2
Lo studio del rapporto tra cinema e storia è un campo
complesso, che da più di un decennio è stato alimentato da nuovi
stimoli teorici e artistici. Permette di analizzare le dinamiche
sociali di un’epoca, le forme figurative, le strategie comunicative,
la mentalità, la ricerca e l’elaborazione estetica, l’interpretazione
del passato e allo stesso tempo il ruolo del cinema nella società e
nella contemporaneità, l’apporto alla formazione di un pensiero e
immaginario collettivo, multiforme, e di una memoria, non solo
iconografica.
Il progetto è stato suddiviso in tre parti, in dialogo tra loro. La
prima “Rappresentazione e visione: teatri di guerra” ripartisce la
geografia del conflitto in cinque grandi aree territoriali,
analizzando le diverse opere che si soffermano su ciascuna: dalla
Croazia alla Bosnia, dalla Serbia alla Macedonia, fino al Kosovo.
Focalizzando l’attenzione anche su tre città particolari: Sarajevo,
vittima di un lungo assedio e protagonista di una indescrivibile
resistenza culturale, Belgrado e Vukovar. La filmografia
delineata, segnata da un non trascurabile approccio artistico, si è
rivelata composita e multiforme. Tre approfondimenti concludono
la sezione: la storia e il destino dei Balcani come costante della
relazione “mito e realtà”; il conflitto visto dai registi italiani; il
complesso rapporto tra media e guerra.
La seconda, sulla storia delle guerre jugoslave, si inserisce tra le
due parti più “cinematografiche”, proprio a voler sottolineare
l’interdisciplinarità che struttura la ricerca. Indicativamente
vanno dal 1991 al 1999, ma comprendono una lunga fase di
incubazione e la propaggine del conflitto macedone. Questa
sezione cerca di fornire un quadro sulla storia recente e la
società dell’ ex Jugoslavia, smontando l’idea distorta e
semplificata di una guerra per motivi etnici, e si pone come base
essenziale per lo studio dei film. E’, infatti, interessante in alcuni
3
passaggi utilizzare una lettura “non lineare” che permetta di
creare un rapporto sincronico e diacronico tra cinema e storia.
La terza ed ultima parte è dedicata ad Underground (1995) di
Emir Kusturica, probabilmente allo stesso tempo il film più noto,
controverso e complesso sull’intera tematica. Dopo l’analisi
dell’opera, si sono rilevati alcuni nodi problematici del testo
filmico: la “reconstruction” storica effettuata dalla pellicola,
ovvero l’interpretazione creativa, non sempre filologicamente
corretta, ma in grado di muovere un discorso articolato sul
presente e sul passato
1
; il mito e la realtà nel film; la
contaminazione delle categorie “realtà” e “finzione” tra
surrealismo, doppio, vero e manipolazione; infine le numerose
polemiche, sul suo valore “politico”, che avevano accompagnato
il successo a Cannes nel 1995 e l’uscita del film nelle sale.
1
Si veda Marc Ferro, Cinema e storia, Milano, Feltrinelli, 1980 (del testo vi è poi
un’edizione aggiornata Cinéma et Histoire, Gallimard, Parigi, 1993).
4
1.1 CINEMA E GUERRE JUGOSLAVE
Dieci anni di lunga guerra, con qualche pausa dopo il 1995, ma
senza allentamenti di tensione. Tanto durarono i conflitti nell’ex
Jugoslavia, che imperversarono per tutti gli anni Novanta e sono
diventati oggetto, e a tratti ossessione, dei cineasti, prima
balcanici e poi di tutto il mondo. Quella dei registi jugoslavi fu
una reazione pressoché istantanea, basti pensare che il primo
film Il disertore (1992) di Živjon Pavlović è stato girato a
Vukovar quando i fuochi della guerra erano ancora accesi.
E’ un argomento di ricerca che solo ultimamente viene studiato a
livello accademico. Nell’aprile del 2004 Nevena Daković, storica
del cinema e docente all’Università di Belgrado, contava più di
trecento film di finzione e documentari, che trattano della
disgregazione del Paese
2
. Ne deriva un racconto multiforme e
stratificato. A questo “genere” senza confini, la stessa Daković
propone la denominazione di “nuovo film di guerra post-
jugoslavo”
3
.
Diverse opere hanno ottenuto una considerevole ribalta
internazionale nei maggiori festival: Prima della Pioggia di
Manchevski ha conquistato il “Leone d’oro” a Venezia nel 1994,
un anno dopo a Cannes Kusturica con Underground ha vinto la
“Palma d’oro” e Angelopoulos con Lo sguardo di Ulisse, il “Gran
premio della giuria”; Benvenuto Mr. President di Žalica ha
ricevuto il Pardo d’argento a Locarno nel 2003, Pretty Village,
Pretty Flame di Dragojević e La polveriera di Paskaljević hanno
riscosso notevoli consensi e riconoscimenti in varie rassegne
2
Il dato è riportato all’interno di un articolo di Nevena Daković, La guerra sul grande
schermo per il settimanale indipendente “Vreme” di Belgrado, pubblicato dal “Corriere dei
Balcani” (10 aprile 2004) e tradotto anche dall’ “Osservatorio dei Balcani” (16 aprile
2004).
3
Ibidem
5
internazionali, infine nel 2002 No Man’s Land di Danis Tanović ha
ottenuto l’ Oscar per la Bosnia-Erzegovina.
La narrazione cinematografica ha costruito metafore complesse
(Underground e Prima della Pioggia), si è avvicinata alla tematica
attraverso un naturalismo vivo e metafisico (Pretty Flame, Pretty
Village; I testimoni/Svjedoci), un umorismo agrodolce
(Benvenuto Mr. President, Beautiful People) e molto più
raramente ha ceduto ad una propaganda unilaterale (Tempo
d’amare).
I film affrontano diverse storie: il mondo dell’informazione e dei
reporter di guerra (Benvenuti a Sarajevo, Nema problema,
Veillées d'armes), Sarajevo sotto assedio (Do you remember
Sarajevo?), la difficoltà di prendere una posizione (Pretty Village,
Pretty Flame; Prima della pioggia), la situazione di follia e
stagnazione a Belgrado (Premeditated Murder, Ghetto), la
complessità della Storia dei Balcani (Lo sguardo di Ulisse,
Underground), il destino dei bambini orfani (Il Cerchio perfetto),
l’assurdità della guerra (No man’s land), il dramma di Vukovar
(Vukovar: Poste Restante, Harrison’s Flower), il rapporto tra
Europa e Balcani (Beautiful People, Forever Mozart), la violenza
contro le donne in guerra (Calling the Ghosts), l’incapacità
dell’Onu e della comunità internazionale di intervenire e
comprendere (tematica ricorrente) ed insieme i traumi
contemporanei dell’ “urbicidio” (la distruzione sistematica delle
città), della povertà, dell’isolamento e della distruzione sociale.
Dalla seconda metà degli anni Ottanta, i media di informazione
jugoslavi, in primis la televisione, sono diventati strumento
fondamentale della propaganda nazionalista e così fattore
scatenante del futuro conflitto e del condizionamento popolare.
In una situazione simile poteva essere possibile un allineamento
del cinema agli altri media, in base ad una conversione in atto di
6
principi etici in etnici. Fortunatamente ciò non è accaduto, sia
perché i registi hanno ritenuto impossibile associarsi all’isteria
nazionalistica, sia perché nella seconda metà dello scorso secolo
il cinema ha avuto una ricollocazione all’interno del sistema dei
media, con l’avvento della televisione che l’ha in buona parte
emancipato dai doveri di propaganda.
I film offrono spiegazioni molteplici e complesse della guerra,
talvolta cadono in confusioni interpretative, a cui sono soggette
anche le numerose “instant history” (saggi storici o giornalistici)
che accompagnano le rivalità balcaniche. Alcune pellicole
ricorrono all’ipotesi di debiti storici e nazionali che si trascinano
dal passato (Underground), altri invece, in forme diverse,
spiegano la drammatica contemporaneità con l’impassibilità del
destino balcanico (La polveriera, Prima della pioggia), altri
ancora presentano gli eventi attraverso una situazione comica
basata sulla follia del temperamento balcanico (Benvenuto
Mr.President). I film criticano, anche indirettamente, chi ha
incitato lo scontro militare e sollecitato l’odio tra i popoli della
jugoslavia. Pretty Village, Pretty Flame e I testimoni suddividono
le responsabilità tra tutte le parti in causa. No man’s land
rappresenta la guerra come male universale e non solo come un
fenomeno endemico di quei territori.
Ritorna nei film un’interpretazione “mitica”, consolidatosi
soprattutto nel dopo Dayton (novembre ’95) della storia della
Jugoslavia, intesa come fatalistica e ciclica. A tal proposito Marco
Dogo, in uno studio sulla storia dei Balcani, scrive: “Esiste un
destino balcanico? La domanda può essere tradotta in questi
termini: esiste una specie di condanna alla ricorrente ripetizione
di una storia di violenze? Sì e no. Esiste un destino nel senso di
7
condizionamento storico che predispone al ripetersi intermittente
di violenze, ma non è un condizionamento invincibile”
4
.
L’analisi della relazione tra cinema e storia a proposito delle
guerre jugoslave fa emergere problematiche affrontate nella
ricerca teorica. Dal cinema come agente e fonte storica di Marc
Ferro
5
al concetto di visibile di Pierre Sorlin
6
. Gli ultimi studi di
Sorlin, che in La storia nei film
7
affrontava il tema del film
“storico” sostenendo che tali pellicole rappresentano il passato e
riorganizzano il presente, allargando la ricerca ad altri media
come la televisione (che col cinema finisce per creare la “realtà”)
si interrogano sull’“irrappresentabilità” della storia; L’immagine e
l’evento
8
esamina come la Storia possa essere anticipata se non
addirittura determinata dal sistema dei media, le immagini che
rappresentano il mondo, a volte influiscono sulle circostanze o
condizionano un modo di interpretare gli eventi. Robert
Rosenstone ha delineato le coordinate del film storico post-
moderno, una catalogazione ampia ed articolata, a cui possono
essere ricondotti in buona parte i film che analizzeremo
9
.
4 M.Dogo, Storia balcaniche. Popoli e stati nella transizione alla modernità, Libreria
Editrice Goriziana, Gorizia, 1999.
5
M.Ferro, op.cit., p.21.
6
“Il visibile è quel che appare fotografabile e presentabile sugli schermi in un’epoca
data”, P.Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti Milano, 1979, p.253.
7
P.Sorlin, La storia nei film, interpretazioni del passato, La Nuova Italia, Firenza, 1980.
8
Cfr. Pierre Sorlin, L’immagine e l’evento, Paravia Scriptorium, Torino, 1999, p.145.
9
(1) Tell the past self-reflexively, in terms of how it means to the filmmaker historian. (2)
Recount it from a multiplicity of viewpoints. (3) Eschew traditional narrative, with its
beginning, middle and end – or, following Jean Luc Godard, insist that these three
elements need not necessarily be in that order. (4) Forsake normal story development, or
tell stories, but refuse to take the telling seriously. (5) Approach the past with humor,
parody, and absurdist, surrealist, dadaesque and other irreverent attitudes. (6) Intermix
contradictory elements – past and present, drama and documentary – and indulge in
creative anachronism. (7) Accept, even glory in, their own selectivity, partialism,
partisanship and rhetorical character. (8) Refuse to focus or sum up the meaning of past
events, but instead make sense of them in a partial and open-ended, rather than totalized
manner. (9) Alter and invent incident and character. (10) Utilize fragmentary or poetic
knowledge. (11) Never forget that the present is the site of all past representation and
knowing.
Tratto da Robert Rosenstone, The Future of the Past: Film and Beginnings of
Postmodern History, in Vivian Sobchack (a cura di), The Persistance of History: Cinema;
Television, and the Modern Event, Routledge, London e New York, 1998, p.206.
8
Si sono confrontati con la rappresentazione del conflitto
balcanico, quattro generazioni di registi jugoslavi: gli autori
dell’”Onda Nera” (l’avanguardia degli anni Sessanta), quelli del
cosiddetto “Gruppo di Praga”, la generazione di poco successiva
(quella di Kusturica per intenderci) e i giovani film-maker. La
filmografia, sviluppatasi nel corso degli anni, è stata solo in
minima parte distribuita in Occidente. Le varie opere sono state
presentate in diverse rassegne, che talvolta hanno dedicato
apposite sezioni relative all’argomento: Sarajevo film festival,
Pula film Festival, Belgrade film festival, Alpe Adria Cinema di
Trieste, International Amsterdam Documentary Festival,
Thessaloniki film festival. Le cinematografie nazionali dell’ex
Jugoslavia che si sono espresse in modi e periodi diversi,
verranno analizzate sia nella loro singolarità sia in un’ottica
balcanica.
Su tale e complessivo argomento il testo più esaustivo è Cinema
of Flames
10
di Dina Iordanova, storica del cinema, bulgara, a cui
si aggiungono gli studi di Nevena Daković
11
. Importanti per la
nostra ricerca sono poi i testi di Maria Todorova, Immaginando i
Balcani (Argo, 2002) e Slavoj Žižek, L’epidemia dell’immaginario
(Meltemi, 2004). In lingua italiana, al di là delle opere
monografiche su Kusturica, la bibliografia sul cinema jugoslavo è
ridotta, ricordiamo tra l’altro: La meticcia di fuoco. Oltre il
continente balcani, a cura di Sergio Grmek Germani (Lindau,
2000), il volume collettivo Iugoslavia: il cinema dell’avanguardia
(Marsilio, 1982) e il saggio di Paolo Vecchi Kusturica, Paskaljević
e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo
12
.
10
Dina Iordanova, Cinema of Flames: Balkan film, culture and the media, Bfi, London,
2001, p.141.Dina Iordanova, Cinema of flames.
11
N.Daković, Cinematic Bakans/Balkan Genre, in “Nexus Project”, Sofia, 2003.
12
Il testo è pubblicato nel libro G.E. Bussi e Leech P., Schermi della dispersione, Lindau,
Torino, 2003.
9
Nelle pellicole compare, sotteso, il rapporto tra l’Europa e i
Balcani, in continuo riposizionamento dopo la fine della guerra
fredda, in termini inclusivi ed esclusivi. I Balcani, non solo
geograficamente e storicamente, sono parte dell’Europa ma sono
stati concettualmente costruiti ed interpretati, soprattutto nel
Novecento e nella sua ultima fase, come “Altro”, un luogo di
violenza e confusione. Una percezione distorta e semplificata,
che non risponde alla complessità del reale e che si riflette anche
nei film. Sia in opere di film-maker occidentali (costruite spesso
come un viaggio dall’Occidente ai Balcani), sia in alcune di registi
jugoslavi, nei casi che Iordanova chiama di “self-exoticism”
13
.
La filmografia generale che abbiamo stilato (fiction e
documentari di registi balcanici e internazionali) si caratterizza
per una qualità complessiva delle opere, caso non così frequente
in altri casi di rappresentazione storica, per un approccio stilistico
multiforme e per le complesse strutture narrative.
Il racconto sulla guerra si è sviluppato in chiave metaforica,
realistica, indiretta, surrealista, o allegorica, con un’introspezione
maggiore, una ricerca metaforica più accentuata e magari un
distacco fisico ma non mentale dal conflitto, sottolineati
nell’auto-rappresentazione. Si sofferma su drammi individuali
che si inseriscono in una più ampia storia collettiva. La
rappresentazione del conflitto militare a volte risulta poco
visibile, in altre violentemente realistica. Non deve essere
ricondotta ad un unico modello, ma possono essere rintracciati
tratti comuni nell’estesa filmografia.
13
Dina Iordanova, Cinema of flames, cit.p.61.
10
1.2 I FILM E LA GEOGRAFIA DEL CONFLITTO
I territori dell’ex-Jugoslavia sono un’area non solo complessa dal
punto di vista storico e culturale, ricco di contaminazioni, ma
anche la loro “scoperta” geografica comporta alcune
complicazioni per l’analisi dei testi filmici.
Per comprendere gli eventi narrati nelle diverse opere è utile
l’ausilio della cartina geografica. La grande produzione
cinematografica, successiva o contemporanea al recente conflitto
balcanico, si concentra, infatti, sui vari “teatri di guerra”, alcuni
sconosciuti ad uno spettatore occidentale.
Ciascun regista si è confrontato, in particolare, con uno di questi.
Si passa dalla Slavonia, regione croata bagnata dalla Sava e dal
Danubio, ai boschi, alle campagne e alle valli della Bosnia-
Erzegovina, il più tragico teatro di guerra del conflitto,
delimitato, oltre che dal fiume Sava dalla Drina. Centro di
interesse dell’immaginario cinematografico sono ovviamente le
grandi città Sarajevo e Belgrado. E poi i territori “agli estremi” di
Macedonia e Kosovo nel sud dell’ex-Jugoslavia.
L’ambientazione geografica funge, in un certo senso, da
“etnopaesaggio”, secondo la definizione di Antonhy Smith
14
, che
costituisce lo sfondo di quei conflitti, non solo di guerra; i film
contribuiscono alla creazione del mito della territorialità, che sta
alla base della rappresentazione simbolica dell’identità nazionale.
14
L’etnopaesaggio è uno dei modi in cui la costruzione simbolica dell’identità nazionale è
legata alla nozione di territorialità. L’etnopaesaggio è in primo luogo l’ambientazione
geografica, come sfondo agli eventi storici determinanti per la crescita e la storia di una
comunità. Smith sostiene che tale etnopaesaggio può inoltre svolgere una funzione
“iconica”. Si crea così un legame tra gruppo e ambiente naturale, tra aspetti fisici del
paesaggio e carattere degli eventi storici che vi accadono. In un terzo luogo questo
legame può essere celebrato attraverso alcuni rituali (come quelli che riguardano la
morte), giungendo così ad una “territorializzazione della memoria”. Antonhy Smith, Myths
and Memories of the Nation, Oxford University Press, Oxford, 1999.
11
I primi film di fiction sono apparsi relativamente poco tempo
dopo lo svolgersi dei fatti reali, contraddicendo la teoria che lo
storico militare inglese John Keegan ha tratteggiato nel saggio Il
volto della battaglia, ovvero che “tutte le guerre dei tempi
moderni hanno provocato una risposta letteraria ma sempre a
una certa distanza dalla fine delle ostilità”
15
. Quando ancora
l’attualità era incandescente, ferita dalle bombe e dalle violenze,
alcuni registi tentavano in modo quasi istantaneo di descrivere
la distruzione della Jugoslavia, che li toccava in prima persona.
Anche, se a voler esser precisi, la maggiore produzione
cinematografica si è sviluppata dopo gli accordi di Dayton
(1995).
Ma tornando ai primi anni di guerra, gli incendi nella città croata
di Vukovar non erano ancora del tutto spenti che questo centro
barocco sul Danubio è divenuta il simbolo cinematografico di una
distruzione senza fine
16
. Fu la prima città europea assediata,
dopo la seconda guerra mondiale, e si trasformò in un tragico
laboratorio del conflitto. Živojin Pavlović uno dei grandi maestri
del cinema jugoslavo
17
, girò nel 1992 Il disertore ispirato alle
vicende di Vukovar, un dramma intimista che racconta la storia
di due ufficiali dell'esercito jugoslavo, un tempo innamorati della
stessa donna e impegnati nella guerra serbo-croata da cui
fuggono, ritrovandosi a Belgrado. Il primo è un disertore
scappato da Vukovar, il secondo un giudice militare oramai
umanamente incapace di condannare. Il film di Pavlović può
essere considerato la prima opera che ha come oggetto il
conflitto in corso.
15
John .Keegan, Il volto della battaglia, tr.it., Mondatori, Milano, 1978, pp.304-305.
16
Cfr. Nevena Daković, La guerra sul grande schermo, cit.
17
Coscienza critica del cinema jugoslavo, Pavlović (1933-1998) fu uno uno degli
animatori del “Novi film”, l’avanguardia cinematografica detta anche onda nera.
12
L’anno successivo uscì il Tempo d’amare (co-produzione italo-
croata) di Oja Kodar, ex-compagna di Orson Welles. Il racconto
cinematografico si svolge durante il conflitto serbo-croato, in
territori non lontani da Vukovar, ottenendo però un risultato
meno riuscito e più retorico rispetto al film di Pavlović. Il disastro
di Vukovar è ricreato, inoltre, in Harrison’s Flower di Elie
Chouraqui, che fornisce la più articolata e realistica messa in
scena dell’assedio e della presa violenta della città da parte delle
milizie serbe, e in Vukovar: Poste Restante (1994) di Bora
Drašković.
La capitale della Bosnia-Erzegovina, Sarajevo, città cosmopolita
e vivace, circondata dalle montagne, è stata al centro
dell’attenzione dei media dell’informazione per quasi quattro
lunghi anni d’assedio serbo-bosniaco, diventando il punto
fondamentale delle immagini televisive del conflitto. E non
poteva che essere così anche nella visione di molti autori
cinematografici. Protagonista indiscussa del primo
lungometraggio di Emir Kusturica, Ti ricordi di Dolly Bell?,
sceneggiato dallo scrittore Abdulah Sidran, Sarajevo ritornò
prepotentemente all’attenzione degli spettatori in un’atmosfera
completamente diversa. Abbandonati i colori e la festosa
confusione, attraverso la quale si muoveva il giovane Dino,
Sarajevo, si ritrova in preda a cecchini sui tetti delle case, a
bombardamenti massicci e alle rischiose corse per le strade dei
suoi cittadini. Do you remember Sarajevo? è l’opera di tre
giovani filmaker sarajevesi, i fratelli Kreselvijakovic e Nedim
Alikadic, che durante l’assedio (1992-1995) hanno
instancabilmente raccolto voci ed immagini per farne un
documentario lungo poco meno di un'ora: un documento di
memoria storica e d'amore, sulla vita e la morte in quegli anni.
13
Liberamente tratto dal libro Natasha’s Storvdel giornalista
Michael Nicholson, Benvenuti a Sarajevo (1997), di Michael
Winterbotton è stata la rappresentazione cinematografica più
famosa dell’assedio a Sarajevo, vista attraverso gli occhi di un
reporter inglese. In Lo sguardo di Ulisse di Théo Anghelopulos
(1995), Sarajevo, dove il regista greco A. (interpretato da
Harvey Keitel) giunge alla ricerca del primo film dei fratelli
Maniakas, tenta di riprendere il corso della vita nelle improvvise
nebbie, che ingannano il tempo dell’infinito assedio, in
un’atmosfera quasi onirica. La lavorazione del film è avvenuta
quando il conflitto era ancora in corso, la Sarajevo di
Anghelopulos non è del tutto “reale”, ripresa un po’ a Mostar e
un po’ a Vukovar e in parte ricostruita in studio. Anche Il cerchio
perfetto di Ademir Kenović sceglie come location la Sarajevo
accerchiata.
Siamo a Napoli, nel 1994, nel film Teatro di Guerra di Mario
Martone, ma l’idea di Sarajevo è continuamente richiamata alla
mente, è il filo conduttore di tutto il film, la meta agognata. Una
compagnia teatrale prova I Sette contro Tebe di Eschilo sperando
di portare lo spettacolo a Sarajevo, sotto i bombardamenti, in
segno di solidarietà, scontrandosi con l’indifferenza generale.
La città sotto la morsa dei cecchini diventa il vero simbolo delle
guerre jugoslave, influenzando concretamente l’immaginario
cinematografico. Oltre ai film a soggetto, sono svariati i
documentari sul dramma della città bosniaca, come i lavori del
regista Giancarlo Bocchi o l’immenso materiale girato dai
reporter della Bbc confluito in Yugoslavia: Death of a Nation
(1995). A metà strada si colloca Notre musique (2004) di Jean
Luc Godard, che già in Forever Mozart (1996) aveva affrontato il
tema della guerra in Bosnia ed ha ambientato il secondo episodio
14
del nuovo film nel dopoguerra di Sarajevo e di Mostar, altra città
storica della Bosnia-Erzegovina occidentale.
Molti autori cinematografici hanno scelto la Bosnia come “teatro”
dove si svolse il capitolo più tragico del conflitto. In quei villaggi
e nelle campagne dimenticati dai media occidentali, una sorta di
Jugoslavia in piccolo con la coabitazione di tre etnie (musulmani,
serbi e croati), fu storicamente un confine virtuale tra Occidente
e Oriente (il fiume Drina assunse spesso nel corso della storia il
valore di “limes”).
Pretty Village, Pretty Flame (Lepa sela, Lepo gore, 1996) di
Srdjan Dragojević è forse uno dei film chiave per comprendere le
guerre jugoslave: un’opera inquieta e complessa che va oltre le
letture stereotipate del conflitto e non accetta compromessi di
ogni sorta. Si muove nei territori della Bosnia nord-orientale, non
lontano dal tunnel Bratsvo i Jedinstvo, la galleria che Tito fece
scavare come simbolo della tanto predicata "unità e fratellanza”,
dove durante la guerra un gruppo di combattenti serbo-bosniaci
si rifugia per sfuggire ai musulmani.
La valle della Drina e le montagne circostanti, ricche di paesaggi
incantevoli, lungo il confine con la Serbia, vicino ai luoghi dove si
registrarono i maggiori scontri armati tra serbi e musulmani di
Bosnia, sono divenuti l’ambientazione dell’ultimo film di
Kusturica, La vita è un miracolo (2004)
18
. Poco distante, proprio
nella cittadina che patì la maggiore violenza della guerra Danis
Tanović ha girato il suo episodio all’interno dell’opera collettiva
11 settembre, a Srebrenica, dove si verificò il noto massacro di
migliaia di musulmani nel luglio del ’95 e, da quella data, il
18
L’ultimo film di Kusturica seppur ambientato nella finzione in Bosnia, tra i boschi, i
monti e il fiume Drina che separano la Serbia dalla Bosnia, è stato girato principalmente
in Serbia, poco al di là del confine e non molto distante dalla Drina. In La vita è un
miracolo contro le previsioni del protagonista (che aveva costruito una sorta di “trenino
della fratellanza”), scoppia la guerra fratricida che cambia radicalmente la vita da una
parte e dall’altra della Drina, come accadde realmente dal 1992 in poi.
15
giorno undici di ogni mese le donne si ritrovano in piazza per
commemorare la tragedia. Alcune decine di chilometri più a
nord, ci troviamo nei pressi di Tuzla, nelle cui campagne due
uomini Ciki e Nino, un bosniaco e un serbo, si ritrovano isolati
dalle linee nemiche in una “terra di nessuno”, in No Man’s Land
(2001). Il film che valse il premio Oscar a Tanovic è ambientato
nel pieno della guerra in Bosnia, precisamente nel 1993. I toni
tragicomici che lo caratterizzano sono anche un tratto distintivo
di Benvenuto Mr.President (Gori Vatra, 2003), opera del regista
bosniaco Pjer Valica.
Beautiful People (1999) di Jasmin Dizdar rimbalza da Londra alla
Bosnia, creando diversi punti di contatto tra i due luoghi,
apparentemente così distanti, come nella grottesca vicenda di un
hooligan ubriaco paracadutato per errore nel pieno dei
combattimenti, che inconsapevolmente diventa quasi un eroe
nazionale. L’italiano Nema problema (2004) primo
lungometraggio di Giancarlo Bocchi si svolge, invece,
completamente in Bosnia seguendo le vicende di due reporter di
guerra.
La città di Belgrado che venne toccata solo parzialmente dalle
bombe è al centro dell’interesse di Goran Paskaljević in La
polveriera. Il film racconta la realtà jugoslava, i suoi foschi
scenari e la sua disperazione, meglio di qualsiasi resoconto di
guerra, in una lunga notte “dove ogni individuo a Belgrado è
una carica pronta a esplodere alla minima scintilla”
19
. Anche
nella complessa metafora della storia jugoslava, che Kusturica ha
creato con Underground, Belgrado occupa sicuramente un ruolo
da protagonista. Il documentario Sedicipersone di Corrado
Veneziano, attraverso interviste, notizie e immagini inedite, dà
19
P.Vecchi, Kusturica, Paskaljević e gli altri nella diaspora del cinema jugoslavo, in
G.Elisa Bussi e Patrick Leech (a cura di), Schermi della dispersione, Lindau, Torino,
2003, p.316.
16
giusta memoria al bombardamento della Tv di Belgrado fornendo
uno spazio virtuale alle “parole negate” di quel tragico fatto,
spesso oscurato dai media occidentali. Il piccolo film, Ghetto di
Mladen Maticević e Ivan Markon, produzione dei dissidenti di
radio B92
20
, riflette criticamente sulla vita e sulla sorte di
Belgrado durante la guerra. Una Serbia confusa e ferita, ma
ancora piena di fervori, viene rappresentata nel lungometraggio
di Gorčin Stojanović, Ubistvo s predumisljanjem/Premedidated
murder (1995) mentre le sue contraddizioni tra arcaico e
moderno prendono vita nel cortometraggio Moja domovina
(1995) di Milos Radović, vincitore di diversi premi internazionali.
Prima della pioggia (1994) di Milcho Manchewski, trittico a
struttura circolare, porta invece l’attenzione su un territorio
all’estremo sud-est dell’ex-Jugoslavia, la repubblica di
Macedonia, anche qui l'odio ha contaminato i rapporti tra le due
etnie (albanese a macedone) della popolazione. Un’altra regione
geograficamente ai più sconosciuta è il Kosovo, incastonata tra
Albania, Macedonia e Montenegro, arrivata ai vertici
dell’attenzione mediatica per la guerra del 1999, in cui fu
coinvolta anche l’Italia. Vento di Terra e Kukumi sono i film più
significativi. Molti documentari si sono interessati al dramma dei
profughi, al controverso intervento militare della Nato e al
presente quanto mai instabile (Kosovo, nascita e morte di una
nazione, 2000).
20
Cfr. Dina Iordanova, Cinema of flames, Bfi, London, 2001, p.13.