sociopolitico dell’ISPO. Grazie ai dati forniti da un
campione di individui di età superiore ai 18 anni, distribuito in oltre 450 comuni,
si è rilevato, tra il Gennaio del 1997 ed il Febbraio del 2001, un vistoso aumento
del senso di insicurezza legato alla criminalità e un relativo incremento di
domanda securitaria. Trai temi più importanti che il Governo dovrebbe
affrontare, secondo l’opinione pubblica, vi è la crescita della criminalità, passata
dal 16,2% al 35,2%; mentre, un dato forse più interessante, è quello relativo
all’immigrazione, che passa dal 5,3% ad un 20,5% inteso come immigrazione
fonte di criminalità (a questo dato va aggiunto un 8,6% del campione che vede
nell’immigrazione un problema legato all’accoglimento e all’integrazione degli
extracomunitari). Come spiegare un aumento così vistoso della tematica
sicuritaria? Si può ipotizzare, innanzitutto, che in tale periodo la criminalità sia
effettivamente cresciuta, o che si sia comunque verificato un peggioramento
delle condizioni di sicurezza e vivibilità nel nostro paese. Dagli studi condotti,
risulta un incremento dei delitti di natura predatoria, delitti patrimoniali che,
sebbene meno gravi di quelli che colpiscono l’incolumità personale, alimentano
più di questi ultimi le paure degli individui in quanto insidiano più da vicino la
sfera privata
3
. Tuttavia, sebbene questi elementi possono in parte giustificare la
preoccupazione dei cittadini sui temi della sicurezza personale e della
criminalità, al tempo stesso non sono di per sé sufficienti a spiegare il brusco
cambiamento verificatosi nell’opinione pubblica in specifici momenti temporali
e l’inquietudine crescente con conseguente reazione sociale da parte della
collettività (cfr. Allasino, Bobbio, Neri, 2000) a partire dal 1999
4
.
Una ulteriore spiegazione può essere fornita prendendo in considerazione
alcuni eventi a forte impatto emotivo e conseguente amplificazione da parte dei
3
Sull’argomento è possibile trovare un’accurata disamina in Barbagli M, 2003, Rapporto sulla
criminalità in Italia, Bologna, Il Mulino.
4
Alcuni autori (Diamanti, Bordignon, 2001) parlano al riguardo si <<sindrome del ‘99>>.
14
media accaduti in quegli anni. Avvengono in alcune metropoli italiane fatti di
sangue che minano la sicurezza urbana, episodi di violenza che vengono messi in
risalto da stampa e televisioni
5
e che hanno come conseguenza un aumento
dell’insicurezza e una risposta, in termini di protesta, da parte di commercianti e
cittadini che sfilano in cortei chiedendo maggiore protezione.
Il periodo in questione è caratterizzato dall’imminenza delle elezioni
politiche del Maggio del 2001. La questione criminalità diventa, in modo
inevitabile, motivo di dibattito e di scontro trai diversi schieramenti. Alcuni
partiti, cavalcando lo scontento, si propongono come portatori delle istanze di
sicurezza dei cittadini e sfruttano l’inquietudine facendone il proprio manifesto
elettorale (come ad esempio la Lega Nord), con l’obiettivo di tradurre in
consenso politico il bisogno di sicurezza. Il risultato di tale operazione è
un’enfatizzazione del problema che porta a consolidare il tema della criminalità
nell’opinione pubblica. Si crea così un circolo vizioso in base al quale ad un
aumento della paura, dovuto ad un effettivo aumento della criminalità, segue un
maggiore incremento dovuto all’azione dei media che amplificano il problema
enfatizzandolo e provocando una crescita della percezione di insicurezza da parte
della collettività
6
.
Ma per meglio comprendere l’aumento della domanda di natura
sicuritaria occorre rapportare il problema legato alla criminalità ad altri temi che
risultano ad esso contestuali, come quello relativo all’immigrazione. Infatti, dalle
ricerche condotte
7
risulta che gli extracomunitari sono visti, in Italia, come fonte
di elevato grado di preoccupazione sociale, in rapporto a motivi di ordine
pubblico e sicurezza personale.
5
I media hanno, secondo alcuni autori (tra gli altri Cohen S. e Lemert E.), un ruolo di primo
piano nelle strategie del controllo sociale.
6
È quanto accade, ad esempio, a livello locale, per ciò che riguarda i temi affrontati dai comitati
di cittadini: a Bologna si assiste ad un incremento dell’interesse di tali attori verso la tematica
securitaria al verificarsi di episodi di violenza soprattutto se questi ultimi avvengono in zone
considerate dai residenti “franche”, mentre nei periodi in cui non si hanno eventi di cronaca nera,
l’attività dei comitati è rivolta verso altre tematiche o i comitati stessi sembrano essere inattivi.
7
Diamanti I., 2001, Immigrazione e cittadinanza in Europa. Seconda indagine sugli
atteggiamenti dei cittadini in otto Paesi europei. Appunti preliminari sui risultati, in ‘Quaderni
FNE-Collana osservatori’ n°3.
15
I primi anni Novanta costituiscono il periodo in cui comincia a realizzarsi
il progetto di un’Europa unita, con l’apertura delle frontiere e l’avvio
dell’allargamento dell’UE ai paesi dell’Est. Tutto questo viene visto col timore
di nuovi e massicci flussi migratori da Est verso Ovest, portatori di nuova
criminalità.
Un altro tema cui rapportare l’incremento della richiesta di maggiore
sicurezza, è legato all’occupazione. A cavallo tra gli anni Novanta e il nuovo
Millennio, la società italiana, specialmente nelle zone del Nord-Est, ha raggiunto
un grado di benessere tale da portare da un lato, all’accentuarsi delle paure
relative ai reati contro il patrimonio, dall’altro alla migrazione in queste aree di
una criminalità di natura predatoria. Inoltre, tale benessere ha comportato un
aumento dell’occupazione, che negli anni precedenti era avvertita come una
priorità, spostando così l’attenzione verso temi più di attualità, come appunto
l’immigrazione.
Il senso di insicurezza, dunque, sembra penetrare maggiormente nelle
aree a denso sviluppo economico e industriale (non a caso nel Mezzogiorno la
priorità risulta essere ancora oggi legata al problema dell’occupazione,
assumendo l’immigrazione un interesse più marginale), o nelle realtà urbane
dove il bisogno di sicurezza appare caratterizzato ed incrementato dal rapporto
con il fenomeno migratorio, il quale contribuisce (anche grazie al ruolo svolto
dal già menzionato “fattore politico”) ad accentuare le distanze, anche
ideologiche, nella popolazione.
Gli anni a cavallo tra i Novanta ed il nuovo Millennio sono, quindi, il
periodo in cui l’Italia entra a pieno titolo tra i “Paesi di immigrazione”, anche se
ancora oggi la presenza di immigrati risulta essere in percentuale minore rispetto
ad altri Stati europei
8
, in alcuni dei quali, come ad esempio in Francia, il
processo di integrazione è avviato ormai da anni
9
.
8
I dati relativi ai permessi di soggiorno rilasciati tra il 1992 ed il 1997 indicano una presenza di
extracomunitari che nel nostro paese si attesterebbe intorno all’1,5%. Una percentuale di gran
lunga minore rispetto alla media europea che si attesta intorno al 5%. Il fenomeno immigrazione
risulta comunque in crescita, come testimoniano gli ultimi dati forniti dal Ministero degli Interni,
16
La sociologia criminale si è a lungo occupata dei fenomeni sociali
collegati all’immigrazione. Ma ciò che più interessa in questa sede, è tracciare
per linee generali l’evoluzione del senso di insicurezza degli individui ed il
bisogno di ricevere una maggiore tutela da parte degli attori sociali a questo
compito preposti, nel periodo compreso tra il 1997 i primi del 2000.
L’arco di tempo preso in considerazione rappresenta gli anni del
cambiamento, gli anni in cui la sicurezza urbana entra di prepotenza nell’agenda
politica italiana, coadiuvata da una massiccia azione mediatica che, in una sorta
di circolo vizioso, da un lato dà visibilità alle paure e alle inquietudini della
popolazione, dall’altro, contribuisce in questo modo ad incrementarle.
Questa nuova situazione nasce dalla necessità di far fronte ad un
profondo cambiamento sociale che ha avuto inizio proprio negli anni Novanta.
Le trasformazioni delle città, il crescente senso di disagio nella vita urbana, il
diradarsi delle forme di controllo sociale informale, l’accentuarsi dei fenomeni
migratori, la crisi della partecipazione politica in seguito alle vicende di
Tangentopoli e, di conseguenza, le crescenti difficoltà delle relazioni tra la
società civile ed il mondo istituzionale, la crisi dello stato di welfare e del
sistema penale, sono tutte cause che hanno spinto verso una partecipazione più
attiva dei cittadini alla vita e ai bisogni delle proprie città, verso una dimensione
più locale e decentrata della vita politica, e verso la consapevolezza che il
cambiamento porta con se il bisogno di avere la garanzia di una maggiore
secondo i quali la popolazione immigrata si attesterebbe attualmente intorno al 5%, con circa 2.5
milioni di extracomunitari. In aumento anche la media europea.
9
Nell’ottobre del 2005 la periferia parigina ha conosciuto momenti di forte tensione sociale. Gli
immigrati francesi di seconda generazione hanno dato vita a numerosi scontri che hanno
infiammato le banlieues francesi. Il processo di integrazione, quindi, sebbene avviato da anni, ha
solo provocato un malcontento diffuso a causa della forte differenza sociale tra classi. Questo a
dimostrazione di come l’integrazione sia un processo da regolamentare per evitare che anche
nelle nostre città, un domani, possa verificarsi qualcosa di simile a quanto sta accadendo in
Francia. Nel caso italiano, tuttavia, occorre precisare che gli immigrati attualmente presenti sono
per lo più di prima generazione. Molti di loro sono irregolari e dediti a reati prevalentemente
predatori. Quelli di seconda generazione (che in Francia hanno accumulato rabbia per la loro
condizione marginale nella società) in Italia sono pochissimi e “in fasce”. Non hanno ancora
avuto modo, dunque, di accumulare quel carico di frustrazione e rabbia che ha portato i loro
equivalenti francesi a devastare le periferie parigine.
17
vivibilità delle città a fronte di una crescente insicurezza in relazione a fenomeni
di micro-criminalità e degrado.
Sono anni in cui le città italiane si stanno avviando a conoscere i vantaggi
e gli svantaggi di una città metropolitana. Anche i centri urbani un tempo definiti
come “provinciali” devono cominciare a misurarsi con una situazione per loro
nuova. E non mancano casi nei quali il cambiamento ha provocato o provoca
ancora oggi uno spaesamento, una condizione di anomia, che a volte sfocia in
comportamenti violenti o ai limiti della violenza, tali da comportare il rischio che
si verifichino delle vere crisi urbane (Allasino, Bobbio, Neri, 2000).