rendendolo sempre più dipendente. In altri casi essi possono essere eccessivamente stressati e
andare incontro a reazioni improprie di collera, se continuano a vedere il bambino persistere
nei propri stili comportamentali inadeguati, rendendosi così incapaci di ascoltare e di
rispondere alle sue esigenze. L’osservazione e la conoscenza approfondita possono essere un
punto di partenza fecondo per rendere il rapporto educativo una relazione costruttiva.
In un secondo momento, ho deciso di approfondire, in questo lavoro, l’analisi dei
risultati dell’indagine, letti attraverso i contributi teorici della psicologia dello sviluppo, per
esaminare teoricamente le conseguenze che le esperienze infantili di questo bambino possono
avere avuto sul suo sviluppo successivo e sulle sue manifestazioni comportamentali. Inoltre
ho preso in esame anche i contributi della metodologia della ricerca (con particolare riguardo
alla tecnica del questionario) e della psicologia sociale, al fine di poter escludere (o
perlomeno poterne controllare l’impatto) il pericolo che la varietà delle informazioni possa
essere, in parte, attribuita ad errori metodologici o, peggio, a percezioni distorte del
comportamento altrui e non ad una situazione realmente variegata.
Il primo capitolo illustrerà il contesto e le finalità dell’indagine. Sarà presentato il
caso: la storia familiare, il percorso scolastico e le modalità relazionali del bambino. Sarà
anche illustrata la composizione del gruppo classe e del team di insegnanti, con una breve
descrizione della figura del personale educativo-assistenziale, che è il ruolo che rivesto nel
team. Saranno fatti brevi riferimenti all’uso del PEI nella scuola primaria e ai difetti nel suo
utilizzo, che ci hanno fatto riflettere sull’opportunità di approfondire la conoscenza
dell’alunno in modo diverso. Infine verrà descritto dettagliatamente il TRF, lo strumento
utilizzato per lo studio, e il sistema di classificazione che esso sottende.
Nel secondo capitolo verranno illustrate le modalità di svolgimento dell’indagine.
Saranno discussi i risultati dello studio, per mettere in evidenza le somiglianze e le differenze
riscontrate dai diversi compilatori riguardo il bambino e saranno riportati in appendice alcuni
profili.
Nei capitoli successivi verranno analizzati in dettaglio i fattori causali che potrebbero
avere portato a maggiori diversificazioni nei risultati. Da quelli che riguardano il processo di
risposta alle domande di un questionario (con particolare riferimento agli effetti di distorsione
delle risposte e all’influenza del contesto); a quelli che riguardano i processi che ci portano a
costruirci un’idea delle altre persone, saranno analizzate quindi le teorie degli psicologi
sociali sulla percezione del comportamento degli altri. Infine, saranno approfonditi gli aspetti
che riguardano più da vicino il bambino, ovvero le cause e le conseguenze dei suoi disturbi
emotivi che lo portano ad una serie di manifestazioni comportamentali difficili da
interpretare. A partire dall’etologia e dalla teoria dell’attaccamento di John Bowlby, saranno
esaminate le conseguenze della deprivazione di cure materne e della trascuratezza affettiva
sul normale sviluppo del bambino. Saranno quindi presi in considerazione i disturbi della
condotta, le loro manifestazioni multiformi e la sofferenza sottostante ai comportamenti
dirompenti.
Le conclusioni riporteranno alcune considerazioni metodologiche sull’indagine
svolta, sulla base dei contributi teorici descritti nei capitoli precedenti. Si rifletterà poi sul
comportamento del bambino nelle diverse situazioni e con i diversi partners, in particolare
sulla diversa percezione che ogni insegnante ha avuto delle condotte e della loro sofferenza
sottostante. Grazie alla ricchezza dei risultati dello studio, è stato possibile approfondire la
conoscenza del bambino e favorire un intervento che rafforzi ulteriormente il legame che egli
ha instaurato con le persone adulte con cui interagisce a scuola. In questo modo, la relazione
insegnante - bambino o educatore - bambino può diventare una relazione significativa, al fine
di aiutare l’alunno ad elaborare i suoi vissuti e a migliorare la qualità della sua vita scolastica,
sia dal punto di vista degli apprendimenti sia dal punto di vista delle relazioni con gli altri.
Il confronto tra le varie rappresentazioni del bambino ci ha permesso di crescere
professionalmente, sia individualmente sia come team e di superare o, quanto meno, di avere
la volontà di affrontare le incomprensioni e le problematiche che il lavorare insieme
inevitabilmente comporta. Abbiamo capito che conoscere il bambino e intervenire su di lui
non basta e che molto lavoro e molta riflessione (forse la maggior parte) dovrebbero essere
fatti anche su noi stesse.
Capitolo 1
Descrizione del contesto e delle finalità dell’indagine
Questo lavoro nasce dall’esigenza di analizzare i risultati di un’indagine svolta da un
team di insegnanti, del quale faccio parte da 3 anni in qualità di operatore educativo-
assistenziale.
All’inizio della terza elementare, il team che opera sulla classe, ha deciso di
compilare un questionario, come strumento per osservare e valutare il comportamento di un
bambino con particolari difficoltà, sia dal punto di vista dell’apprendimento, sia, e
soprattutto, dal punto di vista emozionale e relazionale, che pertanto richiede particolari
attenzioni nella pianificazione degli interventi.
L’idea era di avere una comparazione delle valutazioni di tutte le insegnanti sul
comportamento dell’alunno, in modo da ricavare indicazioni utili per la stesura del PEI. Si è
pensato, infatti, che uno strumento standardizzato potesse evidenziare le similitudini e le
differenze in ciò che ognuno riferiva circa il bambino. Gli aspetti problematici più rilevanti,
tali in quanto evidenziati da tutto il gruppo, possono rappresentare un’utile indicazione per la
definizione degli obiettivi e per la successiva pianificazione di un intervento, soprattutto in
merito alla sfera delle emozioni e delle relazioni.
Questo primo capitolo illustra il contesto in cui si è svolta la ricerca e prevede
pertanto una descrizione del bambino e della sua storia, del gruppo classe e del team di
insegnanti. Successivamente viene descritto nei dettagli il TRF, il questionario per la
valutazione del comportamento del bambino da parte delle insegnanti.
1. L’alunno
M. è un bel bambino di otto anni che frequenta la terza elementare, è arrivato nella
nostra classe in prima elementare, ad anno scolastico iniziato da poco più di un mese. Da
pochi giorni, il bambino viveva presso una casa-famiglia, alla quale era stato affidato dopo
l’allontanamento in seguito alla disgregazione della famiglia d’origine, peraltro già seguita
dai servizi sociali.
La diagnosi attuale è di «disturbo della condotta depressivo, associato a disturbo
specifico della compitazione».
Inizialmente abbiamo saputo soltanto che era cresciuto in un contesto di grave disagio
socio-culturale, di trascuratezza materiale ed affettiva, di totale assenza di regole. La famiglia
era costituita dai genitori e da tre bambini (M. è il secondogenito) che, all’epoca
dell’allontanamento, avevano 8, 6, e 2,6 anni. I genitori erano fortemente carenti sul piano
delle cure primarie e dell’accudimento; la madre era fragile emotivamente, indifferente e
disattenta; il padre trascurante, verbalmente violento e con una condizione lavorativa
instabile. La relazione era discorde e, oltre ad accuse reciproche, i genitori erano in
competizione riguardo le richieste di affetto e di lealtà che ponevano ai figli.
Nel primo incontro con i Servizi socio-sanitari, ci è stato presentato il quadro di un
alunno con comportamenti aggressivi e impulsivi del tutto imprevedibili, sia nei confronti
degli adulti sia nei confronti dei coetanei, che non accetta nessun tipo di imposizione e di
regola e che non riesce a relazionarsi in modo positivo.
Fin dal primo giorno di frequenza a scuola, infatti, il bambino ha mostrato condotte
inadeguate e dirompenti: aggrediva fisicamente e verbalmente i compagni e le insegnanti,
scappava improvvisamente dall’aula e a volte anche all’esterno della scuola, rifiutava di
eseguire qualsiasi attività didattica, si ribellava ad ogni richiesta ed imposizione e non
apprendeva-interiorizzava nessuna regola. L’alunno non era in grado di stare seduto al proprio
banco per più di pochi minuti e reagiva impulsivamente a qualsiasi sollecitazione, anche se,
la maggior parte delle volte, le reazioni non avevano nessun motivo apparente. Inoltre
mostrava scarsissima autostima e si riteneva incapace di eseguire qualsiasi attività, compreso
il gioco. I comportamenti aggressivi erano intervallati da momenti in cui ricercava quasi
ossessivamente il contatto con l’adulto, voleva stare in braccio, essere accarezzato e coccolato.
L’intenzione del nostro intervento è stata, fin dall’inizio, quella di cercare la piena
integrazione, perciò non è stata prevista una programmazione didattica con obiettivi
differenziati, né attività fuori della classe con il personale specializzato. Ma l’alunno, visto il
precario equilibrio emotivo, non è stato in grado di apprendere nulla almeno per tutto il
primo quadrimestre; d’altra parte gli obiettivi didattici non erano inizialmente prioritari
rispetto, invece, a quelli legati alla sfera emozionale e relazionale.
Nella famiglia affidataria, dopo un periodo di estrema passività e conformismo, il
bambino ha iniziato a mostrare gli stessi comportamenti che aveva a scuola: non accettava le
regole, minacciava e tentava di fuggire per andare dal padre, rifiutava il cibo preparato da loro,
gli abiti comprati da loro, ecc. Nello stesso periodo, invece, a scuola ha notevolmente ridotto
l’aggressività, mostrandosi spesso depresso e apatico, e confidando di non voler più stare con
coloro che non erano i suoi genitori, ma estranei che accusava di terribili soprusi (percosse,
punizioni arbitrarie, costrizioni riguardo il cibo). Il neuropsichiatra ha motivato questo
atteggiamento come reazione del bambino all’affetto che stava iniziando a sentire per la nuova
famiglia, che vedeva attenta e pronta a rispondere alle sue esigenze, ma che si imponeva di
odiare poiché il contrario avrebbe significato tradire i genitori lontani e sofferenti.
Verso la fine dell’anno scolastico, la situazione è andata lentamente migliorando,
l’alunno ha iniziato, sia a scuola sia in famiglia, a fidarsi degli adulti, adulti che non mentono,
adulti che non cambiano idea ogni minuto, adulti che non fanno promesse vane, adulti che
non abbandonano. Le esplosioni rabbiose sono diminuite, il bambino ha iniziato a parlarne,
identificandole con un nemico esterno («non posso farci niente, mi viene lo scatto») che ora
voleva sconfiggere («mi aiuti a mandarlo via?»). A poco a poco ha iniziato a nutrire una
profonda fiducia in noi insegnanti e a condividere i suoi sentimenti più intimi; ha ricercato e
costruito veri e propri attaccamenti, dei quali, per parecchio tempo, ha chiesto conferma ogni
giorno («mi vuoi bene?», «sarai sempre la mia maestra?»).
Anche le relazioni con i compagni hanno iniziato a migliorare, seppure più
lentamente rispetto a quelle con gli adulti. I compagni, che non lo hanno mai emarginato, non
si sono però mai piegati, reagendo e denunciando alle insegnanti tutti gli atteggiamenti da
“bullo” (furti, soprattutto di cibo, intimidazioni…), scatenando inizialmente la sua reazione
furiosa, ma, nello stesso tempo, preservando un minimo di integrazione. D’altra parte, però,
la volontà di un legame con i coetanei ha mantenuto sempre, e così è tuttora, uno scopo
strumentale, legato a richieste di regali, offerte di merende, ecc.
L’alunno ha avuto i primi risultati anche nell’apprendimento, con ripercussioni
positive sulla propria autostima e sulla motivazione.
Così lo abbiamo ritrovato all’inizio della seconda elementare, con in più una serenità
che non gli avevamo mai conosciuto, e che va probabilmente attribuita ad una buona
integrazione nella famiglia affidataria e alla parziale riparazione del rapporto con i genitori
naturali che, finalmente, hanno collaborato con gli operatori dei servizi socio-sanitari e sono
stati guidati a percorrere una nuova strada in comune (anche se separati) in cui il bambino
non fosse più il “mezzo” per accusarsi l’un l’altra.
L’anno scolastico della seconda elementare è trascorso piuttosto serenamente, con
buoni recuperi sul piano dell’apprendimento, legati ad una discreta motivazione e ad una
minore frustrazione di fronte ai compiti complessi. Col passare del tempo, si è innalzato il
livello degli obiettivi da raggiungere e sono emersi nuovi problemi legati soprattutto alla
scarsa attenzione e all’impulsività.
Dal punto di vista relazionale, ha rafforzato lentamente i rapporti con i coetanei,
prediligendo sempre e comunque la relazione con l’adulto. Sono aumentati costantemente la
fiducia e l’affetto verso le insegnanti, alle quali l’alunno ha iniziato a confidare i propri
vissuti, raccontando di sé, del suo passato, dei suoi sentimenti, delle sue paure. Ha iniziato a
parlare con affetto anche dei genitori affidatari, che chiama mamma e papà, descrivendosi
come un bambino con due mamme e quindi fortunato, e ha iniziato a parlarci spesso della
vera madre, che l’anno precedente non aveva mai nominato con affetto.
Purtroppo l’anno successivo non è iniziato in modo altrettanto favorevole, e già dopo
le prime settimane il bambino ha iniziato a manifestare un disagio crescente. Talvolta arriva a
scuola triste o arrabbiato e, dopo una fase di chiusura e di assenza totale di comunicazione, ci
confida il motivo dello stato d’animo negativo: di solito una lite con uno dei fratelli, una
punizione da parte della famiglia, ecc. Inoltre sono ricomparsi alcuni comportamenti
problematici come bugie e furti e, in qualche occasione, impertinenza e arroganza verso le
insegnanti, o insofferenza – rifiuto verso alcune attività didattiche.
Sappiamo che per M. sarà un periodo difficile, il provvedimento di affido,
inizialmente di 2 anni, sarà prorogato sine die. Egli sa che non tornerà con i genitori naturali
e non accetta la situazione, afferma di non voler stare con la famiglia affidataria dove ci sono
troppe regole e nella quale si sente sempre preso di mira.
Inoltre, gli incontri con i genitori non sono regolari. La madre si è trasferita all’estero
per un periodo e il bambino, sapendola lontana, è molto spaventato e preoccupato, poiché,
anche se non lo ha mai espresso apertamente, si rende perfettamente conto dei problemi
psichici della madre. Il padre non è sempre in grado psicologicamente di reggere gli incontri,
che spesso devono perciò essere annullati o, quando avvengono, sono molto strazianti.
A scuola M. mostra uno stato emotivo precario, si impegna poco nelle attività
scolastiche, ma se ripreso diviene suscettibile e avverte la correzione degli errori quasi come un
offesa personale o un segno di mancato affetto. Inoltre si rivela completamente inaffidabile non
appena gli si chiede di assumersi qualche responsabilità o di agire in autonomia.
L’alunno fatica tuttora ad accettare le regole della scuola e ad accettare che possano
accadere cose che non è lui a decidere. Vive le decisioni del gruppo o delle insegnanti come
persecuzioni nei suoi confronti, tende perciò a destabilizzare la classe al fine di far procedere
gli eventi secondo le sue intenzioni.
Permangono notevoli problemi legati soprattutto alla relazione con i coetanei.
Nonostante sia ben accettato dal gruppo, M. alterna momenti di amicizia sincera ad altri
momenti di insofferenza e isolamento e tende tuttora a ricercare nei rapporti di amicizia uno
scopo strumentale. Nelle discussioni assume atteggiamenti dispotici e si isola se viene presa
una decisione che non sia la sua. Nei giochi di squadra o nelle attività di gruppo fatica a
rispettare le regole, non accetta la rotazione dei ruoli e nel momento in cui a lui tocca un
ruolo che non gli piace, dopo aver naturalmente litigato, abbandona il gioco o l’attività.
Inoltre tende ad essere particolarmente ostile nei confronti dei compagni nuovi
arrivati, soprattutto se stranieri e quindi bisognosi di attenzione: «…arriva una da chissà
dove, dalla Polonia, non capisce niente di italiano però è già brava, e tutti a dire com’è
carina! com’è educata! come disegna bene! E io invece? Mi considerano tutti un idiota!»
Rimane, e si rafforza, il legame verso tutte le figure adulte significative, M. cerca
continuamente il nostro appoggio nei momenti di sconforto. Questo aspetto, unitamente alla
riduzione delle esplosioni di rabbia incontrollata, permette di elaborare gli eventi sul piano
emozionale e di rispondere alle sue richieste di aiuto e di riparazione. Ciò può portare a volte
a delle esternazioni molto angosciose; gli incubi che aveva a sei anni di mostri che lo
inseguivano si sono trasformati in incubi di eventi tragici ma realistici (i genitori che si
gettano dal tetto e lui che non riesce a fermarli).
Il bambino sembra prendere anche progressivamente coscienza di come e perché è
avvenuto il suo allontanamento dalla famiglia. M. continua a spiegarlo agli altri come una
conseguenza della separazione, della quale incolpa a volte la madre per non aver tenuto unita
la famiglia, a volte il padre perché “voleva sempre litigare”. In passato, non solo il bambino
aveva sempre colpevolizzato se stesso, pensando che i genitori litigassero e la madre stesse
male perché lui era un “bambino cattivo”, ma anche i genitori stessi lo colpevolizzavano.
Ma, d’altra parte, M. considera normale che i compagni che hanno genitori separati
continuino a vivere con uno dei due, ma «mio padre doveva cercare un lavoro e mia madre
non riusciva ad occuparsi di noi nella nuova casa». Credo, quindi, che in realtà egli abbia una
chiara consapevolezza di un certo rifiuto da parte dei genitori, che peraltro aveva modo di
percepire anche quando viveva con loro. Il fatto che il bambino abbia un vissuto di
abbandono viene anche confermato da certe sue dichiarazioni; un giorno, alla domanda di un
compagno che gli chiedeva cosa volesse dire essere in affido, M. ha risposto «affido è
quando i tuoi genitori non ti vogliono più e gli assistenti sociali ti trovano un’altra famiglia».
2. Il gruppo classe
Si tratta di una classe terza elementare a modulo, che prevede una frequenza
mattutina dal lunedì al sabato e due rientri pomeridiani, per un totale di trenta ore settimanali.
Il gruppo ha subito alcune modificazioni nel corso dei tre anni scolastici. Attualmente
è composto da diciotto bambini di cui dodici maschi e sei femmine.
Si tratta di un gruppo che richiede un notevole impegno, infatti, oltre all’alunno
descritto, fanno parte della classe: un alunno che, nel corso del terzo anno, è stato anche egli
certificato per ritardo nell’apprendimento; un alunno con problemi di salute, che si assenta
anche per lunghi periodi e che talvolta vive momenti di fragilità psicologica; un altro alunno
seguito dal Servizio di Neuropsichiatria infantile per problemi emozionali e relazionali;
cinque alunni stranieri di cui quattro di recente immigrazione che necessitano di interventi di
alfabetizzazione.
3. Il team
Il corpo docenti è composto da tre insegnanti curricolari (una per l’area espressivo-
linguistica, una per l’area logico-matematica e una per l’area antropologica), un’insegnante di
lingua inglese, un’insegnante di religione cattolica, un’insegnante di sostegno e un’operatrice
educativo-assistenziale.
Vale la pena sottolineare che l’insegnante di sostegno, l’insegnante di lingua inglese e
l’insegnante di religione cattolica non sono le stesse della prima elementare, pertanto non
hanno vissuto il periodo più difficile di integrazione del bambino, perciò, oltre ad avere una
conoscenza meno profonda, potrebbero presumibilmente avere un quadro della situazione,
per così dire, più “normalizzato”.
Inoltre va ricordato che, dal presente anno scolastico, secondo i decreti attuativi delle
Legge n. 53 del 28 marzo 2003, nota come Riforma Moratti, il corpo insegnanti è stato
ridisegnato e prevede un docente prevalente nella classe
1
, perciò gli ambiti espressivo-
linguistico e antropologico sono ora a cura di una stessa insegnante, che quindi trascorre nella
classe un numero di ore settimanali quasi doppio rispetto all’anno precedente.
Come già detto, fin dal primo anno, abbiamo ritenuto opportuno che il bambino non
uscisse dalla classe per svolgere attività individualizzate. Le figure di sostegno sono quindi
utilizzate come risorse della classe, ciò significa che non lavoriamo limitatamente con e sul
bambino, ma sul gruppo, in modo che egli non si percepisca e venga percepito dagli altri
1
Decreto legislativo n. 59/2004, art.7, comma 6.
come “diverso” e che impari ad affrontare progressivamente sempre più compiti in
autonomia. Il team lavora quindi come un corpo unico e prende insieme tutte le decisioni non
solo sull’alunno specifico ma per tutti gli aspetti della vita della classe.
4. Il personale educativo-assistenziale (PEA) nella scuola
Il supporto educativo-assistenziale, previsto dalla legge 104/92, art. 13, viene
assegnato, secondo le procedure ed il contingentamento fissati dagli Enti Locali di
competenza, dietro richiesta del Capo di Istituto.
È compito dell’Ente Locale fornire l’assistenza specialistica da svolgersi con
personale qualificato, sia all’interno sia all’esterno della scuola. Si tratta di figure quali, a
puro titolo esemplificativo, l’educatore professionale, l’assistente educativo, il traduttore del
linguaggio dei segni o il personale paramedico e psico-sociale, che svolgono assistenza
specialistica nei casi di particolari deficit.
Il servizio di assistenza specialistica ai disabili presso le scuole consiste in tutti gli
interventi funzionali per aumentare il livello di autonomia e di integrazione dei disabili,
anche mediante attività parascolastiche ed extrascolastiche (Nota Ministeriale 30/11/2001).
Il Dirigente Scolastico, entro marzo-aprile di ogni anno, formula la richiesta di
personale educativo assistenziale per l’anno successivo alle amministrazioni comunali,
contestualmente alla richiesta del personale docente di sostegno. La richiesta comprende una
relazione che attesti le modalità di utilizzo del personale educativo assistenziale necessario
per l’integrazione di ciascun alunno in situazione di handicap che frequenterà la scuola.
Questi operatori svolgono prestazioni di tipo educativo-assistenziale nell’ambito della
programmazione educativa formulata per un alunno in situazione di handicap. Sono distinti dal
personale docente (di pertinenza della scuola), da quello Ausiliario Tecnico e Amministrativo
delle scuole e dal personale che abbia mansioni di natura esclusivamente assistenziale.
L’esigenza di tale supporto nel processo di integrazione, nasce dalla necessità di
proseguire un’azione diretta a dare risposta a bisogni materiali (cura della persona,
deambulazione per gli alunni non autosufficienti) e ad esigenze immateriali (bisogno di
comunicazione, riconoscimento del proprio corpo, riconoscimento del rapporto distanza-
vicinanza con le altre persone, relazioni partecipate, ecc).
Il personale educativo-assistenziale viene assegnato in presenza di un alunno in
situazione di handicap con deficit particolarmente gravi, dal punto di vista fisico e/o
affettivo-relazionale, quindi non è possibile prefigurare in via generale un quadro organico ed
esauriente di aree di intervento, le quali dovranno essere individuate e attivate nell’ambito
della concreta situazione scolastica, a contatto con il soggetto. Le aree di seguito individuate
costituiscono quindi un elenco indicativo:
- autonomia personale sul piano delle risposte di base (mangiare, camminare, uso dei
servizi, vestirsi, svestirsi, ecc);
- autonomia riguardante la conquista dello spazio circostante (esplorazione dell’ambiente
scuola, esplorazione dell’ambiente circostante, prime escursioni nel mondo esterno);
- uso di strumenti protesici,
- ampliamento delle forme di comunicazione e delle relazioni;
- contenimento di alunni iperattivi o con disturbi del comportamento;
- inserimento sul piano sociale in situazioni ludiche, di routine, di attività di
arricchimento del curricolo;
- prima conoscenza, anche in forma soltanto intuitiva, dello spazio, del tempo,
dell’ordine, delle quantità delle cose.
Si tratta, dunque, di aree di intervento che sono già state oggetto di specifica azione
didattica, da parte dei docenti (curricolari e di sostegno). Il personale educativo-assistenziale
si inserisce nell’itinerario e privilegia gli aspetti più strettamente educativi, assistenziali e
globali del progetto messo in campo. In genere questi interventi sono fondamentali per una
effettiva integrazione scolastica.
Il personale educativo-assistenziale è tenuto ad agire in momenti collegati e distinti,
ma non separati, rispetto ai momenti specifici dei docenti. Costruisce, in accordo con gli
insegnanti di classe, un proprio piano di lavoro all’interno del Piano Educativo
Individualizzato; deve evitare la gestione puramente assistenziale dell’alunno; deve assumere
conoscenze complete sull’alunno in modo da possedere un quadro della sua personalità
(andando oltre la descrizione dei suoi deficit), partecipando ai lavori di messa a punto del
Profilo Dinamico Funzionale e del Piano Educativo Individualizzato; deve garantire il
massimo di segretezza professionale per tutto quanto si riferisce alle informazioni
sull’alunno; deve interagire con gli altri adulti presenti in ambito scolastico (docenti
curricolari e di sostegno, personale ausiliario, educatori) e con il personale dei servizi del
territorio; deve proporre quanto ritenga utile, opportuno e vantaggioso per l’alunno; deve
collaborare con l’autorità scolastica nell’ambito delle attività previste dalla scuola; deve
partecipare alle attività di formazione e aggiornamento (conoscenze circa la natura di alcuni
deficit; nozioni riguardanti la comunicazione e l’interazione in ambito educativo; conoscenza
dei sussidi protesici; nozioni sugli aspetti fondamentali della crescita - affettività, emotività,
cognitività, relazionalità -; conoscenza dei modi con cui si progetta, costruisce, conduce e
verifica il Piano Educativo).
5. L’integrazione e il Piano Educativo individualizzato (PEI)
La Legge n. 517 del 1977 ha inteso favorire, nell’ambito della scuola dell’obbligo,
l’attuazione del diritto allo studio di ciascun alunno e in particolare di quelli in situazione di
handicap, prevedendo che «devono essere assicurati la necessaria integrazione specialistica, il
servizio socio-psico-pedagogico e forme particolari di sostegno, secondo le rispettive
competenze dello Stato e degli Enti locali preposti, nei limiti delle disponibilità di bilancio e
sulla base del programma predisposto dal Consiglio scolastico distrettuale»
È l’atto politico di un complesso processo finalizzato a riconoscere a tutti i bambini il
diritto ad usufruire della stessa scuola, in cui trovare una risposta ai propri bisogni. L’aspetto
rivoluzionario sta nel pensare la scuola come istituzione capace di adattarsi a tutti gli scolari,
con una programmazione complessa che investe, anno per anno, le modalità di
organizzazione e di insegnamento e il numero degli insegnanti.
L’integrazione può aiutare il bambino a riemergere, anche se problematico, in un
gruppo classe che diventa, spesso, il principale artefice della sua qualità di vita [Fava
Vizziello, Bet e Sandonà, 1990]. Alcuni psicologi hanno addirittura individuato in questo
nuovo legame con la scuola il più potente agente terapeutico-preventivo nei riguardi dei
bambini con famiglie multiproblematiche [Malagoli, Togliatti e Rocchietta Tofani, 2002].
Il D.P.R. 24/2/94, art. 5 ha stabilito che, per ogni alunno in situazione di handicap,
debba essere redatto un Piano Educativo Individualizzato (PEI). «Il PEI è il documento nel
quale vengono descritti gli interventi integrati ed equilibrati tra loro, predisposti per l’alunno
in situazione di handicap, per un determinato periodo di tempo, ai fini della realizzazione del
diritto all’educazione e all’istruzione, di cui ai primi quattro commi della legge 104/92».
Per ogni alunno in situazione di handicap inserito nella scuola viene redatto il PEI,
sulla base dei dati derivanti dalla Diagnosi Funzionale e dal Profilo Dinamico Funzionale.
«Gli interventi propositivi vengono integrati tra di loro in modo da giungere alla redazione
conclusiva di un piano che sia correlato alle disabilità dell’alunno stesso, alle sue conseguenti
difficoltà e alle potenzialità […] comunque disponibili» [D.P.R. 24/2/94, art. 6]
La strutturazione del PEI è complessa e si configura come una mappa ragionata di
tutti i progetti di intervento: didattico-educativi, riabilitativi, di socializzazione, di
integrazione. Il PEI è redatto, solitamente, dopo i primi due mesi dell’anno scolastico (o
comunque dopo un periodo di osservazione ritenuto adeguato) ed ha scadenza annuale. È
redatto congiuntamente dagli operatori delle ASL, dagli insegnanti curricolari e di sostegno,
dal personale educativo-assistenziale e con la collaborazione della famiglia. È perciò
costruito congiuntamente da tutti coloro che, in modi, livelli e contesti diversi, operano per
quel determinato alunno, non è quindi delegabile esclusivamente all’insegnante di sostegno.
La stesura del documento risulta così da un’azione congiunta e diviene un progetto
unitario e integrato per una pluralità di interventi, espressi da più persone concordi sia
sull’obiettivo da raggiungere, sia sulle procedure, i tempi e le modalità degli interventi.
Il PEI specifica gli interventi che i diversi operatori mettono in atto, relativamente alle
potenzialità già rilevate nella Diagnosi Funzionale e nel Profilo Dinamico Funzionale. Prende
in considerazione:
- gli obiettivi educativi/riabilitativi e di apprendimento riferiti alle aree e alle funzioni e
perseguibili in un anno scolastico;
- le attività proposte;
- i metodi ritenuti più idonei;
- i tempi di scansione degli interventi previsti e gli spazi da utilizzare;
- i materiali e i sussidi con cui organizzare le proposte di intervento;
- l’indicazione delle risorse disponibili, nella scuola e nell’extrascuola, in termini di
strutture, servizi, persone, attività, mezzi;
- le forme e i modi di verifica e di valutazione del PEI.
Tale programma personalizzato dovrà essere finalizzato a far raggiungere a ciascun
alunno, in rapporto alle sue potenzialità ed attraverso una progressione di traguardi intermedi,
obiettivi di autonomia, di acquisizione di competenze e di abilità motorie, cognitive,
comunicative ed espressive, e di conquista di abilità operative, utilizzando anche metodologie
e strumenti differenziati e diversificati.
Il PEI va verificato periodicamente (trimestralmente o quadrimestralmente). Alle
verifiche debbono partecipare tutti gli operatori scolastici (insegnanti di classe, insegnante di
sostegno, personale educativo), gli operatori dei servizi e i genitori dell’alunno. Il gruppo si
riunisce in date prestabilite, prende atto del programma svolto, delle verifiche attuate dai vari
operatori, esprime una valutazione complessiva, riformula il piano per obiettivi.
6. Gli scopi dell’indagine
Nel corso degli incontri di programmazione e di discussione per la stesura del PEI, ci
siamo rese conto che quest’ultimo rischiava di ridursi a una formalità da espletare piuttosto
che costituire l’occasione di una reale riflessione. Si stabilivano degli obiettivi, ma poi si