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CAPITOLO I
STORIA DELL’ORDINAMENTO
GIUDIZIARIO DALL’UNITÀ D’ITALIA
ALLA CRISI DEL XX SECOLO
1.1. Dallo Statuto albertino al regime fascista
L’ordinamento giudiziario italiano vigente, disciplinato dal R.D. 30-1-1941
n. 12 e settorialmente modificato negli anni successivi, deriva dai precedenti
ordinamenti giudiziari dello Stato italiano: quello disciplinato dalla legge n.
2626 del 1865 e quello successivo disciplinato dal TU n. 2786 del 1923.
La prima legge sull’ordinamento giudiziario, emanata con l’unificazione del
Regno d’Italia, fu mutuata dalla legislazione napoleonica, in particolare dalla
legge del 20 aprile 1810, infatti l’ordinamento giudiziario italiano risulta
essere influenzato dalle vicende della Francia del XVIII secolo, piuttosto che
dalle legislazioni degli Stati italiani preunitari. Infatti, nel 1865 fu deciso di
estendere a tutto il territorio nazionale il modello giudiziario del Regno di
Sardegna, in cui vigeva lo Statuto albertino, ispirato alla costituzione francese
del 1814 e a quella belga del 1830. Lo Statuto fu concesso da Carlo Alberto il
4 marzo del 1948 ed era considerato la prima carta fondamentale dello Stato
italiano. Agli artt. 68-73 lo Statuto sanciva alcuni principi, peraltro derogabili
dal legislatore (si trattava di una costituzione flessibile), sull’ordine
2
giudiziario. In particolare, l’art. 68 recitava: «La giustizia emana dal Re ed è
amministrata in suo nome dai giudici che egli istituisce». Si trattava di una
deroga al principio classico della separazione dei poteri formulato da
Montesquieu
1
, poiché il potere giudiziario non era autonomo, ma dipendeva
dall’esecutivo. Infatti, l’art. 5 stabiliva che «al Re solo appartiene il potere
esecutivo» e l’art. 3 dichiarava che «il potere legislativo sarà collettivamente
esercitato dal Re e da due Camere: il Senato e quella dei Deputati»; quindi il
Re partecipava sia del potere legislativo che di quello giudiziario. Lo Statuto
si collocava perciò tra quelle Carte costituzionali del 1848 che consideravano
la giustizia come un momento del potere dell’esecutivo, distinte dalle altre
che, al contrario, ritenevano la giustizia essere una delle tre attività
fondamentali dello Stato e cercavano di organizzare l’ordine giudiziario in
modo da garantirne l’indipendenza dall’esecutivo e dal Parlamento
2
. Nello
Statuto si parlava di “ordine giudiziario”, non di “potere”; né era
1
Nel 1748 il Charles-Louis de Secondat de Montesquieu pubblicò l’ “Esprit des
lois” (Spirito delle leggi), nel quale affermava che « vi sono in ogni Stato tre specie
di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto
delle genti, ed il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto civile. Grazie
al primo, il principe o il magistrato fa delle leggi per un certo tempo o per sempre e
emenda o abroga quelle che sono già fatte. Grazie al secondo, fa la pace o la guerra,
invia o riceve ambasciate, organizza la difesa, previene le invasioni. Grazie al terzo,
punisce i delitti, o giudica le controversie dei privati. Chiameremo quest’ultimo
potere giudiziario e l’altro semplicemente potere esecutivo dello Stato. […]Quando
nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito
al potere esecutivo, non esiste libertà; perché si può temere che lo stesso monarca o
lo stesso senato facciano delle leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. E non
vi è libertà neppure se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e
dall’esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere della vita e della libertà
dei cittadini sarebbe arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore. Se fosse unito al
potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. […] Nella
maggior parte dei Regni d’Europa il governo è moderato perché il principe, che ha i
due primi poteri, lascia ai sudditi l’esercizio del terzo. Presso i turchi, dove i tre
poteri sono riuniti nella persona del sultano, regna un orribile dispotismo. Nelle
Repubbliche italiane, dove questi tre poteri sono riuniti, la libertà è minore che nelle
nostre monarchie. Perciò il governo ha bisogno, per sostenersi, di mezzi altrettanto
violenti di quelli adottati dal governo turco; prova ne siano gli inquisitori di Stato e
la cassetta in cui qualsiasi delatore può, in qualsiasi momento, gettare con un
biglietto la propria accusa.» in Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, Lo
spirito delle legge, traduzione italiana di B. Boffito Serra, VI ed., Milano, 2004, 310
ss.
2
D’ADDIO, Politica e magistratura (1848-1876), Milano, 1966, 7.
3
espressamente sancita l’indipendenza della magistratura, che secondo la
dottrina maggiormente accreditata rappresentava una mera branca della
funzione esecutiva. Infatti nello Statuto erano riconosciuti solo due poteri,
quello legislativo e quello esecutivo, come dimostrato dall’art. 73 che,
prevedendo una rigorosa riserva in favore del potere legislativo per quanto
riguardava l’interpretazione autentica delle leggi, toglieva qualsiasi dubbio
sulla possibilità di interpretazione giurisprudenziale, e sulla eventuale
funzione nomofilattica dei giudici
3
.
L’art. 69 stabiliva che «I giudici nominati dal Re, ad eccezione di quelli di
mandamento, sono inamovibili dopo tre anni di esercizio»: si trattava solo di
una concessione apparente, in quanto venivano esclusi gli aggiunti giudiziari,
i pretori, gli uditori. Inoltre, l’art. 199 del Regio Decreto 6 dicembre del
1865, n. 2626 sull’ordinamento giudiziario del Regno d’Italia stabiliva che i
funzionari (quindi i giudici erano funzionari) erano inamovibili, ma potevano
essere tramutati da una Corte o da un Tribunale, ad altra Corte o Tribunale
“per l’utilità del servizio”; dunque la legge organica italiana del 1859-1865
stabilì una differenza fondamentale tra inamovibilità di grado e inamovibilità
di sede, e solo la prima delle quali era garantita. Questa disposizione rimase
in vigore fino alla legge Orlando 24 luglio 1908, n. 438.
L’art. 70 stabiliva che «[…] non si potrà derogare all’organizzazione
giudiziaria se non in forza di una legge», principio che riconosceva
implicitamente l’importanza dell’organizzazione giudiziaria e la poneva al
riparo da eventuali modifiche ad opera dell’esecutivo. Infine, lo Statuto
sanciva all’art. 71 il principio del giudice naturale precostituito per legge e il
divieto, strettamente legato al primo, della creazione di tribunali straordinari
appositamente per giudicare quel determinato caso. Tale disposizione da una
parte tutelava i cittadini dall’arbitrio dei tribunali straordinari creati ad hoc
per una determinata controversia, dall’altra attribuiva un notevole prestigio
3
C’è stato anche chi ha letto la disposizione come un’implicita affermazione della
separazione fra gli organi legislativi e quelli giudiziari, che avrebbe potuto condurre
ad un’evoluzione costituzionale verso un’indipendenza del potere giudiziario, cfr. P.
MAROVELLI, L’Indipendenza e l’autonomia della magistratura italiana dal 1848 al
1923, Giuffrè, 1967, 22.
4
alla magistratura, non essendo possibile sottrarre un soggetto alla competenza
della magistratura ordinaria.
La legge Siccardi del 19 maggio 1851 n. 1186 introdusse il principio di
inamovibilità dei giudici dalla sede
4
, rimettendo alla Corte di Cassazione,
considerata quale grado immediatamente inferiore a quello del Guardasigilli,
di decidere se «vi fosse luogo a rimozione o sospensione del magistrato che
avesse violato i suoi doveri» o si trovasse in condizione di incompatibilità
morale, per una serie di cause ivi previste, e se dovesse essere trasferito. La
legge Siccardi prevedeva inoltre, all’art. 9, entro quali limiti il magistrato
poteva essere trasferito: nel caso che il magistrato non avesse potuto
convenientemente amministrare la giustizia nel luogo di residenza e solo
previa dichiarazione della Corte di cassazione. La legge Siccardi escludeva
l’ingerenza dell’esecutivo su questa materia. Il Ministro di giustizia deteneva
il potere di alta sorveglianza sulla magistratura
5
, quest’ultima organizzata in
modo gerarchico e piramidale, al cui vertice si collocava lo stesso Ministro.
Nel 1859 fu emesso il decreto n. 3781 sull’ordinamento giudiziario, cd
decreto Rattazzi, volto a «rendere al potere esecutivo quella maggiore
autorità che di ragione gli appartiene, serbando i naturali rapporti delle cose
per mantenere stabilmente la disciplina nell’ordine giudiziario»
6
. Il Ministro
di giustizia poté pubblicare il decreto superando gli ostacoli posti dalla
commissione della camera, grazie alla legge del 25 aprile 1859, n. 3345, con
la quale il Parlamento, allo scoppio della guerra del 1959 contro l’impero
d’Austria, concesse eccezionalmente al governo tutti i poteri legislativi in
difesa della patria e delle istituzioni. Fu così che il ministro di grazia e
giustizia emanò i quattro codici fondamentali: il codice penale, di procedura
4
Art. 1 «I giudici che, ai termini dell’art. 69 dello Statuto, hanno acquistato
l’inamovibilità, non possono essere privati dalla loro carica, né sospesi dall’esercizio
delle loro funzioni, né senza il loro consenso traslocati o posti in aspettativa o a
riposo anche con pensione di ritiro od altro assegnamento, se non nei casi previsti da
questa legge e secondo le forme in esso prescritte».
5
Art. 26 «Il ministro della giustizia esercita l’alta sorveglianza su tutti i giudici dello
Stato; può, occorrendo, chiamarli a sé, affinché, si spieghino sui fatti che vengono
loro imputati».
6
Documenti della Camera e del Senato, sess. 1853-54, 317.
5
penale, civile e di commercio. Il decreto sull’ordinamento giudiziario
disegnava un sistema giudiziario gerarchico, con ingenti poteri al Ministro
della giustizia, il quale nominava discrezionalmente giudici di tutti i gradi, tra
avvocati e docenti di diritto, e gestiva anche le carriere dei magistrati. La
magistratura requirente era separata da quella giudicante, era garantita solo
l’inamovibilità dal grado, infatti i trasferimenti di sede erano consentiti solo
in condizioni eccezionali, ma di fatto erano frequenti le richieste del governo,
in quanto si serviva del pubblico ministero, «il rappresentante del potere
esecutivo presso l’autorità giudiziaria» (art. 146), per ricoprire i posti più
importanti e i gradi più elevati della magistratura giudicante. Il pubblico
ministero ricopriva un ruolo maggiormente influente del giudice, nei
confronti del quale poteva esercitare poteri di iniziativa disciplinare. In
conclusione, con la legge del 1859 l’indipendenza e autonomia della
magistratura, già ridotte, furono completamente svuotate di contenuto.
Con l’unificazione del Regno d’Italia e la Destra al potere (vi rimase fino al
1876) la magistratura rappresentava una articolazione della classe politica
tout court
7
.
Infatti, il Regio decreto 6 dicembre 1865, n. 2626, sull’ordinamento
giudiziario confermava sostanzialmente la situazione presente. In particolare
l’art. 1 stabiliva che la giustizia penale e civile era amministrata da
conciliatori, pretori, tribunali civili penali e commerciali, dalle corti di
appello, dalle corti di assise e dalla Corte di cassazione; leggi speciali
regolavano la giurisdizione per reati militari e marittimi. Per essere ammessi
alle funzioni giudiziarie era necessario avere esercitato il tirocinio in qualità
di uditore, qualità che si otteneva dopo aver conseguito la laurea in legge
presso una università italiana e aver vinto la prova di un concorso, che
doveva aver luogo per iscritto davanti ad una commissione esaminatrice
7
Così descrive la situazione Livio Pepino, e aggiunge: «la maggior parte degli alti
magistrati era di nomina governativa (spesso di estradizione direttamente politica,
che, per molti magistrati nominati tra il 1862 e il 1866, coincideva con la
partecipazione alle lotte del Risorgimento) e frequente erano i passaggi dall’ordine
giudiziario al Parlamento e al governo, tanto che, fra il 1861 e il 1900 metà dei
ministri della giustizia (17 su 34) e dei relativi sottosegretari (11 su 21) proveniva
dai ranghi della magistratura.» in Questione Giustizia, 2002, 113.
6
nominata dal ministero della giustizia. Le carriere della magistratura
requirente e giudicante erano parallele e separate, in particolare il pubblico
ministero, al quale era dedicato il titolo III, era il «rappresentante del potere
esecutivo presso l’autorità giudiziaria e posto sotto la direzione del ministro
di giustizia» (art. 129
8
). Egli doveva vigilare sull’esecuzione delle leggi, alla
pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello
stato, degli enti morali e delle persone che non avessero la piena capacità
giuridica, promuovere la repressione dei reati, far eseguire i giudicati e far
eseguire e osservare le leggi di ordine pubblico (art. 139 ss.). Era garantita
solo l’inamovibilità dal grado, ma non dalla sede. In definitiva, la legge del
1865 disegnava un ordine giudiziario sottoposto all’esecutivo, la cui struttura
era quella gerarchica, analoga ad un corpo amministrativo dello stato. Sorsero
presto non poche critiche al modello francese di ordinamento giudiziario, tali
da indurre il legislativo ad apportare alcune modifiche, al fine di rafforzare
l’indipendenza dei magistrati e concedere all’ordine giudiziario una vera e
propria autonomia, intesa nel senso di autogoverno. Seguirono una serie di
progetti, Costa, Bonasi, Zanardelli, Ronchetti e Gallo, nessuno dei quali
riuscì a raggiungere l’approvazione delle Camere. fino alle leggi di riforma
Orlando del 1907, n. 511, e del 1908, n. 438, volte a stabilire una «disciplina
di ferro e guarentigie assolute», in quanto nessun funzionario dello Stato
doveva essere più indipendente del giudice e nessuno più disciplinato; così si
espresse il Ministro Orlando nella relazione al progetto. Con le leggi Orlando
furono ampliate le garanzie di indipendenza dei magistrati (inamovibilità solo
per i giudici, solo dalla sede e solo dopo tre anni di espletamento delle
funzioni), soprattutto fu istituito con legge il Consiglio superiore della
8
Impallomeni ritiene che l’art. 129 del Regio decreto 6 dicembre 1865 n. 2626
sull’ordinamento giudiziario (potrebbe essere una nota del capitolo primo dove ho
citato l’articolo) è stato interpretato fino a quel momento nel senso che il pubblico
ministero sia un potere intermedio tra il potere esecutivo e il giudiziario in modo da
rappresentare presso di esso l’interesse che ha l’esecutivo dell’attuazione della legge
penale; inoltre che il pubblico ministero non inamovibile, sia disciplinarmente sotto
la diretta sorveglianza del ministro di giustizia, ma per quanto riguarda l’esercizio
delle funzioni giuridiche se ne è sempre ritenuta l’indipendenza, in G. IMPALLOMENI,
L’azione penale, in Giustizia penale, 1901, 354.
7
magistratura, al quale furono affidate competenze in materia di disciplina e
carriera dei magistrati.
Se è vero che la Destra aveva la responsabilità di aver ridotto la magistratura
ad un mero strumento a disposizione del governo, la Sinistra tuttavia, salita al
potere, non cambiò sostanzialmente lo stato delle cose. Infatti, la legge
Rattazzi rimase immutata anche sotto il governo della Sinistra;
semplicemente da quel momento la magistratura avrebbe dovuto servire la
Sinistra per il soddisfacimento dei suoi fini, così some fece precedentemente
per la Destra
9
.
Nel frattempo all’interno della stessa magistratura serpeggiava un
malcontento generale, ma non solo tra i gradi inferiori, per la situazione di
soggezione con l’esecutivo; questo portò nel 1909 alla nascita
dell’Associazione Generale fra i Magistrati Italiani (AGMI), prima forma di
rappresentanza professionale
10
.
Infine, nel 1921 furono ampliate le guarentigie della magistratura,
prevedendo l’inamovibilità anche per i pretori e sancendo l’elettività di tutti i
membri del Csm.
Prima dell’avvento del fascismo, dunque, la magistratura si presentava come
un’organizzazione fortemente gerarchica, composta da giudici funzionari di
carriera, e non giudici elettivi
11
, sottoposta all’esecutivo.
Seguirono gli anni del regime fascista, durante il quale fu modificato
l’ordinamento giudiziario con il TU n. 2786 del 1923, il quale fu
9
R. CANOSA – P. FEDERICO, La magistratura in Italia dal 1945 a oggi, Il Mulino,
1974, 14.
10
C. GUARNIERI, Magistratura e politica, Il Mulino, 1992, 85
11
L’Autore Canosa specifica che il giudice funzionario, diversamente da quello
elettivo, “porta con sé quelli che sono i caratteri tipici della ‘personalità burocratica’,
vale a dire un notevole conformismo sia nella attività professionale che fuori di essa,
una devozione assoluta ai regolamenti, con la conseguente capacità di reagire a
situazioni particolari che non rientrano negli schemi di comportamento predisposti,
una stretta dipendenza dai detentori del potere politico al cui servizio la
organizzazione burocratica opera […]. Inoltre, il legame con il ‘popolo’ che sussiste
sempre al cospetto di un organo eletto da un collettivo, e che consente di
contrapporre al potere della istituzione la forza del collettivo a cui l’eletto può
sempre fare riferimento, è, in casi di investitura burocratica, totalmente inesistente”
in R. CANOSA – P. FEDERICO, op. cit., 60, nota 21.
8
parzialmente influenzato dalla tendenza liberalistica degli anni precedenti. La
riforma peraltro era fortemente attesa dalla magistratura, la quale da tempo
auspicava un intervento volto ad attribuire una più elevata qualificazione e
indipendenza nei confronti degli altri poteri e una maggiore capacità di
contribuire allo sviluppo del diritto con l’attività di interpretazione della
legge, che è istituzionalmente attività propria del giudice
12
. Tuttavia, il testo
deluse le aspettative della magistratura, perché rimase sulla linea
tradizionale: alta sorveglianza del guardasigilli su tutti i giudici, possibilità
per il Ministro di chiamare presso di sé i giudici per interrogarli su fatti loro
addebitati ed eventualmente ammonirli, strettissima dipendenza del pubblico
ministero dal Ministro.
Durante il regime furono emessi una serie di leggi repressive, tra cui ad
esempio la legge 31 gennaio 1926 n. 100 sulla facoltà del potere esecutivo di
emanare le norme giuridiche, la legge 25 novembre 1926 n. 2008 sulla difesa
dello Stato, che prevedeva, tra l’altro la creazione di un Tribunale speciale
per la repressione dei reati contro lo Stato, che fu uno degli strumenti più
efficaci della dittatura. Nel 1930 fu emanato il nuovo codice penale e nel
1933 il codice di procedura penale, il cd “codice Rocco” in linea con il
disegno politico del regime autoritario, e fu modificato l’ordinamento
giudiziario con il R.D. 18 giugno del 1941 ad opera del ministro fascista
Dino Grandi, in piena guerra mondiale. Il nuovo ordinamento giudiziario
sottopose completamente la magistratura al potere esecutivo, accentuando
quella dipendenza presente in età liberale
13
: in particolare le promozioni, solo
per posti annualmente disponibili, si conseguivano per i gradi di appello con
concorso per esame e per titoli, o solo per titoli, o con scrutinio a turno di
anzianità (art. 145 e ss.); ai gradi di cassazione esse si conseguivano mediante
12
PANIZZA-PIZZORUSSO-ROMBOLI, Ordinamento giudiziario e forense, Plus, Pisa,
2002, vol. I, Antologia di scritti, 6.
13
Nella relazione al Decreto del 1941 il Guardasigilli specifica che “nel regolare lo
stato giuridico dei magistrati ho naturalmente respinto il principio del cosiddetto
autogoverno della magistratura, incompatibile con il concetto dello Stato fascista, in
quanto non è ammissibile che nello Stato esistano organi indipendenti dallo Stato
medesimo, o autarchie, o caste sottratte al potere sovrano unitario, supremo
regolatore di ogni pubblica funzione”.
9
concorso per titoli ovvero mediante scrutinio a turno di anzianità (art. 176 e
ss.). Le commissioni giudicatrici dei concorsi erano nominate dal Ministro
(artt. 151, 157 e 182), mentre per le promozioni per scrutinio a turno di
anzianità il Ministro, quando lo riteneva necessario, richiedeva al Consiglio
superiore della magistratura di procedere allo scrutinio (artt. 162 e 184). I
gradi di primo presidente della Corte di appello, di procuratore generale
presso la Corte di appello, di presidente di sezione e di avvocato generale
della Corte suprema di cassazione venivano conferiti a magistrati scelti per
meriti particolari su proposta del Ministro, previa deliberazione del Consiglio
dei Ministri (art. 188), così come venivano scelti il primo presidente ed il
procuratore generale della Corte suprema di cassazione (art. 189). Inoltre, era
stabilito che il passaggio dei magistrati dalla funzione giudicante a quella
requirente e viceversa, essendo la magistratura giudicante e requirente
unificata nel ruolo di anzianità e distinta solo nelle funzioni, era deciso dal
Ministro (art. 190); l’assegnazione delle sedi per tramutamento era disposta
egualmente dal Ministro (art. 192).
Il consiglio superiore della magistratura era istituito presso il Ministero, era
presieduto dal primo presidente della Corte di Cassazione ed era composto,
oltre che dal procuratore generale presso la stessa corte, da otto componenti
effettivi e sei supplenti, tutti di grado non inferiore a consigliere di
cassazione, nominati con decreto reale su proposta del Ministro, sentito il
Consiglio dei ministri (art. 213). Era previsto che solo i magistrati giudicanti,
almeno col grado di giudice o di pretore, erano inamovibili, ma comunque
potevano essere trasferiti di ufficio nei casi previsti dalla legge (artt. 217 e
ss.). Tutti i magistrati erano giudicati disciplinarmente da una corte
disciplinare composta da magistrati nominati con decreto reale su proposta
del Ministro, previa deliberazione del Consiglio dei ministri (art. 236). Il
pubblico ministero esercitava le sue funzioni sotto la direzione del Ministro
(art. 69), fu confermato essere il rappresentante del governo presso l’autorità
giudiziaria, e fu stabilito che non potesse essere ricusato, salva la facoltà di
astenersi per gravi ragioni di convenienza.
10
La modifica della materia giudiziaria non fu una delle prime prerogative del
regime fascista, evidentemente perché così come era regolato il sistema
giudiziario nel periodo liberale era già sufficientemente autoritario da non
richiedere un intervento urgente e totale
14
. La magistratura dell’epoca fascista
si sottomise al potere: salvo rari casi di magistrati che continuarono a
giudicare secondo coscienza, la maggior parte di essi interpretò in modo
ancor più repressivo le leggi che violavano i diritti e le libertà personali. È
necessario comunque precisare che vigeva una dittatura, in cui non era data
neppure una minima possibilità di dissenso, ma ciò che fu grave è che l’intera
istituzione coadiuvò la creazione di questo stato di cose e che, quindi, «abbia
accettato di porsi (o restare) al servizio dei nuovi detentori del potere,
ignorando o dimenticando che la giurisdizione esercitata in uno stato fascista
è - o diviene- anch’essa inevitabilmente fascista»
15
.
1.2. Primo dopoguerra (1945-1950)
Il periodo seguente alla liberazione dello Stato italiano fu caratterizzato dal
passaggio dalla dittatura alla democrazia. I primi interventi legislativi
promossi dai governi di liberazione nazionale non modificarono l’assetto
dell’ordinamento giudiziario del 1941, caratterizzato dalla profonda
dipendenza della magistratura dall’esecutivo, e da una struttura gerarchico-
piramidale. Le timide aperture a iniziative garantistiche e le conseguenti
modifiche della materia giudiziaria erano inserite tuttavia nel medesimo
quadro giudiziario operante durante il fascismo
16
. La situazione post-
14
Il regime fascista non introdusse una riforma significativa dell’ordinamento
giudiziario vigente, tanto da indurre Lochak a parlare di una «sostanziale continuità
istituzionale e normativa» con lo Stato liberale; in Il “Conseil d’Etat”di Vichy e il
Consiglio di Stato nel periodo fascista, in Y. MÉNY (a cura di), Il Consiglio di Stato
in Francia e in Italia, Bologna, 1994.
15
CANOSA- FEDERICO, op. cit, 64.
16
Ne è una conferma l’abuso delle circolari nel corso del ventennio fascista e nel
primo quindicennio della Repubblica, da parte del Ministro della giustizia, per
11
liberazione era caratterizzata da magistrati reclutati per concorso pubblico, a
seguito della laurea in giurisprudenza, e inseriti quindi in un corpo stratificato
per gradi. Ad ogni grado corrispondeva un certo numero di funzioni, e il
passaggio ai gradi superiori teneva conto dell’anzianità e del merito così
come sancito dai superiori gerarchici (principio della cooptazione).
L’esecutivo esercitava una notevole influenza politica, conservando il potere
di nomina dei magistrati di grado più elevato
17
.
Nel 1944, il decreto legislativo luogotenenziale n. 288, ripristinando la
disciplina del codice di procedura penale del 1913, eliminò il potere del
pubblico ministero di archiviare querele e denunce senza l’autorizzazione del
giudice, e stabilì che egli dovesse rivolgere la richiesta al giudice istruttore, il
quale in caso di disaccordo esercitava d’ufficio l’azione penale. Fu inoltre
eliminato il divieto per i magistrati della pubblica professione della fede
politica, in quanto era ritenuto un dovere civico di ogni cittadino. Si
osservava, in proposito, che se la ratio di tale divieto consisteva nell’evitare
che l’appartenenza ad un qualsiasi partito potesse influenzare le pronunce del
magistrato, non sarebbe stato sufficiente tale divieto, in quanto «dentro o
fuori di questi, il giudice non potrebbe non avere le sue opinioni e relazioni,
tanto più efficaci quanto più nascoste»
18
. Tra i vertici della magistratura
emerge l’insofferenza verso il comportamento di molti magistrati, i quali di
frequente facevano pubblicare su giornali articoli, nei quali emergevano le
loro valutazioni politiche e sopratutto disapprovazioni nei confronti
dell’organizzazione giudiziaria. Tutto ciò era fortemente condannato
all’interno dell’ordine giudiziario, in quanto era convinzione che la
magistratura dovesse essere apolitica e asindacale, caratteristiche che
sarebbero state rivendicate di lì a poco dalla magistratura associata.
Nel 1945 si ricompose l’Associazione Nazionale Magistrati Italiani (ANMI),
la quale nel settimanale La Magistratura, precisò quali erano le aspettative
impartire ordini e direttive alle Corti di appello ed ai procuratori generali, utile per
determinare le scelte del governo in tema di politica giudiziaria.
17
C. GUARNIERI – P. PEDERZOLI, op. cit., 125-126.
18
Circolare 6 giugno 1944 n. 285 del Guardasigilli Arangio-Ruiz.
12
del corpo giudiziario nel dopoguerra: memori dell’esperienza passata
auspicavano la necessaria predisposizione di garanzie di indipendenza esterna
(dall’Esecutivo e dal Parlamento) e interna (dai capi di ufficio). L’ANMI
precisava di esser apolitica e asindicale, cosicché rimanesse imparziale a
qualsiasi orientamento e vicenda politica
19
. «Si ha quasi l’impressione,
leggendo ora i testi di quegli anni, che i magistrati aspirassero ad una
posizione di alto prestigio da un lato, di splendido isolamento dall’altro»
20
.
Il 2 giugno del 1946 gli italiani furono chiamati alle urne per votare la forma
di governo e i risultati del referendum confermarono l’esigenza di
cambiamento sentito dalla quasi totalità della Nazione. L’Italia voleva la
Repubblica. Nello stesso referendum i cittadini elessero anche un’Assemblea
Costituente: un parlamento che doveva scrivere il testo della nuova
Costituzione dello Stato. In attesa della Costituzione, i partiti del Comitato di
Liberazione Nazionale si impegnavano ad adottare una disciplina transitoria
di ordinamento giudiziario tesa ad elidere quegli aspetti della normativa
precedente più marcatamente ostili all’autonomia e all’indipendenza
19
Nel primo numero della rivista di Magistratura si legge che «il successo della
Associazione è legato alla piena e incondizionata osservanza di alcuni postulati
programmatici, che devono costituire guida e criterio direttivo nell’azione da
svolgere. Tali postulati sono: l’apoliticità e l’asindacabilità dell’Associazione. Il
concetto di apoliticità si rispecchia e si traduce nell’atteggiamento fermo e costante
di serena imparzialità rispetto alle diverse correnti politiche, tenendo sempre separati
e distinti i compiti e i fini dell’Associazione dai fini e dalla condotta dei partiti
politici (…). Una magistratura organizzata in modo indipendente, quale tangibile
espressione della sovranità dello Stato, non potrebbe assumere atteggiamenti di lotta
propri di un sindacato professionale, contro lo Stato medesimo».
È interessante evidenziare come il problema magistratura-politica sia stato oggetto
anche di dibattito in seno all’Assemblea costituente. In proposito, l’onorevole
Salerno, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, sosteneva che ci deve essere
un rapporto tra il giudice che interpreta e applica la legge e la politica: « Oggi la vita
moderna ci va insegnando questo: che le controversie demandate al potere
giurisdizionale sono sempre più tali da richiedere una larga conoscenza dei bisogni
umani. La politica, quindi, è uno di quei fattori che non possono essere nella vita
collettiva allontanati e respinti, perché è un po' come l'aria che circonda l'essere
umano; politica però della legge, che accompagna la legge stessa, non la politica del
giudice […]».
20
R. CANOSA – P. FEDERICO, op. cit., 93.
13
dell’ordine giudiziario
21
. Così, nel decreto legislativo 31 maggio 1946 n.
511
22
, ancora in parte in vigore, vengono predisposte una serie di garanzie
della magistratura: in primis il principio di inamovibilità dei magistrati
23
di
grado non inferiore a giudice, sostituto procuratore e pretore, senza il loro
consenso (art. 2); tuttavia restava la possibilità per il ministro della Giustizia
di disporne il trasferimento anche senza il consenso, previo parere del
Consiglio Superiore, parere vincolante se si trattava di un giudice,
obbligatorio se era un pubblico ministero. Il Ministro conservava il potere di
“alta sorveglianza” su tutti gli uffici giudiziari, su tutti i giudici e i magistrati
del pubblico ministero, ma tale potere si trasformò in vigilanza, in quanto
venne reciso il legame tra la magistratura requirente e il potere esecutivo.
Rimase la struttura gerarchica dell’organizzazione giudiziaria. Fu imposto il
controllo giurisdizionale del giudice sulle archiviazioni delle notizie di reato,
eliminando l’archiviazione de plano del pubblico ministero. Venne
ripristinato il carattere giurisdizionale della Corte disciplinare e l’elettività
del CSM e dei Consigli giudiziari, denigrati a meri organi consultivi nel
passato regime fascista. Sebbene non vennero definiti i contorni dell’azione
disciplinare
24
, la cui titolarità spettava sempre al Ministro, questi venne
affiancato dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e il
procedimento venne definito da una serie di garanzie per l’imputato,
21
L’esigenza di adeguare l’ordinamento giudiziario ai nuovi valori della democrazia
fu avvertita sin da subito. Umberto Tupini, personalità politica della DC, scriveva
nel quotidiano “Il Popolo” del 17.1.1945: «Occorrerà predisporre le riforme che, in
vista dei nuovi ordinamenti costituzionali dello Stato, siano capaci di assicurare alla
magistratura decoro, prestigio e indipendenza, in una parola libertà dal bisogno sul
terreno economico e dal timore sul terreno politico. Il raggiungimento di così nobile
ed augusta finalità presuppone autonomia del potere giudiziario […]».
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Firmato dall’allora presidente del Consiglio De Gasperi, e dal ministro della
Giustizia, Togliatti.
23
Principio contenuto nel primo articolo del decreto “I magistrati non possono
essere privati delle funzioni e dello stipendi, collocati in aspettativa, in disponibilità
o a riposo, oppure essere destinati ad altra sede o ad altre funzioni, se non nei casi e
nelle forme previsti dal presente decreto”.
24
L’articolo 18 del decreto riproponeva la formula del R.D. del 1941 (art. 232): “il
magistrato che manchi ai suoi doveri o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che
lo renda immeritevole della considerazione di cui deve godere o che comprometta il
prestigio dell’ordine giudiziario […]”.