2
INTRODUZIONE
La lunga e dolorosa storia fatta di soprusi, violenze e stermini che ha interessato i popoli
indigeni del nord America e che affonda le sue radici al XVII secolo, per raggiungere il proprio
apice nella seconda metà dell’Ottocento, rappresenta oggi l’eredità di un popolo composto da
oltre cinquecento gruppi tribali, presenti su tutto il territorio statunitense e riconosciuti dal
governo federale. A partire da questi semplici dati di fatto, l’elaborato di tesi vuole interrogarsi
sulle rappresentazioni mediatiche che sono state loro riservate, in un percorso di analisi che,
prendendo come oggetto di studio il western (genere e fenomeno fondativo del cinema
hollywoodiano che degli indiani ha riempito tanta parte delle sue narrazioni), compia
un’indagine sugli effetti che la progressione orizzontale, sotto la formula rassicurante di
“destino storico”, ha sortito proprio alle popolazioni native.
Stabilito un parallelo tra le immagini, ricche di stereotipi, veicolate dal cinema della Hollywood
classica, che avevano contribuito a fare grande il genere su cellulosa, con quelle che la serialità
televisiva americana dei primi decenni riprenderà, obiettivo dell’elaborato è quello di verificare
se la televisione abbia, ancora una volta, seguito le orme del cinema quando quest’ultimo è stato
interessato da una revisione storica a partire dagli anni Settanta e Ottanta.
In uno sguardo, dunque, che punta principalmente alla serialità televisiva western
contemporanea, degli ultimi vent’anni, lo scritto inizia a muovere i suoi passi con un excursus
di carattere storico, a cui è interamente riservato il primo capitolo, nella necessità di tratteggiare
le tappe fondamentali che hanno portato, sul finire del XIX secolo, alla totale e definitiva
conquista dell’Ovest americano. Avvalendosi del supporto di storici, i grandi temi della
supremazia manifesta dei bianchi e dell’addossamento delle colpe alle vittime emergono, nel
tentativo di rovesciare e disvelare il passato storico-mitico di una nazione che ha poi concorso,
come si evidenzierà nella seconda parte del capitolo, alla costruzione malata dell’immagine
dell’“Indiano di Hollywood”.
Attraversando rapidamente i decenni in cui il western è stato uno dei principali protagonisti
dell’industria dell’intrattenimento statunitense, si tenterà di mettere in luce come la
rappresentazione degli indiani d’America non rispecchi più quell’ideologia manichea – tratto
distintivo del genere negli anni Trenta e Quaranta – che vedeva una netta ed errata distinzione
tra il glorioso eroe bianco e il malvagio indiano.
3
Al secondo capitolo sono riservate le traiettorie contemporanee del genere dove, dopo aver
individuato quattro percorsi intrapresi dal western cinematografico revisionista, l’elaborato si
interroga se questi siano riscontrabili, e in che modo lo siano, anche nel campo televisivo. Si
procederà, in tal senso, nell’individuazione di quattro prodotti seriali del nuovo millennio: ai
primi due, che rientrano a pieno nell’etichetta di genere western, si accosteranno due esempi di
serie televisive che esulano da quest’ultimo ma che presentano importanti chiavi di lettura per
una rinnovata rappresentazione dei nativi americani.
L’attenzione poi verrà rivolta, nel terzo capitolo, a un’analisi testuale più approfondita delle
narrazioni portate sul piccolo schermo da Taylor Sheridan, figura autoriale di spicco e creatore
di un universo in espansione che, attraverso Yellowstone, 1883 e 1923, può rappresentare un
importante punto di svolta del western. In qualità di “ultimo cantore della frontiera”,
mantenendo alcuni di quegli elementi classici distintivi del genere, in una narrazione centripeta
che vede come motore e fine ultimo degli eventi la terra, da conquistare o da difendere, nelle
tre serie, caso di studio dell’elaborato, verrà posta una lente d’ingrandimento sulla
rappresentazione che esse fanno dei nativi, evidenziandone gli aspetti positivi ma non
dimenticando comunque le voci critiche.
Se all’Alterità, portata sullo schermo e presentata al grande pubblico, si è dato un ritratto
migliore, più autentico e in linea con le lunghe tradizioni di popoli che abitano il continente
nordamericano da secoli, sarà il capitolo conclusivo che tenterà di stabilirlo, riordinando quanto
elaborato, con il supporto di dati numerici che, nell’ottica di compiere un report sulla diversità
a Hollywood, evidenzino l’importanza di una rappresentazione quantitativa e qualitativa delle
minoranze etniche.
4
CAP. 1 IL CIGLIO DELL’ONDA CIVILIZZATRICE: LA LUNGA
PARABOLA DEL WESTERN
“Secondo Nietzsche, non è mai alle origini che qualcosa di nuovo, un’arte nuova, può rivelare
la propria essenza, ma può rivelare ciò che era fin dalle origini soltanto a una svolta della
propria evoluzione.”
1
Nell’affrontare la questione lungamente dibattuta, terreno scivoloso e dai confini sempre
difficilmente tracciabili, che ruota attorno ai generi del cinema nordamericano, è
imprescindibile non soffermarsi sul western. Il genere, motore di grandi capolavori e kolossal
così come di pellicole di serie B, i cosiddetti “B-movies” che troveranno spazio - a partire dagli
anni Cinquanta - nel medium televisivo, è da sempre stato considerato come il fondativo della
cinematografia hollywoodiana, la cui fortuna è legata indissolubilmente alle radici del suolo
statunitense. Il western, che fin dalla sua formazione narra dell’Ovest e radica le sue ideologie
su premesse di carattere espansionistico e colonialistico, è un fenomeno prettamente americano,
secondo le parole del critico e studioso Franco La Polla, proprio perché queste stesse premesse
sono ancorate alle basi della creazione degli Stati Uniti come colonia.
2
Tra racconti folkloristici, letteratura e pittura, il genere che racconta la frontiera americana
nasce assieme e per l’America, si sviluppa e cresce, attraversa tutta la storia del cinema e
conseguentemente della televisione, sempre teso tra un’iconografia granitica, ancorata a topoi
costitutivi del genere, e il desiderio di rinnovamento, nutrito da diverse contaminazioni, per
giungere fino alla più recente contemporaneità, beffandosi di tutti quelli che, puntualmente ogni
decennio, ne hanno sempre decretato il tramonto.
L’Ovest geografico e la frontiera delle narrazioni storico-mitiche sono i due grandi pilastri
lungo i quali il destino degli Stati Uniti si è compiuto, baluardi ideologici a testimonianza di
una “progressione orizzontale che è la cifra di una concreta marcia ideale della nazione” e che
a conquista completata, sul finire dell’Ottocento, non si è arrestata, proseguendo nel corso del
Novecento verso le isole del Pacifico fino al Vietnam. Il genere western è l’unico che ha saputo
incarnare e trasporre sullo schermo questo modello di diffusione orizzontale, declinato in
1
Deleuze Gilles, Cinema 2: l’immagine-tempo, trad. it. L. Rampello, Milano, Ubulibri, 1989, p. 56
2
Cfr. La Polla Franco, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Il Castoro Editrice, ed. Kindle, p. 46
e sg.
5
termini ideologici “come concreta figuralizzazione di una linea politica immediatamente
tradotta in mito proprio per salvaguardarla dalla possibilità di una critica”.
3
Sullo schermo il genere delinea fin da subito la figura del libero pioniere portatore di progresso,
in una lettura distorta del passato, funzionale però alle esigenze di un presente che richiedeva
supporto nel costruire la narrazione di una potenza mondiale unificata, la definizione
dell’individualità e dell’individualismo americano, per forgiare, in ultimo, il piedistallo sul
quale poggia ancora oggi la politica statunitense.
Un continuo intreccio, dunque, di storia e mito, generatori da un lato del western prima letterario
e in seguito cinematografico, e dai quali gli stereotipi più classici del genere vengono forgiati:
i feroci scontri e le continue sparatorie, gli abitanti della frontiera, veri e propri “gunfighters”
con la mano posizionata sempre sulla fondina che reggeva la pistola, i desesperados incuranti
di versare sangue per impadronirsi dell’oro e infine i crudeli indiani, il cui unico interesse
sembrava quello di torturare i viandanti.
4
A partire da un dato geografico, l’area che ricopre la porzione di territorio nordamericano al di
là del 100° meridiano ovest, la narrazione storico-mitica ha coniato un vero e proprio
immaginario, inserito sotto l’etichetta di Far West, in grado di stravolgere la realtà dei fatti,
alimentando le convenzioni della popular culture per quasi un secolo.
Se storia e mito, come si è visto, hanno lavorato su binari paralleli per svariati decenni, è
necessario, nel tentativo di delineare una giusta realtà dei fatti, ripercorrere cronologicamente
le tappe storiche fondamentali che hanno segnato la conquista dell’Ovest americano, per cercare
di comprendere in che modo e perché sono avvenute alcune riletture che hanno indotto la
diffusione di una lunga serie di stereotipi presenti in larga parte nei prodotti mediali di buona
parte del Novecento, primo fra tutti e perno centrale della ricerca, quello della rappresentazione
dei nativi americani, per lungo tempo considerati il Male assoluto, in una visione dicotomica
che elevava a eroe il bianco conquistatore.
3
Ibidem
4
Barbieri Luca, “Introduzione”, in Raciti Mario, Piombo, polvere e sangue. La violenza nella storia del West,
1848-1900, Catania, Villaggio Maori Edizioni, 2016, pp. 5-6
6
1.1 Verso Ovest: radici storiche del “mito della Frontiera”
La vicenda della colonizzazione del continente americano si inserisce perfettamente nel segno
di tutta l’espansione coloniale che ha caratterizzato l’Ottocento, in una retorica costruita per
mostrare la civiltà occidentale come sana portatrice di progresso e benessere verso popoli
ritenuti meno sviluppati o meno civili. In questo quadro gli Stati Uniti dei primi decenni
dell’Ottocento offrono una situazione estremamente favorevole in termini di espansione, tanto
demografica quanto territoriale. Dai 5 milioni di individui presenti a inizio secolo, si passa a
una popolazione di oltre 31 milioni di abitanti nel 1860, una crescita esponenziale dunque,
dovuta in parte a fattori autogeni - rappresentati dall’alto tasso di natalità - alimentati poi da un
consistente numero di immigrati europei: vengono stimati 8 milioni provenienti soprattutto da
Irlanda, Gran Bretagna e Germania tra il 1830 e il 1860.
5
La costante necessità di nuovi territori da parte degli Stati della Federazione, generata dai
fenomeni appena accennati, trovò la sua naturale soluzione nell’espansione. A nord, questa fu
bloccata dal mancato successo della guerra condotta tra il 1812 e il 1815 contro il Regno Unito
per i territori del Canada; a sud fu fortemente limitata dal fatto che gli Stati confederati
riuscirono ad acquistare, nel 1803, da Napoleone (bisognoso di finanziamenti per le campagne
europee che si apprestava a condurre), il territorio francese della Louisiana, a cui fece seguito,
nel 1819, il territorio dell’odierna Florida.
L’Ovest, dunque, figurava come l’unica vera grande possibilità: una vastità di terre libere da
qualsiasi altra potenza europea e abitata solamente da tribù di nativi. Sarà quest’espansione a
generare gli inevitabili scontri con le popolazioni locali, passate alla storia con il nome di
“Guerre indiane”, che si concluderanno nel 1890 e che vedranno come risultato la completa
conquista del territorio che oggi conosciamo come Stati Uniti, con conseguente decimazione e
deportazione di migliaia di persone nelle riserve, in uno scenario di vero e proprio etnocidio.
Queste popolazioni, esposte alle rappresentazioni più infelici, denigranti e false, hanno subito
tutte le forme di violenza possibili:
dagli scontri per terra, agli accordi firmati e non rispettati, agli espropri brutali e ai massacri
deliberati, al disprezzo razziale e alle reclusioni nelle riserve, alla cancellazione di religioni
e culture, alla costrizione alla fame e all’imposizione della dipendenza economica
6
5
cfr. Banti Alberto Mario, L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo, Bari-Roma,
Laterza, 2009, p. 313
6
Cartosio Bruno, Verso Ovest. Storia e mitologia del Far West, Milano, Feltrinelli, 2020, p. 9
7
scrive lo storico Bruno Cartosio, sottolineando come la vicenda degli indiani d’America sia
sempre stata foriera di pregiudizi, di falsificazione storica, mediatica e politica.
Con la sola colpa di possedere ciò che l’uomo bianco desiderava
7
, come si legge dalle parole
di un antico sciamano, i nativi americani sono stati rappresentati per lungo tempo come gli
aggressori, dimenticandosi o volendo dimenticare i fatti storici spogliati da qualsiasi filtro
appartenente alle narrazioni mitiche.
Se la nascita, nel 1824, del Bureau of Indian Affairs (BIA) può inizialmente far pensare a un
timido tentativo di difesa dei diritti delle popolazioni native (tentativo tra l’altro intrapreso con
scarsi risultati), la marcia verso Ovest compiuta dal Governo statunitense a partire dalla prima
metà dell’Ottocento, a fianco dei pionieri, si rivelò essere ben presto espressione di una coppia
di concetti profondamente radicati nella mentalità politica di quell’epoca, di natura del tutto
estranea a qualsiasi forma di prevenzione nei confronti delle tribù indiane, e che si iscrivono
perfettamente nel quadro più generale del mito fondativo della nazione americana.
Radicata nella storia statunitense, quintessenza della loro identità, vi è la convinzione di essere
il Paese eletto da Dio, portatore di una chiara e precisa missione, quella di esportare libertà,
giustizia e pace a tutti i popoli del mondo. Questa percezione, alimentata da un forte utilizzo
della retorica, fonda le sue radici nella costituzione stessa della nazione americana, nell’azione
dei padri pellegrini che, lasciate le coste europee, ritenendo il vecchio continente incapace della
triade pace-libertà-giustizia, attraversarono l’oceano Atlantico con lo scopo di costituire un
regno giusto al di là del mare. L'attraversamento dell’Atlantico, quindi, considerato alla stregua
di un rito battesimale, è l’atto che giustifica - in un’ottica positiva – il massacro perpetrato nei
confronti delle minoranze etniche (siano esse quelle dei nativi, dei messicani e degli
afroamericani) che, nel non aver compiuto il loro stesso percorso con le loro medesime
intenzioni, vennero ritenute inferiori e di conseguenza da civilizzare.
Da un lato prende così forma il mito della frontiera, da leggere e interpretare come una sorta di
necessaria missione di cui la popolazione statunitense bianca si fa carico per conquistare e
7
“I miei fratelli indiani lasceranno per sempre i loro ricordi in questo paese. Abbiamo dato molti nomi nella nostra
lingua a molte belle cose che parleranno sempre di noi. […] il Mississippi mormorerà le nostre pene. Il lago Iowa,
il rapido Dakota, il fertile Michigan bisbiglieranno i nostri nomi al sole che li accarezza. Il rumoreggiare del
Niagara, il sospiro dell’Illinois e il canto del Delaware faranno risuonare di continuo il nostro canto di morte.
Potrete ascoltare questo eterno canto senza restarne commossi? Abbiamo commesso un solo peccato: possedevamo
ciò che l’uomo bianco desiderava.” - Eagle Wing (sciamano), in Jacquin Philippe, Storia degli indiani d’America,
Milano, Mondadori, 2016, p. 159
8
civilizzare terre selvagge. Questo mito fondamentale sarà il pilastro che muoverà l’immaginario
americano nel secolo a venire in due distinte direzioni: se l’aspetto espansivo, di progressione,
nell’acquisizione di nuovi territori è quello più evidente, bisogna però sottolinearne anche un
secondo, di carattere più difensivo, che risponde all’ossessione della cosiddetta “retorica
dell’accerchiamento”. L’inquietudine che si diffonderà sempre più capillarmente, grazie
all’aiuto di una lunga tradizione di iconografia, declinata nella carta stampata e nella pellicola
cinematografica, è quella di ritrovarsi accerchiati da nemici rappresentati sempre come
selvaggi:
le innumerevoli immagini della casa o della carovana circondata da pellerossa bestialmente
assetati di sangue o le numerose immagini di aggressioni alle componenti indifese della
comunità (le donne, i bambini) […] abita[no] come un’ossessione la mentalità e la cultura
popolare nordamericana, anche del XX secolo.
8
Parallelamente a ciò, degno di nota è il messaggio che il quinto presidente americano James
Monroe veicolò attraverso il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato davanti al Congresso
il 2 dicembre 1823. Nel tracciare un programma di politica estera passato alla storia con il nome
di “dottrina Monroe” proclamò un deciso allontanamento dagli affari europei e una sostanziale
egemonia degli Stati Uniti sul suolo nordamericano. Il messaggio diffuso si muoveva dunque
su due binari: da un lato, il disinteresse verso le controversie politiche del vecchio continente –
letto nei termini di una dichiarata opposizione al colonialismo delle potenze europee – voleva
far sì che, di converso, quelle stesse potenze rimanessero estranee agli affari americani interni;
dall’altro lato, il potere egemonico statunitense, riassunto nello slogan “l’America agli
americani”, doveva farsi promotore del desiderio di acquisizione di nuove terre.
Sarà sull’onda di questo entusiasmo, infatti, che gli Stati Uniti dichiararono guerra al Messico,
riuscendo ad annettere nel 1848, al termine di un duro scontro, i territori del Texas, che aprirono
la strada alla colonizzazione e all’annessione delle terre ad esso confinanti (New Mexico,
Arizona, Utah e California).
Nel segno di questa supremazia manifesta va letto l’intervento del giornalista John L.
O’Sullivan nel coniare la fortunata espressione di “Manifest Destiny”, capace di riassumere in
un semplice binomio la missione civilizzatrice della “razza anglo-sassone, che ha ricevuto
l’ordine divino di soggiogare e riempire di sé la terra”.
9
8
Banti A. M., op. cit., pp. 317-318
9
Ibidem
9
Mito della frontiera e destino manifesto sono dunque i due concetti che, fusi insieme, si
traducono – nella teoria e nella pratica – in un imperialismo statunitense civilizzatore, di cui i
primi a farne le spese saranno i nativi americani da un lato e i messicani dall’altro.
Le tribù indiane, a metà Ottocento fortemente indebolite da ricorrenti epidemie di colera, tifo e
vaiolo, vedranno i loro territori diventare sempre più frequentemente passaggio di colonne di
carovane di bianchi diretti verso il Pacifico, attraverso l’Oregon Trail o la “Pista di Santa Fé”,
e saranno questi massicci spostamenti di pionieri a far sì che la pressione militare aumenti, in
risposta al timore nutrito verso i nativi, descritti come una popolazione di “seminudi, ladri, falsi,
predoni, assassini, buoni a niente, sleali […] i più miserabili […] a cui il Signore ha permesso
d’infestare la terra, per cui ogni uomo dovrebbe augurarsene lo sterminio immediato e
definitivo”.
10
Il trattato di Fort Laramie del 1851, raggiunto grazie all’intermediazione degli agenti della BIA,
per mezzo del quale il Governo federale otterrà il permesso di costruire strade e fortini sulle
terre di Sioux, Cheyenne, Arapaho e Crow in cambio di 50.000 dollari, spingerà i nativi a
credere di poter ricevere il sostegno dell’esercito statunitense in caso di attacchi da parte dei
pionieri. Lettura che si mostrerà essere sbagliata e fatale. La storia, infatti, rivelerà come
nessuno della lunga lista di trattati stipulati – per un totale di 370 a partire dal 1789 - verrà
rispettato dal governo; indicativo di ciò è il Primo rapporto stilato dai commissari agli affari
indiani nel novembre 1869 dove si ammette che “la storia dei rapporti del Governo con gli
indiani è una vergognosa sequela di trattati non rispettati e di promesse non mantenute”.
11
Se nel 1860, all’alba della guerra civile, vengono fatte pressioni sul Congresso affinché si possa
ottenere l’autorizzazione per la costruzione di una linea ferroviaria, definita dal commissario
per gli affari indiani nel 1871-72, Francis Amasa Walker, come il “grande aratro della civiltà
industriale”, questa arriverà nel luglio del 1862, permettendo un’avanzata della civiltà bianca
verso “le terre dell’Ovest in ogni direzione e da ogni direzione” che assumerà tratti fatali per le
tribù, strette d’assedio nelle riserve, utilizzando sempre le parole di Walker, sotto i nefasti
consigli degli agenti della BIA.
12
10
Farb Peter, Les Indiens. Essai sur l’évolution des sociétés humaines, Parigi, Seuil, 1971, p. 309
11
Cartosio B., Verso Ovest, op. cit., p. 10
12
Walker Francis Amasa in Cartosio B., Verso Ovest, op. cit., pp. 65-66
10
In una situazione di così alta tensione gli scontri non tarderanno ad arrivare: l’aggressione anti-
indiana, per il completamento dell’espansione verso i territori dell’Ovest, che nel corso degli
anni Cinquanta si era estesa ben oltre il confine geografico del Mississippi, si compirà attraverso
un lungo conflitto, fatto di azioni di guerriglia e attacchi dislocati, nel tempo e nello spazio. Se
gli anni Sessanta dell’Ottocento segnarono il territorio statunitense principalmente per la
sanguinosa guerra civile che vide contrapposti, tra 1861 e 1865, gli Stati Uniti d’America (gli
Stati del Nord) e gli Stati Confederati d’America (quelli del sud), il momento più duro
dell’estenuante scontro con le popolazioni native si aprirà solamente un decennio più tardi, in
seguito alla conclusione della guerra di secessione, quando il governo inizierà ad inviare
cospicue truppe a Ovest. “Ai Sioux dobbiamo rispondere con una violenta aggressività, anche
se si deve arrivare a sterminare uomini, donne e bambini. Non c’è altra soluzione per risolvere
il problema”
13
esordì William Tecumseh Sherman, eroe della guerra civile, non appena ottenne
il comando di queste truppe di rinforzo.
Il conflitto si pagherà a caro prezzo, da entrambi i fronti; con azioni di guerriglia,
saccheggiamenti e imboscate, i Sioux di Nuvola Rossa e Cavallo Pazzo inizieranno una
prolungata azione di attacchi a convogli e a pattuglie di soldati, a partire dal 1866, che sfocerà,
due anni più tardi, nella richiesta dell’abbandono dei fortini da parte dell’esercito. A Fort
Laramie, nella primavera del 1868, il generale Sherman si trovò costretto ad accettare le
condizioni imposte dagli indiani, liberò le terre circostanti e firmò un trattato in cui si garantì il
possesso della Powder River Country e delle Black Hills ai Sioux.
Preoccupato che i successi dei nativi potessero essere più che un caso sporadico di fortuna,
Sherman riprese subito una dura offensiva, questa volta ai danni dei Cheyenne che, nei territori
dell’odierno Kansas e Arkansas, nell’inverno del 1868 si ritrovarono estenuati dalla fame,
avendo ultimato le munizioni necessarie per la caccia. Sarà lungo le rive del fiume Washita che
avverrà il massacro della tribù di Cheyenne guidata da Pentola Nera.
Nella primavera del 1876, in seguito alla scoperta di ricchi giacimenti auriferi nelle Black Hills,
si aprirà la fase decisiva delle guerre indiane, che vedrà l’ultima grande vittoria dei nativi: la
battaglia vinta lungo le sponde del fiume Rosebud, dove alcune migliaia di indiani furono
guidati da Cavallo Pazzo, permise ai Sioux di risalire verso nord fino a ricongiungersi con la
tribù di Toro Seduto. L’annientamento del 7° Reggimento cavalleggeri comandato dal generale
George Armstrong Custer sarà il canto del cigno: il Congresso, in seguito al massacro, voterà
13
Jacquin P., op. cit., p. 149; Cfr. Brown Dee, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Milano, Mondadori, 2017