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INTRODUZIONE
La volontà di compiere una ricerca sui ragazzi di “Seconda
generazione” nasce da molteplici considerazioni. L’emigrazione (o
l’immigrazione, se vista con gli occhi di chi riceve) è antica quanto
l’uomo; fiumi di parole si sono spesi per studiare, capire, sondare il
fenomeno. È invece abbastanza recente, almeno nel nostro Paese,
l’interesse verso chi “viene dopo”. L’Italia è una Nazione divenuta
oggetto di considerevoli flussi migratori solo negli ultimi decenni, dopo
esser stata per secoli luogo di partenza; ne consegue che il fenomeno
“Seconda generazione” sia ancor più recente, e solo negli ultimissimi
anni ha acquisito i numeri per diventare questione di interesse
nazionale. I bambini e i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri (i
cosiddetti G2), secondo le ultime stime, sono circa 400 mila, e si
prevede che tra pochi anni diventeranno un milione. Un vero esercito
di giovani con i quali, volenti o nolenti, si dovrà fare i conti. Spesso si
tende ad unificare le vicissitudini di questi ragazzi con quelle dei loro
genitori, tant’è che non è raro trovare la dicitura “Immigrati di Seconda
Generazione”. Basta poco per evidenziare la contraddizione di una
simile etichetta in quanto è, per definizione, immigrato solo chi ha
personalmente compiuto l'esperienza della migrazione; questi ragazzi,
al contrario, non hanno compiuto alcun tragitto o al massimo sono stati
spettatori di una migrazione involontaria, data la tenera età in cui è
avvenuta. Il pressapochismo di chi giudica e parifica i due fenomeni
troppe volte si riflette su chi lo subisce, facendolo sentire “straniero”
senza esserlo e creando una spirale di pregiudizi. In effetti è davvero
difficile trovare le parole adatte per dividere i ragazzi G2 da chi non lo
è; nel corso della ricerca i secondi spesso saranno classificati come
“autoctoni” per pura convenienza, nella consapevolezza di come
anche tale etichetta sia discutibile.
L’interesse per la Seconda generazione nasce però anche dalle
esperienze che ho personalmente vissuto sia nel mio lavoro quotidiano
di educatore che come tirocinante psicoterapeuta presso il reparto di
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Neuropsichiatria Infantile di Rimini. Negli anni ho constatato come una
quota non trascurabile di soggetti a rischio provenga proprio dalla
popolazione G2 (anche se studi in proposito non hanno riscontrato una
tale incidenza), e come tanti tra loro possiedano caratteristiche comuni
più facili da cogliere che da spiegare. La “Non appartenenza” è
senz’altro il sentimento che più li contraddistingue, pur essendo esso
stesso complesso e dunque non facile da delineare. Capire la “Non
appartenenza” è difficile per chi conosce solo la “Appartenenza”, dato
che questa accompagna l’individuo fin dalla nascita ed è quindi del
tutto naturale e inconsapevole. La “Non appartenenza” fa sì che i
ragazzi G2 sperimentino come un qualcosa da imparare, da subire o
peggio ancora da evitare e combattere, il retroterra sociale e culturale
del paese in cui crescono; il tutto senza averne un altro, come i loro
genitori. Nella mia esperienza ho spesso notato come tra i ragazzi a
rischio “Italiani” e quelli G2 ci fosse una sottile differenza qualitativa
relativa al modo di porsi; per gli uni, scevri da (ulteriori) etichettamenti,
esiste sempre e comunque un “ruolo”, uno spazio che vanno a coprire
all’interno della rete sociale, per gli altri invece c’è una lotta (che si
traduce in due soli modi, scontro o rinuncia) contro un mondo che gli è
stato riferito non essere il loro. Questa differenza l’ho osservata
soprattutto nella resa scolastica dei ragazzi che, benché problematica
in entrambi i casi, quasi sempre mi è sembrata sottilmente diversa.
Mentre negli autoctoni prevale una “naturale” scarsa volontà, meglio
affrontabile in quanto conosciuta ai più anche per esperienza diretta,
nei ragazzi G2 c’è una sorta di rassegnazione, come se la scuola, ed il
relativo insegnamento, facessero parte di una realtà con la quale
rapportarsi solo perché “bisogna farlo”. Il modo di porsi di quest’ultimi
l’ho trovato più affine allo sconforto di quei ragazzi consapevoli di
avere difficoltà di apprendimento e che per questo “si lasciano andare”;
spesso ho dovuto constatare come, per i ragazzi autoctoni, la
sensazione degli operatori fosse che prima o poi si sarebbero
agganciati “all’ultimo vagone del treno”, mentre per i G2 quel treno era
già passato. La scuola come realtà non interiorizzata è ravvisabile
anche in alcune situazioni di iperinvestimento ma ciò, almeno in una
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prima fase, ha risvolti meno critici. Sottolineo che queste sono
considerazioni personali, neanche applicabili a tutte le situazioni che
ho conosciuto, e dunque rappresentano una semplice tendenza da
non trascurare. Il fatto di non sentirsi né di una parte, né dell’altra, non
è mai un facile oggetto di discussione, e tuttavia in maniera latente
crea incertezza nel ragazzo G2, poiché egli ha due linguaggi per
parlare, due capodanno da festeggiare, due nazionali di calcio da
tifare, a volte due nomi per presentarsi. Durante il tirocinio ho assistito
alle evoluzioni di un ragazzo G2 nordafricano che nei periodi più difficili
(delusioni d’amore, litigi con amici) si rifugiava nei dettami della cultura
genitoriale, mentre in quelli buoni diventava occidentale, vestendosi
per somigliare ai suoi coetanei “italiani” così come a carnevale ci si
veste per somigliare ad un qualche supereroe. Ricordo ancora il
disorientamento quando, in un giorno di fervente radicalismo anti-
italiano, gli feci notare (con cauta ironia) come Bologna, la sua città
natale, non fosse propriamente una metropoli del Maghreb. Le sue
contraddizioni, grandi e piccole, lo rendono simile al G2 “peruviano”,
“cinese”, “rumeno”, pur senza condividere con questi alcunché.
In conclusione, ho utilizzato per la mia ricerca il Test di Lüscher poiché
lo ritengo uno strumento adatto ad una popolazione così incline alla
“chiusura” e poco propensa ad indagini invasive. Lo studio ha come
obiettivo di rilevare possibili indici significativi all'interno del campione
preso in esame, controllando inoltre eventuali differenze tra gruppi
quali "Sesso" ed "Area Geografica". La ricerca si propone di fornire
spunti degni di ulteriore approfondimento da svolgere su larga scala.
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1) LA SECONDA GENERAZIONE
1.1 Definizione di “Seconda generazione” (G2)
Definire in maniera chiara la “Seconda generazione” (G2) o, per meglio
dire, le “Seconde generazioni”, è molto arduo. Rientrano in questo
universo casi diversi che spaziano dai giovani nati e cresciuti nella
società ricevente a quelli ricongiunti dopo aver compiuto un ampio
processo di socializzazione nel Paese d’origine; si aggiungono al
quadro i figli di coppie miste e tante altre situazioni spurie. A causa di
questa confusione spesso il concetto “Seconda generazione” viene
identificato con quello più ampio di “Figli degli immigrati”. Ciò porta ad
una mescolanza di problematiche e contenuti con conseguenti
valutazioni e conclusioni errate.
Schematizzando, tra i “Figli degli immigrati” troviamo differenti
categorie di ragazzi che si diversificano a seconda delle esperienze
migratorie. Possiamo dunque trovare:
Ragazzi figli di immigrati, nati ed abitanti nel Paese d’origine (presso
familiari, parenti o in collegi per figli di emigrati); hanno un’esperienza
migratoria personale molto limitata (periodi di vacanze, presenze
saltuarie all’estero) e sono i soggetti meno riconducibili al concetto di
“G2”.
Ragazzi nati nel Paese d’immigrazione o che vi hanno dimorato alcuni
anni (soprattutto da piccoli), per poi rientrare con o senza i genitori nel
Paese d’origine dei genitori (o di uno di essi). Anche questi
adolescenti sono abbastanza distanti dalla definizione “G2”, e sono
meglio classificabili come “rimpatriati”. Tuttavia subiscono ugualmente
problemi di un non facile inserimento culturale, scolastico e
professionale: spesso per loro “rimpatriare” equivale ad emigrare.
Ragazzi nati nel Paese d’origine che emigrano insieme con i genitori
o li raggiungono per il “ricongiungimento familiare”, alla fine della
scolarizzazione o da maggiorenni. Essi, pur presentando difficoltà
d’inserimento e problematiche affettive molto pesanti, più che alla
“Seconda generazione” appartengono alla “Prima generazione” di
immigrati.
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Ragazzi figli di immigrati che hanno vissuto in modo pendolare tra il
Paese di origine ed il Paese di immigrazione: a volte hanno
frequentato classi scolastiche in entrambi i Paesi, senza completare
nessuna delle due scolarizzazioni. Spesso presentano problemi
specifici di adattamento sia nella società di accoglimento che nella
propria famiglia: tuttavia le problematiche esistenziali alle quali sono
sottoposti sono diverse da quelle dei ragazzi della “Seconda
generazione”, avvicinandosi maggiormente a quelli della “Prima
generazione”. Sono catalogabili come “Seconda generazione atipica”.
Ragazzi “migranti”: ragazzi che emigrano senza genitori (rifugiati) o
che emigrano in vista di un’adozione. Presentano anch’essi difficoltà
d’inserimento ma, pur avvicinandosi alle problematiche dei ragazzi di
“Seconda generazione”, vivono una situazione qualitativamente
diversa rispetto alla G2.
Ragazzi nati da matrimoni misti, nei quali uno dei coniugi è cittadino
del Paese d’accoglimento. Essi presentano statuti giuridici diversi a
seconda dei Paesi di immigrazione; pur avendo facilitazioni
considerevoli per quanto concerne l’inserimento nella società locale,
per molti aspetti si avvicinano alla “G2”.
Ragazzi figli di migranti, nati nel Paese di origine dei genitori ma che li
hanno raggiunti o sono emigrati con loro in tenera età o comunque
prima dell’inizio della scolarizzazione (o nei primi anni della
scolarizzazione); insieme ai figli degli immigrati nati e scolarizzati nel
Paese di immigrazione, formano la tipica “Seconda generazione”.
Dunque secondo tale classificazione la “G2” è formata dai giovani che
sono nati nel Paese di immigrazione o che comunque vi abbiano
compiuto il ciclo della scolarizzazione.
Rimbaud (1997), assumendo che vi sia una sorta di continuum tra le
varie situazioni sopraelencate, ha reso ancor più netti i confini della
“Seconda generazione” formulando quattro categorie:
Generazione 2.0; la “Seconda generazione” tout-court, ossia ragazzi
nati nel Paese di accoglimento.
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Generazione 1,75: popolazione che emigra in età prescolare (0-5
anni) e svolge l'intera carriera scolastica nel Paese di destinazione.
Generazione 1,50: generazione che ha cominciato il processo di
socializzazione e la formazione primaria nel Paese di origine ma ha
completato l'educazione scolastica in quello di accoglimento, dove
arriva tra i 6 ed i 13 anni.
Generazione 1,25: soggetti che emigrano dal Paese di origine in età
adolescenziale, ossia tra i 13 e i 17 anni.
Riassumendo, secondo la classificazione di Rimbaud, appartiene alla
“G2” solo chi è nato e vissuto nel Paese d’accoglimento ed è figlio di
genitori entrambi stranieri.
A margine di ciò è doveroso sottolineare che tali suddivisioni, per
quanto utili ai fini della ricerca, sono inadeguate nel cogliere l’ampiezza
dell’argomento, poiché colpevolmente e consapevolmente prive di
molti altri fattori di notevole incidenza quali il sesso, le caratteristiche
fisiche, le condizioni del Paese di accoglimento, quelle del Paese di
origine etc.
In conclusione gli schemi sopraelencati sono uno strumento utile solo
per individuare ”linee generali” di conoscenza del problema,
rimandando la ricerca di soluzioni ad analisi che meglio colgano
problematiche specifiche, locali o perfino individuali.
1.2 Pubertà, Adolescenza e Preadolescenza
Nozioni come pubertà, adolescenza, preadolescenza si alternano fra
loro in modo non sempre chiaro. Pubertà e adolescenza sono due
nozioni da non confondere, poiché si riferiscono a due processi
differenti dello sviluppo individuale.
La pubertà è il passaggio dalla condizione fisiologica del bambino alla
condizione fisiologica dell'adulto.
L’adolescenza è il passaggio dallo status sociale del bambino a quello
dell'adulto: essa varia per durata, qualità e significato da una civiltà
all'altra e, all'interno della stessa civiltà, da un gruppo sociale all'altro.
Nondimeno, i fattori che intervengono sulla fenomenologia
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dell'adolescenza non sono privi di conseguenze neppure sul processo
fisiologico della pubertà, la cui età d’esordio dipende anche da fattori
sociali (ad esempio condizioni nutrizionali, igieniche, sanitarie).
Dunque è necessario operare una distinzione concettuale fra pubertà e
adolescenza, ed è ugualmente importante non ridurre il processo
puberale alla sola maturazione sessuale, per quanto profonda e
brusca, ossia non caratterizzata dal procedere graduale tipico di ogni
altro fenomeno somatico. Oltre ad essere un periodo specifico per lo
sviluppo sessuale, la pubertà costituisce anche una fase particolare
dello sviluppo staturo-ponderale e morfologico implicando delle
trasformazioni organiche che interessano le grandi funzioni
(respiratoria, cardiaca, ecc.). La pubertà è un passaggio fisiologico; si
tratta quindi di un periodo e non di un avvenimento, in cui si realizzano
diversi cambiamenti di tipo morfologico, fisiologico e sessuale; la
nozione di pubertà non è chiusa nell'ambito dell’evoluzione biologica,
così come la nozione d’adolescenza non fluttua solo all’interno dei
cambiamenti sociali. L'età media della pubertà è inoltre oggi più
precoce rispetto agli anni passati. Il fenomeno di anticipazione della
pubertà si connette ad un altro fenomeno, il ritardo della «maturità
sociale» per le giovani generazioni di oggi. Il periodo di
indeterminatezza fra l'infanzia e la condizione adulta si allunga in tutte
le società occidentali, creando un divario notevole fra la precocità della
maturazione fisica e il ritardo della maturità sociale.
La nozione di preadolescenza è alquanto controversa; essa non è
frequentemente utilizzata, anche se le tendenze attuali mostrano un
allargamento del suo impiego da collegarsi con le trasformazioni attuali
della società. Nella letteratura appare con accezioni diverse e non
sempre congruenti tra loro per quanto riguarda le dinamiche interne
che la caratterizzano. I due canoni su cui si fondano le definizioni di
preadolescenza sono il criterio cronologico, che pur con varie
fluttuazioni situa tale periodo tra i 10 e i 14 anni, ed il criterio biologico,
che pone al centro le trasformazioni somatiche. Blos (1979), tuttavia,
sostiene che la preadolescenza non può essere descritta né in termini
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prettamente cronologici, né di pura dipendenza dai fattori biologici,
poiché è caratterizzata da una propria specificità psicologica.
A conferma di quanto scritto, nell'ambito della ricerca si è rilevato come
non esista un'unica adolescenza, in quanto le sue caratteristiche sono
troppo mutevoli in funzione di variabili quali età, sesso, appartenenza
socioculturale etnica e geografica dei soggetti. Per quanto riguarda in
particolare la variabile età, la constatazione di sistematiche
differenziazioni fra gli individui di 11-14 anni e quelli di 15-18 anni ha
portato ad ipotizzare una “Prima” e “Seconda” adolescenza, e
addirittura una adolescenza «intermedia», riferendosi ad una possibile
età “cerniera” compresa fra i 15 e i 16 anni.
La preadolescenza costituisce una fase di transizione specifica
nell'arco evolutivo; è considerata l'età delle “Grandi migrazioni”, dove
“L'individuo si stacca dal proprio corpo infantile, prende distanza dalla
famiglia e si volge sempre di più al gruppo dei pari, passa
gradualmente dalla logica delle operazioni concrete a quella formale,
ridefinisce in termini critici la propria appartenenza scolastica, mette in
questione la propria religiosità, avvia il processo di rielaborazione della
propria identità personale e sociale” (De Pieri e Tonolo, 1990).
Il primo compito della preadolescenza è procedere ad una
ristrutturazione dell'identità corporea messa in crisi dalla quantità e
qualità dei cambiamenti corporei della pubertà, che per la maggioranza
degli individui si situano cronologicamente nella prima parte
dell'adolescenza. L'insieme delle trasformazioni puberali implica
sicuramente delle reazioni psicologiche in un individuo che è in grado
di percepire i propri cambiamenti fisici, di valutarli, di confrontarli con
quelli dei coetanei. L'impatto a livello soggettivo di questi cambiamenti
non è lo stesso per tutti in quanto dipende dalle caratteristiche di
ciascun individuo, dalla sua storia personale, dal suo livello di
informazione a proposito di quanto sta accadendo, dal modo in cui il
suo ambiente sociale reagisce a questi cambiamenti. Le trasformazioni
fisiche della pubertà hanno in sé caratteristiche che mettono alla prova
le capacità di adattamento del soggetto. Da un lato esse sono rapide e
in buona parte «visibili», dall'altro si compiono ad età variabili
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(introducendo in tal modo il problema del confronto interindividuale) e
seguono un percorso maturativo che implica delle provvisorie
disarmonie nell'aspetto fisico, su cui possono innestarsi delle
altrettanto temporanee ansie dismorfofobiche. La dismorfofobia è
piuttosto comune nella preadolescenza e generalmente scompare col
procedere stesso dello sviluppo. In tal senso si può parlare di
dismorfofobia “Evolutiva” per distinguerla da quella patologica.
Strettamente legati al corpo sono anche i comportamenti e gli
atteggiamenti riferiti al genere sessuale di appartenenza: è un periodo
di consolidamento e d'intensificazione delle condotte di genere, a cui il
preadolescente diviene sempre più sensibile anche sotto l'influenza di
famiglia, scuola, coetanei e televisione.
Altro aspetto caratterizzante la preadolescenza è il delinearsi del
processo di autonomizzazione dalla famiglia e l'apertura a nuove forme
di socialità, fra le quali assume un peso crescente il mondo dei
coetanei. La riflessione su di sé acquisisce nuovi livelli di
approfondimento, come pure la presa in carico di aspetti della realtà
finora meno centrali. Gli ambiti di interesse subiscono delle
trasformazioni, in linea con l'ampliarsi dell'orizzonte di vita e con
l'atteggiamento di sperimentazione attiva tipico di questo periodo.
In conclusione l’iter evolutivo adolescenziale si delinea come un
composto di tappe specifiche che tuttavia assumono un valore molto
più teorico che pratico a causa delle numerose variabili presenti
all’interno dell’iter stesso.