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INTRODUZIONE
Il problema del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni
giudiziarie e degli altri atti pubblici stranieri è stato a lungo
slegato, nella visione tradizionale del diritto internazionale privato
lato sensu inteso, rispetto a quegli altri problemi tipici della
materia, ossia quello della determinazione dei limiti della
giurisdizione dello Stato del foro e quello della ricerca della legge
applicabile ad una fattispecie contenente uno o più elementi di
estraneità; ciò ha reso a volte incoerenti tra loro gli sviluppi dei
tre complessi di norme, tanto che un’apertura del nostro
ordinamento rispetto, per esempio, alla ricerca dell’armonia
internazionale delle soluzioni nel campo del diritto applicabile
non trovava riscontro nella posizione, di assai maggior chiusura,
mantenuta dal legislatore per ciò che riguardava l’ingresso nel
nostro ordinamento di valori giuridici stranieri che trovassero la
propria fonte in atti pubblici diversi da quelli normativi.
Infatti, laddove le norme delle preleggi erano suscettibili di essere
interpretate con maggiore o minore apertura nei confronti dei
valori giuridici stranieri, in campo processuale la necessità di
delibare con apposito procedimento qualunque sentenza straniera
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si intendesse rendere efficace in Italia era la miglior prova
dell’atteggiamento di sfiducia allora prevalente verso i valori
giuridici stranieri in generale, e le sentenze in particolare;
atteggiamento aggravato, poi, dal contenuto delle norme sulla
giurisdizione italiana, tendenti ad universalizzare quest’ultima
anche per la decisione di fattispecie legate al nostro ordinamento
da collegamenti assai tenui.
La posizione di limiti assai rigidi alle possibilità di deroga della
giurisdizione italiana e l’irrilevanza della litispendenza straniera
ai fini della giurisdizione italiana completavano un quadro
legislativo di grande chiusura dell’ordinamento italiano verso
quelli stranieri, confermata anche dall’istituto del c.d. “riesame del
merito” con il quale il nostro giudice si attribuiva il diritto di
sindacare sulla “giustizia” della sentenza straniera nei casi in cui
in Italia si sarebbe potuto dar luogo al rimedio della revocazione.
Come spesso accade nel nostro Paese, la spinta a mutare
prospettiva doveva giungere su iniziativa della Comunità Europea,
nell’ambito della quale venne stipulata la Convenzione di
Bruxelles sulla competenza giurisdizionale e il riconoscimento e
l’esecuzione delle decisioni giudiziarie straniere del 1968, in
vigore in Italia dal 1973.
Il complesso delle norme pattizie contiene molte novità rispetto al
diritto processuale civile italiano allora vigente e, soprattutto,
tende a creare uno “spazio giuridico europeo”, caratterizzato da
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una «giurisdizione europea» poi suddivisa tra i vari Stati membri:
in altri termini, i conflitti di giurisdizione tra giudici di due o più
Stati membri dovrebbero essere considerati in modo non diverso
dai conflitti di competenza tra i giudici dello stesso Stato, e
l’accertamento della giurisdizione dovrebbe essere fatto con
riferimento non ai singoli Stati ma al complesso di essi.
A tale proposito, il domicilio del convenuto in uno Stato membro,
utilizzato come criterio di delimitazione dell’àmbito soggettivo di
efficacia della Convenzione, funzionerebbe come un criterio di
attribuzione della giurisdizione “europea”, mentre il luogo di
domicilio (utilizzato come criterio generale di giurisdizione), al
pari di ogni altro criterio di giurisdizione contenuto nella
Convenzione, sarebbe idoneo a radicare nello Stato di domicilio
del convenuto la c.d. «competenza giurisdizionale» .
D’altra parte, il riconoscimento della rilevanza interna della
litispendenza straniera e della giurisdizione per connessione sono
altrettante novità non irrilevanti nel panorama legislativo italiano
dell’epoca, e tendono, anch’esse, all’obiettivo “uniformante” della
Convenzione.
In una simile prospettiva, è del tutto coerente che, anche nel
settore del riconoscimento ed esecuzione delle sentenze straniere,
nella Convenzione si siano adottate scelte innovative, in
particolare rendendo automatico il riconoscimento di una
sentenza, pronunciata in uno Stato membro, per tutti gli altri Stati
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membri : se, infatti, si è inteso creare una «giurisdizione europea»,
è evidente come le decisioni che sono espressione di tale
giurisdizione debbano avere tutte un identico valore, formale e
sostanziale, indipendentemente dalla nazionalità dei giudici che le
hanno pronunciate, e siano naturalmente destinate ad essere valide
nell’intero àmbito della Comunità.
L’esecuzione in Italia di simili norme pattizie ha, quindi, dato una
forte spinta alla dottrina ed alla giurisprudenza, che da tempo
erano coscienti della necessità di “aprire” maggiormente il nostro
ordinamento ai valori giuridici stranieri.
Un primo passo in tal senso fu, relativamente al tema del
riconoscimento, l’affermarsi della dottrina favorevole all’efficacia
automatica in Italia dei provvedimenti stranieri sulla base del
richiamo di diritto internazionale privato: un sistema, questo, che -
facendo leva sull’art.17 delle preleggi - permetteva di riconoscere
in Italia, quanto ai soli loro effetti sostanziali, le sentenze straniere
(ma anche gli atti di volontaria giurisdizione e quelli
amministrativi) emanate in materia di stato e capacità delle
persone, rapporti familiari e diritti reali immobiliari, senza
necessità di preventiva delibazione; ciò sulla base della
considerazione che la valutazione delle situazioni giuridiche
soggettive riferite alle materie indicate debba essere fatta
esclusivamente dall’ordinamento la cui legge è resa applicabile
dalla norma di conflitto, per le ragioni che saranno accennate in
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seguito e che spingono ad attribuire ad un tale ordinamento un
carattere di supremazia nella valutazione della situazione giuridica
considerata.
In questo modo, limitatamente alle materie suddette, pur se un atto
straniero (sentenza, provvedimento di volontaria giurisdizione o
atto amministrativo) non fosse stato riconoscibile in Italia per
mancanza di uno o più presupposti necessari alla delibazione, i
suoi effetti sostanziali avrebbero ugualmente potuto essere
richiamati in Italia attraverso la norma di diritto internazionale
privato, riconoscendo gli effetti prodotti dall’atto senza
riconoscere l’atto in sé.
Tuttavia, le più radicali modificazioni di prospettiva nella
soluzione del problema indicato sono conseguenza del
ripensamento dell’intera materia del diritto internazionale privato
che ha portato all’emanazione della legge di riforma.
Essa introduce rilevanti novità, tra le quali assume grande
importanza il fatto che disciplini contestualmente i tre “settori” del
diritto internazionale privato che nel sistema previgente erano
considerati autonomi, come esplicitamente recita l’art.1: ciò
significa riconoscere implicitamente che i tre complessi di norme,
lungi dall’essere tra loro autonomi, sono caratterizzati da uno
stesso fine, ovvero quello di assicurare il miglior coordinamento
possibile tra il sistema di diritto privato e processuale civile del
foro e quelli stranieri.
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La legge di riforma ha, perciò, una inconfondibile impronta di
apertura verso gli ordinamenti stranieri, e non poche delle sue
norme sono diretta “recezione” nel diritto comune di norme
convenzionali: basti pensare alla recezione “allargata” della
disciplina della Convenzione di Bruxelles ed alla incorporazione
della Convenzione di Roma del 1980 sul diritto applicabile alle
obbligazioni contrattuali.
Quanto alla prima, l’art.3, secondo comma della legge di riforma
ha esteso l’applicabilità, relativamente al diritto internazionale
privato comune, di quella parte della Convenzione che riguarda la
competenza giurisdizionale, eliminando il limite soggettivo del
domicilio del convenuto, pur tenendo fermi i limiti materiali di
applicazione.
Quanto all’altra, l’art.57 ne ha eliminato i limiti oggettivi di
applicazione, rendendola così applicabile a tutte le fattispecie di
obbligazioni contrattuali nelle quali vi sia un problema di
determinazione della legge regolatrice e “incorporandola”
totalmente nel diritto comune italiano.
Come è evidente, una tale prospettiva di apertura del legislatore
non poteva che riflettersi anche sulle soluzioni adottate in tema di
riconoscimento ed esecuzione delle sentenze e degli atti stranieri,
la cui disciplina è oggetto delle disposizioni del Titolo IV della
legge di riforma.
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Una breve ricognizione preliminare di tali norme è opportuna per
meglio comprendere il significato che, all’interno di esse, ha il
riconoscimento ex art.65, considerando anche il fatto che uno dei
maggiori problemi interpretativi della norma risiede proprio nel
comprendere quali siano i suoi rapporti con altre norme del Titolo
IV, ed in particolare con l’art.64 e l’art.66; d’altra parte, si rende
necessario anche un confronto, in via del tutto generale, tra la
nuova disciplina e quella prevista in precedenza dalle norme di cui
agli articoli da 2 a 4 e da 796 a 805 del codice di procedura civile.
Le norme del Titolo IV della legge di riforma sono forse quelle
che hanno apportato le maggiori innovazioni rispetto alla
disciplina previgente, tanto che la loro entrata in vigore è stata più
volte rimandata, rispetto a quella delle altre disposizioni della
l.218/95, anche per dare modo al legislatore di eliminare alcuni
difetti di coordinamento e chiarire alcuni dubbi.
Certamente, la novità più rilevante è rappresentata dall’abbandono
del principio generale, proprio del sistema del 1942, per il quale
ogni atto straniero, ed in particolare qualsiasi sentenza straniera,
non poteva avere effetti processuali in Italia se non attraverso la
c.d. “delibazione” (art.796 cod. proc. civ.).
Tale limitazione era del tutto coerente con un sistema di diritto
processuale civile internazionale caratterizzato da grande chiusura
verso gli ordinamenti esterni (ad eccezione, almeno fino al 1984,
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di quello della Chiesa
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) e dalla tendenza ad universalizzare la
giurisdizione italiana; è pertanto necessario, per comprendere la
portata innovativa del principio dell’automaticità del
riconoscimento, accennare un confronto tra il vecchio ed il nuovo
sistema di diritto processuale civile internazionale, almeno nei
caratteri generali.
Iniziando l’esame dalle regole sulla giurisdizione, converrà
confrontare gli abrogati articoli 2, 3 e 4 del codice di rito con gli
articoli da 2 a 12 della legge di riforma.
Senza poter entrare in dettagli che porterebbero il discorso troppo
al di fuori dell’oggetto di questo lavoro, si può tuttavia
agevolmente osservare che:
a) l’àmbito della giurisdizione italiana rispetto allo straniero è
stato ristretto, mentre la proroga e la deroga di giurisdizione
non sono più trattate in modo diverso a seconda che siano
disposte a favore del giudice italiano o di quello straniero: come
è noto, nel sistema precedente era invece agevolata la proroga a
favore del giudice italiano, mentre era impedita la deroga a
favore di quello straniero.
b) laddove, in precedenza, la litispendenza straniera non aveva
alcun effetto in Italia e quella italiana era di per sé idonea a
“bloccare” il processo straniero ed impedire il riconoscimento
della successiva sentenza, oggi essa è trattata in modo non
1
V. infra, cap. IV
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difforme da quella interna, imponendosi al giudice interno di
sospendere il processo se ritiene che un procedimento straniero,
pendente sullo stesso oggetto e tra le stesse parti al momento in
cui quello italiano ha avuto inizio, possa condurre ad una
sentenza riconoscibile ex art.64 o 65;
c) anche la semplice pregiudizialità di una causa straniera
permette al giudice italiano di sospendere il procedimento se la
decisione straniera è suscettibile di futuro riconoscimento, pur
se in tal caso si tratta di una mera facoltà e non di un obbligo
del giudice.
Quanto alla materia del riconoscimento degli atti stranieri, oltre
alla novità del principio del riconoscimento automatico, anche nel
confronto tra i presupposti del riconoscimento ex art.64 e quelli
prima previsti ex art.797 è dato individuare alcune importanti
differenze, che saranno esaminate più specificamente oltre
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, le
quali contribuiscono a costruire un sistema nel quale alle vicende
processuali straniere è dato, come regola, lo stesso rilievo di
quelle interne.
La contestuale eliminazione di un istituto quale il riesame del
merito ex art.798, il quale era evidentemente improntato alla
sfiducia nella capacità degli ordinamenti stranieri di porre rimedio
ai vizi più gravi del processo, rende palese il principio ispiratore
della nuova disciplina, che è duplice: raggiungere una maggiore
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v. infra, cap. II par. 5