I
Introduzione
«Ma perchè non smetti di lottare?»
«E' l'ignoto che m'atterrisce. Che sia impossibile sapere.
Ma perchØ, perchØ non è possibile cogliere Dio coi propri sensi?
Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse
e preghiere sussurrate, e incomprensibili miracoli?
PerchØ io dovrei avere fede nella fede degli altri?
Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci nØ vogliono avere fede?
PerchØ non posso uccidere Dio in me stesso?
PerchØ continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante,
anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore?
E perchØ nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo
di cui non riesco a liberarmi?
Io vorrei sapere - senza fede, senza ipotesi: voglio la certezza! -
voglio che Iddio mi tenda la mano, e scopra il suo volto nascosto;
e voglio che mi parli»
«Il suo silenzio non ti parla?»
«Lo chiamo e lo invoco, e se egli non risponde
io penso che non esiste»
«Forse è così; forse non esiste!»
«Allora la vita non è che un vuoto senza fine.
Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno
come cadendo dal nulla, senza speranza»
*
Sarà il pensiero fisso di una tesi di laurea: essa chiude definitivamente un periodo tanto
lungo quanto fondamentale nella vita - scolastica e non solo - di ciascuno di noi; sarà l’amore
per il cinema: questo, durante la visione di un film, non ti fa arrestare il pensiero sulle
immagini che la pellicola fa correre davanti ai tuoi occhi, ma porta la tua mente lontano, la
spinge oltre ciò che vede e fa sì che essa si interroghi su qualcosa di altro, di diverso, a volte
di completamente estraneo. La somma di questi due fattori è ciò che ha ispirato il ricorso a
quest’intenso dialogo cinematografico: ho pensato che queste parole potessero racchiudere
uno spirito religioso particolare, talmente opposto a quello del filosofo nolano da meritare un
accostamento con esso. Un’opposizione tanto netta da giustificare la scelta dell’argomento
trattato nel percorso che, tappa dopo tappa, si fa largo lungo queste pagine: il superamento.
Antonius Blok è svuotato dalla vita: il viaggio di ritorno dalla crociata in Terra Santa
diventa per lui l’occasione di una resa dei conti con la propria esistenza. Il panorama in cui si
imbatte durante il cammino è desolante: è quello del secolo XIV, devastato dalla grande
ondata di peste del 1348. ¨ su questo sfondo che si inseriscono le sue considerazioni, è qui
che trova spazio la confessione che egli pensa di fare ad un semplice sacerdote ma che, in
realtà, scoprirà di aver fatto alla Morte in persona, con la quale sta portando avanti l’ultima
azione sensata della sua vita: una partita a scacchi.
*
Ingmar Bergman, Det Sjunde Inseglet (Il Settimo Sigillo, 1956), confessione di Antonius Blok con la Morte.
II
Penetrando nell’intimità della sua persona Antonius acquista la consapevolezza della sua
crisi esistenziale, la quale tocca prima di tutto la sfera religiosa: l’impossibilità di conoscere
Dio attraverso i propri sensi lo blocca, lo «atterrisce», impedisce qualsiasi forma di attività in
lui, tanto del suo corpo quanto della sua anima. Egli diviene l’immagine della posizione
dell’uomo medievale del suo tempo, terrorizzato dalla paura della morte e dall’idea della
vanità che assume l’intera esistenza se paragonata alla sua ineluttabilità. La pestilenza viene
avvertita come il segnale della fine di tutte le cose: la Chiesa non riesce a soddisfare le mille
domande sul perchØ di una punizione divina così maledettamente atroce, di fronte alla quale
non può piø bastare neppure la fede in un Dio pronto ad accoglierci dopo la morte. I milioni
di morti provocati da tale catastrofe, dunque, fanno scoppiare la crisi delle concezioni
medievali di uomo, di universo e di Dio, aprendo lo spiraglio verso l’avvento dell’età
rinascimentale: si va verso il superamento dell’oscurità dei cosiddetti ‘secoli bui’, verso la
‘rinascita’, verso una fonte di luce a lungo inseguita.
L’«ignoto» - dicevamo - paralizza Blok: nonostante avverta la presenza di qualcosa di
infinitamente grande in lui, egli non riesce a capire dove esso si trovi, che cosa in realtà esso
sia; nonostante voglia «strappare» via dal suo cuore questa assordante ed incessante voce, egli
non riesce a liberarsi del suo «struggente richiamo». Troppo fragoroso per non essere sentito
e, nello stesso tempo, troppo silenzioso per essere ascoltato: troppo visibile per non essere
percepito e, insieme, troppo invisibile per essere contemplato e conosciuto. Questa duplice
natura di Dio immobilizza Antonius Blok: l’idea della morte come caduta nel «nulla», il solo
pensiero dell’abisso della sua oscurità annulla tutte le sue forze. Dio - quel Dio della
tradizione biblica - non può nØ liberarlo una volta per tutte dalle sue angosce nØ essere
definitivamente ucciso da esse. La partita a scacchi viene inevitabilmente vinta dalla Morte: la
vittoria dei pezzi neri su quelli bianchi è la metafora della vittoria delle tenebre sulla luce.
A questo punto vi chiederete: e Giordano Bruno cosa c’entra in tutto questo? Che cosa ha a
che fare la sua filosofia con la spiritualità di un cavaliere medievale piegato dal suo stesso
destino che cerca fino alla fine dei suoi giorni delle risposte sull’esistenza di un Dio? In realtà
- almeno nella mia mente - il Nolano è colui che, prendendo in mano il gioco e muovendo i
pezzi di Antonius Blok, potrebbe decidere la partita a favore dei bianchi, segnando così il
trionfo della vita sulla morte, della luce sulle tenebre.
Antonius Blok è «atterrito» dall’ignoto: Giordano Bruno ne è sorprendentemente
affascinato. L’infinità di Dio e dell’universo, suo simulacro, rappresentano uno stimolo
continuo alla ricerca di un punto di convergenza: il divino bruniano è totalmente altro
dall’uomo, la sua infinità è incommensurabile rispetto alla finitezza umana. Nonostante tale
consapevolezza il furioso non arresta mai la sua corsa, ma va «sempre oltre et oltre
III
aspirando»
1
: l’abbattimento dei confini dell’universo segna la conseguente soppressione di
quegli impedimenti che possono ostacolare il suo cammino. Resta da vedere - e lo scopriremo
insieme nel corso della lettura - se davanti a lui crollano davvero tutte le barriere oppure se
qualche limite resta insormontabile anche per la sua eroicità.
Antonius Blok non ritiene possibile cogliere Dio con i propri sensi: Giordano Bruno scopre
la sua presenza in ogni elemento della natura. La divinità è presente in tutte le cose: la stessa
materia universale è qualcosa di divino che, come un grembo materno, partorisce da sØ le sue
infinite forme, e l’anima del mondo soffia incessantemente attraverso esse e dentro di esse,
nonostante la continua rotazione vicissitudinale che interviene per garantire l’eterno ciclo
della natura.
Antonius Blok sente di non poter fare a meno di Dio dentro di sØ e per questo lo «chiama»
e lo «invoca» senza tregua, ma non riesce a percepire neppure un minimo segnale della sua
risposta, tanto da avanzare l’ipotesi della sua non-esistenza: Giordano Bruno lo interroga e
riesce ad entrare in comunicazione con lui. Il culto magico degli antichi Egizi e l’arte della
mnemotecnica soccorrono l’uomo e gli tendono una mano nel tentativo di vincolare a sØ
l’unità degli opposti, così da permettere una certa connessione tra la dimensione umana e
quella divina - ovviamente attraverso la mediazione della natura, sua espressione e suo volto.
Dio rimane in «silenzio» di fronte alle grida di Antonius Blok: dall’altra parte è Giordano
Bruno a restare in silenzio di fronte alla manifestazione del suo Dio nella natura. ¨ questo
l’unico atteggiamento da tenere nei confronti di colui che è totalmente oltre ogni nostra
categoria di esistenza e di conoscenza.
Se Dio non esistesse - pensa Antonius Blok - la nostra vita sarebbe «un vuoto senza fine» e
la morte, di conseguenza, il trionfo del «nulla»: lo spirito divino riempie ogni cosa - sostiene
Giordano Bruno - e la presenza di questo soffio vitale assicura che ogni forma, che - passando
- subisce il flusso della vicissitudine, torni nel grembo da cui è stata generata. Secondo il
Nolano, infatti, niente muore mai definitivamente, ma tutto si trasforma soltanto: a ‘morire’ è
soltanto la forma apparente di un composto naturale, la quale scompare nella materia
universale per poi rimescolarsi con essa a dare vita ad una nuova forma, in un processo eterno
ed inarrestabile.
Antonius Blok infine, schiacciato dal destino, si ferma in un confessionale e fa i conti con
la propria esistenza, con il proprio passato: Giordano Bruno vive principalmente il presente, si
rimbocca le maniche e, fino alla fine delle sue forze, si adopera affinchØ la Fortuna non abbia
1
GIORDANO BRUNO, De gli Eroici Furori (Londra, 1585), in Opere italiane vol. 2, UTET, Torino 2007, p.
633.
IV
l’ultima parola sulla sua esistenza. Non c’è solo la contemplazione per lui: c’è anche - e
soprattutto - l’azione, la praxis. L’uomo è dotato dello strumento per eccellenza - la mano -
proprio perchØ egli possa riacquistare tramite esso quella dignità che, a livello cosmologico,
ha perduto. Contro l’ideale umanistico della superiorità ontologica della specie umana rispetto
alle altre specie animali, infatti, Bruno afferma la parità di valore tra tutti gli elementi della
natura: se lo spirito agisce in tutte le cose dell’universo, ogni cosa è dotata della stessa dignità
ontologica.
Questi dunque, a grandi linee, sono gli argomenti trattati nelle pagine che seguono. Ma
perchØ la nozione di superamento in Bruno? Dove e come è possibile rintracciare tale
argomentazione nel suo pensiero? Questo lavoro propone una rilettura - inedita nel panorama
della critica bruniana - delle opere latine e volgari del primo quadriennio della speculazione di
Giordano Bruno (1582-1585) alla luce di un tema che, a volte in maniera esplicita ed altre in
maniera implicita, può essere adottato come vero e proprio leitmotiv della sua filosofia. Ad
un’attenta lettura delle opere analizzate siamo in grado di scorgere tracce dell’idea di
superamento sia confrontando le riflessioni della «musa nolana» con quelle della tradizione
da cui essa intende muovere, sia analizzandole piø a fondo al loro interno: elementi del suo
campo semantico, dunque, possono essere recuperati tanto da un’analisi esterna delle novità
della filosofia bruniana quanto da un approfondimento intrinseco al cuore di essa. Da qui la
suddivisione del presente lavoro in quattro capitoli, volti a discutere e ad esaminare tali
questioni da molteplici punti di vista: cosmologico, etico, gnoseologico e «metafisico».
All’interno del sistema di pensiero bruniano tale quadripartizione non appare mai in maniera
così netta: si cercherà, così, di isolare tali campi speculativi nella maniera piø fedele e piø
corretta possibile, visto che - come si farà notare anche all’interno del testo - le trattazioni che
il Nolano ci offre implicano spesso una stretta connessione dei quattro livelli, un legame tanto
forte da risultare, a tratti, addirittura indissolubile. Il compito che questa tesi si propone di
portare a termine è proprio quello di rintracciare tutti quei passaggi in cui la tematica del
superamento viene affrontata da Bruno, oppure i luoghi laddove essa sembra emergere
accidentalmente: nel corso dei capitoli si cercherà di tessere un’originale trama, capace di
connettere tra di loro i nodi fondamentali di ciascuna delle opere prese in esame. Alla
singolarità della lettura, però, non può non accompagnarsi un attento e accurato studio
bibliografico: è vero che non si trovano studi specifici riguardo l’argomento del superamento
in Giordano Bruno, ma è vero anche che sul pensiero del Nolano la letteratura critica è molto
vasta. Con il supporto di questa si cercherà di approfondire al meglio le singole trattazioni,
senza intaccare però la novità della loro interconnessione. Particolarmente efficace si rivelerà
il contributo della rivista «Bruniana & Campanelliana»: i numerosi saggi e gli interessanti
V
articoli in essa contenuti si concentrano, infatti, sull’analisi dei vari aspetti del pensiero
bruniano, toccando - una per una - tutte le tematiche ritenute centrali all’interno di esso.
L’esigenza di un superamento dei propri requisiti intellettuali e delle proprie conoscenze
filosofiche viene avvertita sin da subito dal giovane Bruno. Nei suoi scritti troviamo spesso la
rievocazione degli errori fatti quando era «piø giovane, piø putto, men saggio e men
discreto»
2
, errori dovuti soprattutto alla sua iniziale adesione alle dottrine peripatetiche: errori,
comunque, che egli guarda con il dovuto distacco, ma mai con eccessivo rimpianto. ¨ soltanto
grazie al riconoscimento di questi, infatti, che si manifesta immediatamente in lui una strana
esigenza: come confessa nel De l’Infinito, universo e mondi attraverso il personaggio di
Elpino, Bruno avverte proprio nel corso dei suoi primi studi la necessità di «dispuerascere»
3
-
il bisogno, cioè, di superare lo stato infantile delle sue conoscenze e di guardare oltre, di
ammirare l’universo con gli occhi liberi da quell’ingenuità e da quelle limitazioni proprie
della concezione aristotelica. Il tentativo di realizzare questo suo disegno lo obbligherà a
trascorrere una vita niente affatto facile. In tutte le università con cui verrà via via in contatto
incontrerà puntualmente mille difficoltà con la dottrina ufficiale, difficoltà che lo porteranno
ad assumere per tutta la sua carriera sempre la stessa identica posizione: «travagliato, […]
odiato nell’accademie, […] aversario delle dottrine comuni, lodato da pochi, approvato da
nessuno, perseguitato da tutti», come dice Albertino
4
.
Un profeta solitario in mezzo ad una moltitudine di pedanti: un «Mercurio» che,
innamorato della natura e dell’universo di cui si faceva messaggero, è stato condannato ad
un’esistenza priva di serenità e tranquillità. ¨ stato proprio questo, per il Nolano, il risultato
della sua uscita dallo stato infantile: la perdita della libertà - e della vita - è stato il prezzo che
egli ha dovuto pagare per aver tentato di impossessarsi delle chiavi della conoscenza.
Un tentativo estremo di superamento accomuna la persona di Giordano Bruno a quella
figura che, piø di tutte le altre uscite dalla sua stessa penna, sembra avvicinarsi alla sua natura:
il «furioso». Ad accomunarli è l’attributo dell’«eroicità», il quale permette un connubio
perfetto tra praxis e conoscenza, tra azione e contemplazione. Come Miguel Angel Granada,
possiamo anche noi paragonare il percorso del furioso al «volo» di Ulisse nel canto XXVI
2
GIORDANO BRUNO, La Cena de le Ceneri (Londra, 1584), in Opere italiane vol. 1, UTET, Torino 2007, p.
536.
3
GIORDANO BRUNO, De l’Infinito, universo e mondi (Londra, 1584), in Opere italiane vol. 2, UTET, Torino
2007, p. 139.
4
Ibidem. «Da tutti sì, ma tali e quali; da pochi sì, ma ottimi et eroi. Aversario de dottrine comuni, non per esser
dottrine o per esser communi, ma perchØ false. Dall’academie odiato, perchØ dove è dissimilitudine non è amore.
Travagliato, perchØ la moltitudine è contraria a chi si fa fuori di quella; e chi si pone in alto, si fa versaglio a
molti. E per descrivervi l’animo suo quanto al fatto del trattar cose speculative, vi dico che non è tanto curioso
d’insegnare, quanto d’intendere; e che lui udirà meglior nova, e prenderà maggior piacere, quando sentirà che
vogliate insegnarlo (pur ch’abbia speranza de l’effetto), che se gli diceste che volete essere insegnato da lui; per
che il suo desio consiste piø in imparare che in insegnare, e si stima piø atto a quello ch’a questo»: così continua,
uscendo dalla bocca di Elpino, il messaggio autobiografico di Giordano Bruno: ivi, pp. 139-140.
VI
dell’Inferno dantesco: entrambi muovono, infatti, dalla considerazione della propria
«semenza», consapevoli di non essere stati creati «a viver come bruti / ma per seguir virtute e
canoscenza»
5
. Il tentativo di oltrepassare i confini dell’umano termina, per Ulisse, con il
«pianto» di chi non è riuscito a comprendere l’operato divino con le categorie intellettuali
proprie di un essere umano: il suo è, in definitiva, un «folle volo»
6
verso l’ignoto, destinato ad
arrestarsi e a non concludersi altrimenti che «com’altrui piacque»
7
. Un tentativo tanto folle
quanto folli ed inascoltate sono destinate a rimanere le grida e le domande di Antonius Blok.
Per Giordano Bruno si possono trarre le stesse conclusioni? Quale sarà l’esito dei vari
tentativi di superamento che egli effettuerà nei diversi terreni da lui solcati? ¨ proprio a tali
quesiti che si cercherà di dare risposta in queste pagine.
5
DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, ed. Le Monnier, Firenze 1928: Inferno, canto XXVI, vv. 118-119, p.
291.
6
Ivi, v. 125.
7
Ivi, v. 141.
1
Capitolo Primo
SUPERAMENTO COSMOLOGICO
§1 - L’infinità dell’universo
«Come è possibile che l’universo sia infinito?»: con questa domanda, tanto spiazzante
quanto decisa, Elpino inaugura il dialogo primo dell’opera bruniana che piø di tutte le altre
cerca di dare soluzione a tale quesito: De l’Infinito, universo e mondi. La risposta di Filoteo,
portavoce del Nolano, è altrettanto semplice e diretta: «come è possibile che l’universo sia
finito?»
1
. La naturalezza di questa contro-domanda ci deve far riflettere: che cosa spinge
Bruno a ribattere con tanta decisione da far trasparire già ad una prima lettura la fermezza
della sua posizione? La replica di Filoteo ci introduce subito in un’atmosfera particolare,
quasi agonistica
2
; ad affrontarsi non sono semplicemente due personaggi, bensì due sistemi di
pensiero, due visioni del mondo o, meglio ancora, due mondi: quello classico, chiuso e finito,
e quello che, proprio in queste pagine, sta preparando la sua stessa venuta, un mondo aperto
ed illimitato. Analizziamo ora nei dettagli questo scontro, preparandoci ad un vero e proprio
superamento di prospettiva.
Nell’opera sopra citata la tesi dell’infinità dell’universo viene esposta in tutta la sua
completezza, ma è possibile rintracciare la sua presenza già ne La Cena de le Ceneri. Qui
Bruno parla del «primo, universale, infinito et eterno efficiente»
3
: siamo nel primo dialogo e
qui l’autore è impegnato ad evidenziare «gli frutti de la nolana filosofia»
4
, come lui stesso
aveva preannunciato nella Proemiale Epistola, quei «frutti» che hanno incominciato a
intravedersi nel 1543 con la pubblicazione del De Revolutionibus Orbium Coelestium
copernicano e che ora Giordano Bruno cerca di portare alla piø completa maturazione.
L’intuizione di Copernico non mancò a suo tempo di essere accolta con grande stupore: le
reazioni di tutti i suoi lettori, scienziati e non, furono quelle che ci si potrebbero aspettare da
1
GIORDANO BRUNO, De l’Infinito, universo e mondi (Londra, 1584), in Opere italiane vol. 2, UTET, Torino
2007, p. 33.
2
Il dialogo botta-e-risposta tra questi personaggi prosegue, infatti, per altre due battute: «ELPINO: Volete voi
che si possa dimostrar questa infinitudine? / FILOTEO: Volete voi che si possa dimostrar questa finitudine? /
ELPINO: Che dilatazione è questa? / FILOTEO: Che margine è questa?»: ivi, p. 34.
3
GIORDANO BRUNO, La Cena de le Ceneri (Londra, 1584), in Opere italiane vol. 1, UTET, Torino 2007, p.
455.
4
Ivi, p. 434.
2
chiunque fosse venuto a contatto con una notizia ritenuta paradossale e assurda.
L’eliocentrismo, quindi, arriva nel panorama scientifico-filosofico del Cinquecento come un
uragano, sconvolgendo le menti e gli animi di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, si
trovano a dover fare i conti con la sua novità. Bruno, come prontamente Teofilo precisa, «non
vedea per gli occhi di Copernico nØ di Ptolomeo; ma per i proprii quanto al giudizio e la
determinazione»
5
: nonostante ciò egli non poteva, nØ d’altronde voleva, fare a meno di ciò
che la tradizione prima di lui aveva ‘visto’. La sua speculazione si trova a metà strada: non
bisogna acconsentire ciecamente a quello che essi hanno scoperto, ma nemmeno si può
prescindere totalmente da ciò che hanno pensato, nØ tantomeno da come lo hanno pensato. In
definitiva, l’atteggiamento giusto è di «aprir gli occhi a quello ch’hanno osservato e visto»
6
. ¨
per questo motivo che dalla penna del Nolano escono anche delle parole di apprezzamento per
quanto fatto da Copernico: la “rivoluzione” da lui scatenata è stata «come un’aurora, che
dovea precedere l’uscita di questo sole de l’antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta nelle
tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva et invida ignoranza»
7
. Il superamento di
Copernico si rivela così necessario per permettere a «questo sole» di innalzarsi, abbandonare
la sua posizione mattutina e risplendere in tutta la sua magnificenza. Tanta ignoranza, come
traspare anche dai successivi dialoghi della Cena, è il frutto della contaminazione operata
dalle teorie geocentriche di Tolomeo e di Aristotele. ¨ soprattutto oltre la prospettiva dello
Stagirita che bisogna andare per poter muovere i primi passi verso questa «nuova luce»
8
.
Innanzitutto si deve decidere da che parte si vuole stare, se abbandonarsi nelle tenebre o
fissare i nostri occhi verso «la luce de la verità»
9
: dipende da noi soltanto stabilire in che
rapporto porci con l’antichità e decidere se questa luce illumina il nostro orizzonte o quello di
coloro che la pensano diversamente da noi. Non ci sono vie di mezzo, e le parole che Teofilo-
Bruno utilizza per spiegarlo sono estremamente chiare: bisogna considerare
«si siamo noi in tenebre, o ver essi; et in conclusione si noi che damo principio a rinovar l’antica filosofia,
siamo ne la mattina per dar fine a la notte, o pur ne la sera per donar fine al giorno»
10
.
Il compito della «nova filosofia» bruniana è proprio questo: far sì che quel sole che sta lì,
basso nell’orizzonte, e che ancora emana una moderata quantità di luce possa oltrepassare il
suo stato e continuare la sua ascesa, in modo tale che quel panorama che Copernico ha dipinto
non sia un tramonto ma un’aurora, alla quale possa seguire una luce via via sempre piø viva.
5
Ivi, p. 447.
6
Ivi, p. 448.
7
Ivi, p. 450.
8
Espressione molto ricorrente nelle pagine bruniane.
9
Cena, op. cit., p. 461.
10
Ivi, pp. 461-462.
3
Non basta, dunque, riconoscere che la Terra non è immobile ma gira intorno al sole. Bisogna
andare oltre: pensare l’universo come illimitato e ritenere che in esso siano presenti
innumerevoli mondi simili al nostro. Questa è l’intenzione di Bruno che, componendo un
efficacissimo monologo auto-commemorativo dal tono quasi profetico, mette in bocca a
Teofilo queste parole:
«Or ecco quello ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo,
fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime, et altre che vi s’avesser potute
aggiongere sfere per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari. Cossì al cospetto
d’ogni senso e raggione, co la chiave di solertissima inquisizione aperti que’ chiostri de la verità che da
noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura: ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi
che non possean fissar gli ochi e mirar l’imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s’opponeno.
Sciolta la lingua a muti, che non sapeano e non ardivano esplicar gl’intricati sentimenti; riscaldati i zoppi
che non valean far quel progresso col spirto, che non può far l’ignobile e dissolubile composto: le rende
non men presenti, che si fussero proprii abitatori del sole, de la luna, et altri nomati astri. Dimostra quanto
siino simili o dissimili, maggiori o peggiori, que’ corpi che veggiamo lontano, a quello che n’è appresso
et a cui siamo uniti. […] A questo modo sappiamo che si noi fussimo ne la luna o in altre stelle, non
sarreimo in loco molto dissimile a questo, e forse in peggiore: come possono esser altri corpi cossì buoni,
et anco megliori per se stessi e per la maggior felicità de propri animali. […] Non è piø imprigionata la
nostra raggione co i ceppi de fantastici mobili e motori otto, nove e diece»
11
.
In un universo articolato in questa maniera, quindi, tutti i suoi componenti acquistano un
nuovo valore, e soprattutto le relazioni tra di essi assumono un significato diverso. In un
universo infinito non ha piø senso parlare di sfere concentriche, nØ tantomeno di luoghi o
posizione, di centro o circonferenza. Cosa intende dunque il Nolano quando parla di
«infinità» del mondo?
«Or ecco vi porgo la mia contemplazione circa l’infinito universo e mondi innumerabili»
12
:
con queste parole nella Proemiale Epistola del De l’Infinito Giordano Bruno incomincia la
sua argomentazione, che è possibile ricostruire muovendosi attraverso tre tematiche a mio
avviso fondamentali: il superamento della concezione aristotelica di «vuoto»;
l’oltrepassamento dell’ultima sfera concentrica dell’universo concepito in maniera classica
13
;
l’abbattimento, all’interno del sistema bruniano, di ogni forma di gerarchia.
Nel dialogo primo Filoteo fa notare ad Elpino che per Aristotele il mondo è in se stesso, e
al di là di esso non c’è nulla. Nel De Coelo egli afferma: «œxω dš toà oÙranoà dšdeiktai
Óti oÜt\ œstin oßt\ ™ndšcetai genšsqai sîma. FanerÕn ¨ra Öti oÜte tÒpoj oÜte kenÕn
11
Ivi, pp. 454-455.
12
De l’Infinito, op. cit., p. 10.
13
Sia tolemaico che copernicano.
4
oÜte crÒnoj estˆn œxω»
14
. Il vuoto non esiste: non può esistere nØ nel mondo sublunare,
secondo la teoria dei luoghi naturali, nØ tra le sfere concentriche delle stelle fisse, la cui
distanza è colmata dall’etere, nØ tantomeno oltre l’ultima di esse, al di là della quale, appunto,
non c’è nØ luogo, nØ vuoto, nØ tempo. Quel vuoto che per Democrito era l’unica causa del
movimento diventa ora, con Aristotele, un nemico da eliminare, un mostro di cui aver paura.
L’obiezione di Bruno è immediata: in un universo finito «non possiamo fuggire il vacuo»
15
. A
sostegno di questa teoria egli porta l’argomento della mano che oltrepassa l’ultima cortina
delle stelle fisse:
«se uno stendesse la mano oltre quel convesso, […] quella non verrebbe essere in loco; e non sarebe in
parte alcuna: e per conseguenza non arebe l’essere»
16
.
Questo evidentemente è assurdo: l’esempio, ripreso dall’immagine del dardo volante usata da
Lucrezio nel De Rerum Natura
17
, mostra l’assurdità propria del concepire un limite ultimo
circondato dal nulla, l’impossibilità di sostenere «che estra il cielo sia posto nulla»
18
. Giunti a
questo punto, dunque, possiamo dire che oltre l’universo in cui abitiamo secondo Aristotele
non c’è nulla, mentre secondo Bruno c’è ancora qualcosa. Che cosa? Il Nolano risponderebbe:
uno «spacio infinito»
19
, un vuoto infinito ed omogeneo capace di contenere un’infinità di
mondi
20
.
Nonostante l’importanza e la centralità di tale argomento, «lo studio della nozione di vuoto
nel pensiero di Giordano Bruno non ha ancora trovato uno spazio adeguato nella vasta
14
«Si è dimostrato che fuori del cielo non c’è nØ può venire ad esserci un corpo. ¨ evidente dunque che fuori del
cielo non c’è neppure luogo, nØ vuoto, nØ tempo»: ARISTOTELE, De Coelo, I (A), 9, 279a 16, in Opere vol. 3,
Laterza, Roma-Bari 1983, p. 269.
15
De l’Infinito, op. cit., p. 38.
16
Ivi, p. 37.
17
«Nimirum si iam finitum constituatur / omnem quod est spacium: si quis procurrat ad oras / ultimus extremas,
iaciatque volatile telum, / invalidis utrum contortum viribus ire / quo fuerit missum mavis, longeque volare; / an
prohibere aliquid censes obstareque posse? […] Nam sive est aliquid quod prohibeat officiatque, / quominu’ quo
missum est, veniat, finiquelocet se; / sive foras fertur, non est ea fini’ profecto» [«Tu pensa un momento finito lo
spazio: / se alcuno si spinge laggiø / verso gli ultimi lidi del mondo / e scaglia una freccia veloce; che cosa / ti
piace di credere? Che il dardo / lanciato con forza raggiunga la mira / e voli lontano o che possa / qualcosa
arrestarlo o impedirlo? […] GiacchØ, sia che qualcosa impedisca / al volo del dardo di giungere al segno, / sia
che il volo prosegua al di fuori, / partito non è certamente da un termine ultimo»]; LUCREZIO, De Rerum
Natura, I, vv. 968-973, 977-979: vers. it. E. Cetrangolo, Sansoni Editore, Firenze 1969. Bruno cita questo passo
lucreziano nella Proemiale Epistola del De l’Infinito, nell’Argomento del primo dialogo: op. cit., p. 11.
18
De l’Infinito, op. cit., p. 38.
19
Ibidem.
20
¨ Bruno stesso a mettere in evidenza questa sua concezione del «vuoto», tanto distante da quella aristotelica:
«gli antichi e noi prendiamo il vacuo per quello in cui può esser corpo, e che può contener qualche cosa, et in cui
sono gli atomi e gli corpi; e lui solo [Aristotele] diffinisce il vacuo per quello che è nulla, in cui è nulla e non può
esser nulla. Là onde prendendo il vacuo per nome et intenzione secondo la quale nessuno lo intese, viene a far
castelli in aria e destruggere il suo vacuo, e non quello di tutti gli altri che han parlato di vacuo e si son serviti di
questo nome ‘vacuo’»: ivi, p. 62. ¨ interessante notare come il Nolano consideri sui generis la visione
aristotelica. Per questo motivo egli sostiene che il «vuoto» scongiurato da «questo sofista» - come lo definisce
Bruno qualche riga piø sotto - è solamente il vuoto da lui inteso, e non quello di cui ha parlato il resto della
tradizione, in primis gli atomisti.
5
letteratura critica che si è finora fatta interprete della filosofia del Nolano»
21
. Barbara Amato
ne propone un’interessante lettura, volta ad evidenziare l’«indeterminatezza» e la
«polivalenza» che il concetto di «vacuo» manifesta all’interno del sistema bruniano. Nel De
l’Infinito esso assume due diverse accezioni: da una parte sta ad indicare «la natura corporea
dell’etere, la quale è sottilissima e non percepibile al senso»
22
; dall’altra definisce «la pura
dimensionalità dello spazio, capace di ricevere, in virtø della sua incorporeità, il corpo sottile
e il corpo solido»
23
. Nel primo caso il vuoto si concepisce come un elemento spirituale fluido
- impercettibile ai nostri sensi - capace di occupare l’universo infinito e di colmare le distanze
fra gli infiniti mondi che lo compongono; nel secondo caso, invece, esso viene visto come
quello «spacio infinito» di cui si è già parlato, capace di contenere tanto l’etere quanto gli
infiniti corpi solidi dell’universo. A questo punto è possibile affermare che «l’esser ‘vacuo’ di
una figura e di una natura determinata, lungi dal venir letto come impotenza o non-essere, non
significa altro che la sua infinita figurabilità, la sua infinita capacità di assumere su di sØ tutte
le qualità naturali. […] La vacuità del corpo spirituale non va dunque considerata come il
retaggio di una concezione ingenua, che chiama vuoto ciò che risulta invisibile, intangibile,
impercepibile, bensì trova la sua piø intima giustificazione in quella semplicità, omogeneità e
indifferenza di natura che lo rende privo, se non di corporeità, almeno di tutte quelle
condizioni indispensabili per il costituirsi della natura determinata dei corpi. Tale
indeterminatezza e privazione non relega l’etere ai confini dell’essere e alle soglie del nulla,
ma, al contrario, è espressione della sua infinita potenza, che lo rende infallibilmente atto a
ricevere l’essere di tutte le determinate nature corporee»
24
. In nessun caso, dunque, il vuoto
corrisponde al nulla, al non-essere: «la questione della coincidenza del vuoto con il non-essere
si converte nel suo opposto non appena ci si rende conto della eterna e immediata pienezza di
questo vuoto»
25
. Questa forte affermazione dell’esistenza del vuoto segna un tratto
fondamentale - decisivo - nella polemica che il Nolano porta avanti contro la fisica aristotelica
che, al contrario, cercava di bandirlo dalla sua cosmologia. Scongiurata la possibilità di una
sua identificazione con il nulla, il vuoto assume un’ulteriore connotazione: esso diventa
condizione trascendentale di ogni forma di movimento e di relazione all’interno dell’universo.
«Nello stesso istante in cui il vuoto distingue un corpo dall’altro, esso stabilisce una relazione
tra gli stessi, ossia rende possibile la loro contiguità. Sia in quanto spazio, sia in quanto
termine, il vuoto si rivela, dunque, ciò che permette il darsi e il concepirsi della relazione tra i
21
BARBARA AMATO, La nozione di ‘vuoto’ in Giordano Bruno, in «Bruniana & Campanelliana», Anno III,
1997/II, p. 209.
22
Ivi, p. 213.
23
Ibidem.
24
Ivi, pp. 218-219.
25
Ivi, p. 219.
6
molteplici individui che riempiono l’universo. […] La nozione bruniana di vuoto, dunque, va
al di là dell’orizzonte fisico, per costituirsi come condizione di possibilità e pensabilità della
distinzione e della intermediazione simpliciter»
26
. Oltre che determinarsi nella sua fisicità -
ossia come «ricettacolo fisico dei corpi»
27
, dotato di una dimensionalità propria e inseparabile
da quella degli altri elementi dell’universo -, il vuoto si contraddistingue anche come
«fondamento della fisicità, orizzonte ontologico e logico entro il quale tutto è e si intende»
28
:
esso si afferma nel primo caso «come natura naturata»
29
, nel secondo «alla stregua di una
natura naturans»
30
. Il problema, così, sembra diventare piø grande del previsto: studiare la
nozione di vuoto comporterebbe la necessità di dare una risposta «alla questione […] relativa
al ruolo e alla dignità da assegnare nell’edificio filosofico bruniano a un soggetto fisico e
trascendentale a un tempo»
31
. A tal proposito la Amato trae la sua conclusione: estraneo
addirittura alla dialettica vicissitudinale che coinvolge persino i due «principi constantissimi»
di materia e forma
32
, «lo spazio vuoto assurge alla stessa dignità posseduta dall’Uno nella
Causa in quanto fondamento dell’originaria determinazione forma-materia, rendendo a questo
modo plausibile l’ipotesi della identificazione dello spazio vuoto con Dio, ovvero con
quell’unica potenza semplicissima e assolutamente indifferente da cui derivano tutte le
cose»
33
.
Dopo questa parentesi - lunga ma doverosa - sulla nozione bruniana di «vuoto», per evitare
fraintendimenti è necessario chiarire subito che cosa Filoteo intenda quando parla di
«infinità»: è un punto cruciale questo per comprendere in che modo Bruno possa collegare la
teoria dell’universo infinito e quella della pluralità dei mondi. Il termine può essere usato in
tre accezioni diverse: si può riferire a Dio, all’universo o ai mondi. La relazione tra l’infinità
di Dio e l’infinita dell’universo ripropone fedelmente il binomio complicatio/explicatio della
filosofia di Cusano
34
: l’universo è «tutto infinito» in quanto non ha nØ superficie nØ limite, ma
non è «totalmente infinito», poichØ è composto da parti, ognuna delle quali è finita; Dio,
invece, è sia «tutto infinito» che «totalmente infinito», visto che è privo di termine e presente
26
Ivi, p. 224.
27
Ivi, p. 225.
28
Ibidem.
29
Ibidem.
30
Ivi, p. 226.
31
Ibidem.
32
GIORDANO BRUNO, De la Causa, principio et uno (Londra, 1584), in Opere italiane vol. 1, UTET, Torino
2007, p. 665. Questo argomento verrà discusso ampiamente nel corso di questo primo capitolo: cfr. § 3.
33
La nozione di ‘vuoto’ in Giordano Bruno, op. cit., p. 226.
34
«Una sola dunque è la complicazione di tutte le cose, e non ve n’è una per la sostanza, un’altra per la qualità,
un’altra per la quantità e via dicendo, perchØ non c’è che un solo massimo, con il quale coincide il minimo, e in
esso la diversità esplicata non si oppone all’identità complicante»: NICCOLÒ CUSANO, La Dotta Ignoranza
(1440), in La Dotta Ignoranza. Le Congetture. a cura di Giovanni Santinello, Rusconi, Milano 1988: II, 107, p.
137.
7
in maniera totale in ogni parte dell’universo
35
. L’altra distinzione è quella tra «universo» e
«mondo», che Filoteo esplicita nel secondo dialogo. Utilizzando una terminologia non
propriamente bruniana possiamo dire che quella dell’universo è una infinità qualitativa e
quantitativa, mentre quella dei mondi in esso contenuti è un’infinità puramente quantitativa. I
mondi innumerevoli contenuti nell’universo, cioè, sono infiniti quanto al numero, ma ognuno
di essi è finito. Proprio in questo senso l’universo non è «totalmente infinito»: esso, infatti,
contiene una infinità di mondi finiti. La distinzione tra infinità divina ed infinità cosmica è
fondamentale ai fini di questo percorso, che ruota intorno ad un tema, quello del superamento,
il quale non può prescindere da una teoria così centrale nell’impianto del pensiero bruniano:
l’incommensurabilità tra finito ed infinito. Così Bruno mette in relazione due diversi ordini di
infinito: l’«infinito incorporeo» di Dio ha nel «corporeo infinito» dell’universo il suo
«simulacro infinito et interminato»
36
. Già nel dialogo secondo del De la Causa, principio et
uno troviamo scritto:
«perchØ non veggiamo perfettamente questo universo di cui la sustanza et il principale è tanto difficile ad
essere compreso, avviene che assai con minor raggione noi conosciamo il primo principio e causa per il
suo effetto, che Apelle per le sue formate statue possa essere conosciuto: perchØ queste le possiamo veder
tutte, et essaminar parte per parte; ma non già il grande et infinito effetto della divina potenza: però quella
similitudine deve essere intesa senza proporzional comparazione»
37
.
Questa sproporzionalità insuperabile che contrassegna il rapporto finito/infinito - anch’essa di
stampo cusaniano
38
- sarà decisiva soprattutto da un punto di vista gnoseologico e metafisico,
ma anche in una prospettiva cosmologica, a mio avviso, essa ci aiuta a comprendere meglio il
valore di quell’«infinito corporeo» che, avvicinato all’«infinito incorporeo» divino, rischia di
vedere offuscato il suo valore. Come Filoteo spiega chiaramente ancora nel De l’Infinito:
«bisogna che di un inaccesso volto divino, sia un infinito simulacro nel quale come infiniti membri poi si
trovino mondi innumerabili, quali sono gli altri»
39
.
¨ necessario che questo simulacro ci sia, ed è necessario che sia così come esso è: infinito.
«Uno dunque è il cielo, il spacio immenso, il seno, il continente universale, l’eterea regione per la quale il
tutto discorre e si muove. Ivi innumerabili stelle, astri, globi, soli e terre sensibilmente si veggono, et
35
De l’Infinito, op. cit., pp. 47-48.
36
Ivi, p. 42.
37
De la Causa, op. cit., p. 649.
38
«Ogni ricerca consiste dunque in una proporzione comparante, che è facile o difficile. Ma l’infinito, in quanto
infinito, poichØ si sottrae ad ogni proporzione, ci è sconosciuto»: La Dotta Ignoranza, op. cit., I, 3, p. 68.
39
De l’Infinito, op. cit., p. 43.
8
infiniti ragionevolmente si argumentano. L’universo immenso et infinito è il composto che resulta da tal
spacio e tanti compresi corpi»
40
.
In un universo così concepito, dunque, lo spazio infinito che ha consentito il superamento
della cosmologia aristotelica comporta un ulteriore novità: l’eliminazione della sfera
immobile delle stelle fisse e il superamento della cosmologia copernicana
41
. Nell’universo di
Bruno non c’è piø alcun punto di riferimento e, di conseguenza, viene meno anche ogni forma
di gerarchia. Nella Proemiale Epistola del De la Causa si dice:
«l’universo è tutto centro, e tutta circonferenza»
42
.
Nell’infinito non ha piø senso alcuno parlare di centro assoluto e di circonferenza. Così Bruno
recupera la celebre formula che Ermete Trismegisto riferiva a Dio e che, per la prima volta,
proprio Cusano aveva esteso all’universo
43
. La diretta conseguenza dell’infinitizzazione
dell’universo è proprio la relativizzazione di quei termini che, una volta superata la
prospettiva peripatetica, perdono tutto il loro valore: le coppie di opposti come
centro/periferia, alto/basso, quiete/movimento non hanno piø significato, dato che tutti i punti
ora si equivalgono. I valori del De Coelo aristotelico non solo vengono superati dalla
prospettiva bruniana, ma vengono letteralmente capovolti. Ognuna delle innumerevoli stelle
dell’infinito universo potrebbe essere il centro di un sistema planetario simile al nostro:
«così bisognerebbe dire, atteso che tutte le terre son degne di aver la medesima raggione, e tutti gli soli la
medesima»
44
.
La convinzione umanistica di una Terra al centro del cosmo e di un essere umano al centro
della Terra viene così brutalmente spazzata via: se queste sono le ripercussioni a livello
cosmologico, altrettanto drastiche saranno quelle etico-morali. Lasciando queste
40
Ivi, p. 87.
41
Ivi, p. 83.
42
De la Causa, op. cit., p. 606. Nel dialogo quinto, inoltre, Bruno precisa: «Se il punto non differisce dal corpo,
il centro da la circonferenza, il finito da l’infinito, il massimo dal minimo, sicuramente possiamo affirmare che
l’universo è tutto centro, o che il centro de l’universo è per tutto; e che la circunferenza non è in parte alcuna, per
quanto è differente dal centro; o pur che la circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto che è
differente da quella. Ecco come non è impossibile, ma necessario che l’ottimo, massimo, incomprehensibile, è
tutto, è per tutto, è in tutto: perchØ come semplice e indivisibile, può esser tutto, esser per tutto, essere in tutto. E
cossì non è stato vanamente detto che Giove empie tutte le cose, inabita tutte le parti de l’universo, è centro de
ciò che ha l’essere: uno in tutto, per cui uno è tutto»: op. cit., p. 728. Dalla lettura di queste righe risulta chiara la
corrispondenza dei concetti di «infinità» e di «unità» dell’universo (cfr. § 2). Sull’argomento il Nolano torna
anche nel dialogo quinto del De l’Infinito, quando Filoteo dice ad Albertino: «nell’universo non è mezzo nØ
circonferenza: ma (se vuoi) in tutto è mezzo, et in ogni punto si può prendere parte di qualche circonferenza, a
rispetto di qualche altro mezzo o centro»: op. cit., p. 153.
43
«La macchina del mondo avrà il centro dovunque, e la circonferenza in nessun luogo, poichØ la sua
circonferenza e il suo centro sono Dio, che è dappertutto e in nessun luogo»: La Dotta Ignoranza, op. cit., II,
162, p. 175.
44
De l’Infinito, op. cit., p. 91.
9
considerazioni per poi riprenderle in un contesto piø opportuno
45
, basti ora pensare come una
volta eliminato ogni confine, ogni margine dell’universo e concesso che le sfere si vadano
amplificando sempre di piø all’infinito, ogni gerarchia perda il suo significato. E per far sì che
tutte le sue forme vengano definitivamente superate è necessario che all’interno dell’universo
non ci siano piø distinzioni di sorta: in altre parole, è necessario che l’universo sia «uno».
§2 - La «connessione di tutte le cose con tutte le cose»: la coincidentia
oppositorum bruniana
Il superamento della cosmologia aristotelico-tolemaica prima, e di quella copernicana poi,
ci ha messo di fronte un «infinito simulacro» all’interno del quale si manifesta un assoluto
oltrepassamento di ogni forma di opposizione. Questa ulteriore forma di superamento ci apre
ad un’altra caratteristica fondamentale dell’universo bruniano: la sua «unità».
Già nel De Umbris Idearum il Nolano mette in luce delle tematiche che accompagneranno
tutta la sua produzione, latina e volgare: la «scala della natura»
46
, il mondo come «grande
animale»
47
, la connessione, l’ordine e l’armonia di tutte la cose. Nel settimo dei trenta modi di
intendere le ombre egli scrive:
«GiacchØ dunque in tutte le cose c’è ordine e connessione, cosicchØ i corpi inferiori fanno seguito ai medi
e i medi ai superiori, le cose composte sono unite alle semplici, le semplici alle semplicissime, le
materiali toccano le spirituali, le spirituali a loro volta le materiali, certamente uno solo è il corpo
dell’ente universale, uno solo l’ordine, uno solo il governo, uno solo il principio, uno solo il fine, uno solo
il primo, uno solo è l’estremo»
48
.
Non c’è alcuna distinzione all’interno del cosmo: tutti gli elementi, tutti i corpi che esso
contiene sono collegati in successione gli uni agli altri come tanti gradini, e questo fa sì che
davanti ai nostri occhi la natura si presenti con le sembianze di una «scala»
49
. Questa
45
Cfr. capitolo secondo.
46
GIORDANO BRUNO, Le ombre delle idee (Parigi, 1582), in Le ombre delle idee. Il canto di Circe. Il sigillo
dei sigilli. introd. di M. Ciliberto, traduz. di N. Tirinnanzi, BUR, Milano 1997, p. 66.
47
Ivi, p. 70.
48
Ivi, pp. 64-65.
49
Davanti ai «nostri» occhi. L’immagine della «scala» è un puro espediente gnoseologico proprio
esclusivamente dell’uomo e della finitezza della sua capacità visivo-memorativa. ¨ quanto afferma PIETRO
SECCHI in Elementi di teologia nel De umbris idearum, «Bruniana & Campanelliana», Anno VIII, 2002/II, pp.
431-447. Egli sottolinea «il rifiuto e addirittura il sarcasmo cui va soggetta la schala naturae ogniqualvolta
Bruno si concentra sulla sua ontologia […] e poi il suo continuo richiamo ogniqualvolta si concentra sulle
operazioni mentali»: op. cit., p. 441. A sostegno di questa sua teoria Secchi prende come esempio due passaggi,
il primo tratto dal De Umbris, il secondo dalla Proemiale Epistola del De l’Infinito. Dal testo latino egli cita una
parte del tredicesimo modo di intendere le ombre: «certamente, se una concordia in certo modo indissolubile
connette gli estremi dei primi ai principi dei secondi, e ugualmente connette i talloni di quanti procedono alle
teste di quanti li seguono da vicino, potrai toccare con mano quella catena d’oro che si raffigura tesa dal cielo