2
Da cinefilo competente e appassionato quale è, Sanguineti non si è
limitato ad inserire nei suoi componimenti una variegata serie di
incursioni di matrice cinematografica, né ai frammentari ma molteplici
interventi in cui i riferimenti a film e registi si accavallano e si fondono
con quelli agli autori e ai pensatori che hanno contribuito alla definizione
della società e dell’uomo contemporaneo. Egli si è infatti cimentato
anche direttamente col mondo del cinema, collaborando alla
realizzazione di cinque film: Non ho tempo (1973) di Giannarelli, di cui
co-scrive la sceneggiatura; Niente Stasera (1993) di De Dominicis, del
quale è protagonista; Film/a/To (2001) di Nespolo, in cui recita poesie da
lui stesso composte; Work in regress (2006) di Liberovici, all’interno del
quale recita e scrive le didascalie; Quijote (2006) di Paladino, per il quale
riprende e interpreta dei versi che aveva scritto nel 1949.
3
Per elaborare questa composita analisi della poliedrica figura di
Sanguineti, a cavallo tra la teoria e la pratica cinematografica, si è
proceduto innanzitutto allo spoglio di tutti i suoi testi (letterari,
giornalistici e saggistici) ricercando informazioni, riferimenti e notizie
legati all’universo cinematografico. A questo materiale è stata poi fornita
una validazione critica, attraverso il riferimento ad analisi contenutistico-
retoriche ad opera di quegli studiosi che, negli anni, hanno affrontato lo
studio delle opere sanguinetiane. Sono stati infine presi in considerazione
i documenti video legati ai lavori co-realizzati dal poeta e alcuni testi di
storia e tecnica del cinema, utili sia all’analisi delle strutture tecniche
tipiche della realizzazione filmica degli autori cari a Sanguineti, che alla
comparazione con quanto scritto, in poesia, da Sanguineti stesso.
Per dare spazio a quanto, all’interno della vasta produzione
sanguinetiana, era stato dedicato o legato al cinema, si è quindi pensato
3
In realtà sull’attendibile sito web www.imdb.com, risulta che Sanguineti sia stato attore e
autore di una poesia per Truck Stop (1996), mediometraggio tedesco diretto da Muschner e
interpretato, tra gli altri, anche da Max Von Sydow, oltre che attore in Medellìn (1999) di
Guerriero (relativamente alla collaborazione con Muschner si segnala la poesia Truck Stop,
contenuta in Stravaganze. (1992-1996). Purtroppo però non è stato rinvenuto alcun
materiale significativo sul quale fondare un’analisi più approfondita e si è quindi reputato
giusto focalizzare l’attenzione esclusivamente sulle sopracitate e maggiormente note
collaborazioni filmiche di Sanguineti.
3
di procedere suddividendo la tesi in due parti, precedute da una breve
premessa, che tenta di inquadrare quali siano state, negli anni, in
Sanguineti, le influenze di quel contesto storico nato dai cocci della
seconda guerra mondiale in cui il poeta si trovava a vivere. La prima
parte è rivolta ad evidenziare come il cinema sia entrato a far parte della
sua poetica, mentre la seconda focalizza l’attenzione sull’analisi dei film
da lui co-realizzati e sul loro rapporto con il suo pensiero e con i suoi
scritti.
Ognuna di queste due parti è stata poi suddivisa, al suo interno, in alcuni
capitoli: il primo capitolo della prima parte ripercorre sinteticamente le
fasi attraverso cui il cinema si è imposto come «arte tra le arti» nel corso
del Novecento e il ruolo fondamentale che in questo processo ha avuto la
struttura narrativa del montaggio; il secondo capitolo ha invece la
funzione di introdurre il pensiero di Sanguineti sul cinema, ed è infatti
una sorta di catalogo in cui si è cercato di raccogliere tutto quanto è stato
detto dal poeta in merito alla tecnica e alla storia del cinematografo.
Segue un terzo capitolo, più ampio, che mette in evidenza le analogie
strutturali e semantiche esistenti tra la poesia di Sanguineti e i film dei
già citati quattro registi eletti a modelli di montaggio, sottolineando come
il poeta condivida con il primo, Ejzenstejn, l’uso di un montaggio con
funzione connotativa ed intellettuale oltre che una precisa ideologia
politica; con il secondo, Buñuel, sia la descrizione di universi onirici e
sessualizzati che il procedere, a livello stilistico, per accostamenti di
segmenti (frastici o di immagini) apparentemente incongruenti; con il
terzo, Godard, la visione brechtianamente straniata delle cose e lo stile
compositivo che procede per sbalzi; con il quarto, Von Trier, l’idea della
donna come unico baluardo di sopravvivenza oltre che il grande sens de
l’anarchie che pervade i lavori dell’uno e dell’altro. Il quarto e ultimo
capitolo della prima parte, infine, prende in considerazione il
meccanismo della citazione, ulteriore elemento che accomuna lo stile di
Sanguineti a quello di Godard (e, per certi versi, a quello dell’intera
Nouvelle Vague francese), poiché entrambi usano la tecnica allusiva
come strumento estetico di significazione ulteriore, passando senza
4
soluzione di continuità dalle allusioni più dotte a quelle pop: dalla
letteratura, alla musica, al cinema, alla politica, alla storia.
Nella seconda parte della tesi, il primo capitolo ripercorre brevemente la
biografia sanguinetiana, alla ricerca dei contributi cinematografici
prodotti dal poeta per giornali, convegni o eventi dal 1946, anno in cui
Sanguineti scrive la sua prima recensione filmica, ad oggi. Seguono
cinque capitoli, uno per ognuno dei film cui Sanguineti ha partecipato,
presentati e analizzati rispettando l’ordine cronologico, in base agli anni
di realizzazione.
Nel capitolo dedicato a Non ho tempo (1973) è stata messa in luce
l’architettura brechtiana, all’insegna dello straniamento, della sua
sceneggiatura, fondata tra l’altro su un forte uso di citazioni prese a
prestito da testi coevi alla vicenda narrata e sul continuo relazionarsi
della diegesi, ambientata nell’Ottocento, con l’epoca storica in cui il film
è stato realizzato, gli anni ’70. Di Niente, stasera (1993) è stato invece
evidenziato il carattere onirico e antinaturalista della storia narrata, e
sono state inoltre sottolineate le analogie, appositamente ordite, tra
Sanguineti e il personaggio da lui interpretato, un intellettuale che, come
il Serafino Gubbio operatore di Pirandello, guarda la vita viversi,
attraverso un artificio tecnologico,
4
senza in alcun modo partecipare ad
essa in modo attivo. Nel capitolo relativo a Film/a/To (2001), oltre a
spiegare qual è stato il ruolo concreto di Sanguineti nella realizzazione
del film, è stata sottolineata l’affinità poetica tra Nespolo e Sanguineti,
quali cantori del mondo contemporaneo. Di Work in regress (2006), che
occupa il capitolo successivo, è stata evidenziata la base di costruzione
del film, ancora una volta Brecht, ed è stato inoltre esplicitato il
contenuto ideologico e politico del film, che si chiude con un preciso
messaggio rivoluzionario.
4
In I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925), il filtro e il limite al contatto
dell’individuo con la realtà consisteva nella telecamera che Serafino, per mestiere, era
costretto a manovrare, in Niente, stasera (1993), invece, il personaggio, chiuso sempre
dentro casa, si affaccia alla realtà attraverso dei sogni che sembrano videocassette o
attraverso delle videocassette che sembrano realtà.
5
Nell’ultimo capitolo, quello su Quijote (2006), è stato brevemente
analizzato il componimento sul Don Chisciotte scritto da Sanguineti nel
1949, e si è cercato di spiegare come esso si collochi all’interno del più
ampio progetto di Paladino, il quale voleva in effetti tratteggiare,
attraverso i molteplici e eterogenei contribuiti raccolti, un ritratto di un
cavaliere-artista, intellettuale e moderno.
Se i materiali poetici, saggistici e critici sono stati in fondo di facile
reperibilità, così non è stato per quelli legati alla produzione
cinematografica, per recuperare i quali si é infatti dovuto ricorrere al
supporto e alla disponilità di quanti erano stati coinvolti nei cinque
progetti realizzati dal poeta: il produttore Curti ha fornito una copia del
dvd di Quijote, la cartella stampa di presentazione del film e la rassegna
stampa; il regista De Dominicis ha messo a disposizione una copia di
Niente, stasera e la rassegna stampa completa del film; il regista
Giannarelli e la Fondazione Archivio audiovisivo del movimento operaio
e democratico hanno fornito la sceneggiatura del film Non ho tempo,
oltre che una copia dvd dello stesso; l’artista Nespolo ha cortesemente
prestato una copia di Film/a/To e una del libro ad esso dedicato dal
Museo Nazionale del cinema di Torino, mentre Agnoli, dell’ufficio
stampa ART' É Communication, ha inviato la cartella stampa della
mostra Cinespolo, Ugo Nespolo e il cinema
5
; Bozano, infine, del Teatro
del suono,
6
ha consentito la visione di Work in regress di Liberovici.
In chiusura sono state a questo proposito aggiunte, sotto forma di
allegato, quattro brevi interviste, realizzate con alcuni dei personaggi che
hanno, in vario modo, collaborato alle concrete esperienze
cinematografiche di Sanguineti: Curti, De Dominicis, Giannarelli e
Andrea Liberovici hanno gentilmente fornito le loro parole e la loro
esperienza, partecipando in modo attivo a questo lavoro di ricerca ed
analisi dell’esperienza cinematografica sanguinetiana, che si è rivelato
essere, alla luce di quanto sondato durante la redazione di questa tesi e in
5
Si tratta di una mostra organizzata da ART' É Communication - Gruppo FMR-ART' É
presso la galleria d’arte TAMATETE a Roma, nel dicembre 2003.
6
Il “Teatro del suono” è un ente fondato dal musicista e regista teatrale Andrea Liberovici.
6
base anche alle opinioni raccolte attraverso le interviste, tutt’altro che un
«magro lascito»,
7
ma anzi un poliedrico e sostanzioso insieme di
«segmenti di gesti, frammenti di citazioni e voci, scorie linguistiche»,
8
montati dall’abile mano del poeta Sanguineti, il cui compito è, in effetti,
come sosteneva Joyce, quello di «to live, to err, to fall, to triumph, to
ricreate life out of life»
9
.
7
E. Sanguineti, Novissimum testamentum, in Mikrokosmos. Poesie 1951-2004, Feltrinelli,
Milano 2004, p. 270.
8
N. Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna 2005, p.144.
9
J. Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man, Norton & company, New York 2007, p.
36.
7
PREMESSA
In un saggio pubblicato sulla rivista letteraria “il Menabò” del 1962
10
, in
relazione ad alcune riflessioni di e su autori contemporanei intorno al
problema della nuova letteratura post atomica, Calvino scriveva: «Questa
letteratura del labirinto gnoseologico-culturale ha in sé una doppia
possibilità. Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria per affrontare la
complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non
fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo;
quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata
possibile. Dall’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del
perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita
come la vera condizione dell’uomo […]. Quel che può fare la letteratura
è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se
questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro.
È la sfida al labirinto che vogliamo salvare. È una letteratura della sfida
al labirinto che vogliamo enucleare […]. Vogliamo dalla letteratura
un’immagine cosmica, cioè al livello dei piani di conoscenza che lo
sviluppo storico ha messo in gioco. E a chi vorrebbe che in cambio
rinunciassimo (e a chi è pronto ad accusarci di rinunciare) alla nostra
continua esigenza di significati storici, di giudizi morali, risponderò che
anche di ciò che ora si pretende (e forse ha le sue ragioni per pretendersi)
metastorico, quel che conta per noi è la sua incidenza nella storia degli
uomini; che anche di ciò che ora si rifiuta (e forse ha le sue ragioni per
rifiutarsi) a un giudizio morale, quel che conta per noi è quello che ci
insegna»
11
Le considerazioni di Calvino esprimono efficacemente i dubbi sul ruolo
dell’intellettuale e della cultura che accompagna tutti i testimoni del
Novecento, secolo fortemente problematico, all’interno del quale i vecchi
sistemi epistemologici vengono meno e si genera una crisi profonda, che
investe e corrode le certezze degli individui, i quali si trovano pertanto
catapultati in una sorta di Waste Land collettiva, desolata e sterile.
10
Cfr “Il Menabò”, 5, 1962.
11
I. Calvino, La sfida al labirinto, in Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980, pp. 96-97.
8
I valori, le ideologie, l’io, la storia vengono infatti sottoposti, negli anni,
ad un processo di rivisitazione, incessante analisi, confutazione, dal quale
escono frammentati, corrosi, spuri; la civiltà occidentale, attraversata e
devastata da due guerre mondiali, appare giunta al termine e la sua
cultura ridotta ad un cumulo di brandelli. I cocci di cui è pieno il mondo,
sottolinea Benjamin, si possono solo catalogare e enumerare in quanto
tali, non esiste più la possibilità di collegarli e di trovare valori di
giudizio universali, perché sopravvivono solo frammenti, ed è solo in
questi dettagli e negli infiniti e variegati particolari che si può provare a
leggere, allegoricamente, la storia del mondo alienato e alienante che ci
circonda
12
.
Cessa, in questo contesto, ogni speranza di ricostruzione di una qualche
metafisica: la crisi, pesante e generalizzata, investe e mette in discussione
tutti gli ambiti della produzione artistica e culturale. La parcellizzazione
dei fenomeni e della conoscenza non può più essere ricomposta in una
unità primigenia, ma è anzi destinata a rimanere franta e spezzettata.
In questo deserto di macerie, «dopo secoli passati a stabilire le relazioni
dell’uomo con se stesso, le cose, i luoghi, il tempo», tutte le relazioni –
scrive Calvino- cambiano: «non più cose ma merci, prodotti in serie, le
macchine prendono il posto degli animali, la città è un dormitorio
annesso all’officina, il tempo è orario, l’uomo un ingranaggio», si passa
alla fase «dell’industrializzazione totale e dell’automatizzazione»
13
, dalla
quale viene poi plasmata la società dei consumi e del benessere, una
società dove i valori, i bisogni, i significati sono determinati
dall’industria e dalla pubblicità e diventano dunque sempre più artificiali,
sintetici e inorganici.
La connotazione principale del cittadino non è più quella di essere
membro di una comunità, egli si è trasformato in un consumatore che
acquista merci di qualsiasi tipo, stimolato dalla propaganda commerciale
12
Cfr, W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 126.
13
I. Calvino, Op. cit, p. 82.
9
e dai miti che la società dello spettacolo crea e sostituisce senza
interruzioni.
Anche l’arte ha perso la sua aura, il suo valore sacrale, la sua capacità
d’incanto, e l’artista è costretto a prostituirsi e a sedurre il pubblico con
tecniche artificiose e innaturali che già possiedono in se stesse il germe
della mercificazione, legato alla cancellazione del valore cultuale e della
autonomia dell’opera, attraverso la sua riproducibilità tecnica
14
.
Gli istinti profondi e le pulsioni inconsce vengono suscitati e poi
manovrati, controllati e incanalati in comportamenti, mentalità e desideri
stereotipati di massa, secondo i modelli cinematografici, televisivi,
musicali, sportivi. Desideri, progetti, comportamenti vengono colonizzati
e indirizzati dai mass-media e dalla pubblicità, come sostengono
Horkheimer e Adorno: «film e radio non hanno più bisogno di spacciarsi
per arte. La verità che non sono altro che affari, serve loro da ideologia, e
questa dovrebbe legittimare gli scarti che producono volutamente […].
La cultura è una merce paradossale. E’ talmente soggetta alla legge dello
scambio che non è più neppure scambiata; si risolve così ciecamente
nell’uso che non è più possibile utilizzarla. Perciò si fonde con la
rèclame, che diventa sempre più onnipotente quanto più sembra assurda
dove la concorrenza è solo apparente […] il suo prodotto […] finisce per
coincidere con la réclame di cui essa stessa ha bisogno per compensare la
sua in fruibilità. Tecnicamente ed economicamente réclame e industria
culturale si fondono insieme […] nell’una e nell’altra, sotto l’imperativo
dell’efficienza, la tecnica diventa psicotecnica, tecnica della
manipolazione degli uomini».
15
14
Cfr, W.Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi,
Torino 2000.
In questo testo Benjamin collega la perdita dell’aura nella società contemporanea al
crescente ruolo delle masse nel panorama contemporaneo, le quali richiedono con assiduità
nuovi beni culturali che sono pertanto condannati a diventare merce. L’opera d’arte,
riprodotta in una sede non originale, viene desacralizzata, pur non perdendo le sue qualità
primarie. Attraverso questo processo dunque il valore rituale viene sostituito da un valore
espositivo antiestetizzante favorendo in questo modo un’esperienza laica della cultura.
15
M. Horkheimer e Th. W. Adorno, Dialettica dellIlluminismo, Torino, Einaudi, 1966, pp.
169-170.
In questo passaggio gli autori svelano la calunnia della cultura, la quale nasconde agli occhi
del consumatore la sua vera natura di merce, impedendo così al consumatore di scambiarla.
L’unica cosa possibile da fare è infatti limitarsi al consumo cieco di questa cultura che
ormai è ridotta a feticcio, a oggetto di culto e a bisogno immaginario e indotto, proprio
come quelli proposti/imposti dalla pubblicità.
10
Il carattere invasivo dello sviluppo e della logica della produzione
innesca il mutamento sempre più rapido delle condizioni sociali, accelera
la perdita di ogni riferimento ai valori ultimi e di ogni fondamento
stabile, che trasforma l’uomo da soggetto alienato a soggetto
frammentato, mero e multisfaccettato attante relegato in un universo
spogliato di ogni storicità e frammentato anch’esso; provoca la nascita
dell’industria culturale, che induce gli artisti a produrre ciò di cui il
mercato dei beni simbolici ha bisogno, così che la cultura stessa possa
continuare a circolare.
Poiché il cittadino viene considerato innanzitutto un consumatore, il
sistema comincia ad esigere che pittori, cineasti e scrittori producano non
più opere, bensì merci da mettere in circolazione sul mercato
16
.
L’opera d’arte è conseguentemente destinata non solo ad essere
museificata, ma anche ad essere mercificata, come sostiene Sanguineti:
«il museo e il mercato sono assolutamente contigui e comunicanti, anzi
sono le due facciate di un medesimo edificio sociale […]. Se il museo è
figura reale dell’autonomia dell’arte, esso è insieme la figura
compensatrice della sua eteronomia mercantile […]. L’arte discende sì al
livello del mercato ma da questo bagno salutare di rugosa realtà, di
stimolante concretezza, viene poi ribaltata nell’alto e inoffensivo olimpo
dei classici […] il museo ha la sua specifica ragion d’essere nella
sublimazione che ivi avviene di tutta la realtà commerciale del fatto
estetico: è il prolungamento superiore ed estremo dell’arte come merce
[…]. L’arte cerca di sottrarsi al suo destino di sterilità giullaresca, di
salvare una qualunque patente di nobiltà nell’oceano degli strumenti della
comunicazione di massa: nella migliore delle ipotesi, riesce soltanto a far
salire il proprio prezzo, prima di precipitare nel museo».
17
In questo nuovo e poliforme universo anche la figura del letterato subisce
notevoli modifiche ed adattamenti, per ciò che concerne la scelta sia delle
16
Ibidem.
17
Cfr. E. Sanguineti, Sopra l’avanguardia, in Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano
2001, pp. 57-58.
11
tematiche da affrontare, sia dei codici espressivi attraverso i quali
veicolarle. Se l’industria culturale sforna artisti mercanti e opere seriali
atte a soddisfare la nuova domanda, alcuni sensibili artisti rispondono a
questo nuovo clima con provocazioni, ma anche con proposte
paradossali, e seguono la temperie culturale, cogliendone i sensi e i
motivi più profondi.
Le prime avvisaglie di questo rinnovamento stilistico/ tematico, che si
oppone e fa resistenza al mondo circostante e al nuovo tipo di società che
si va plasmando, si danno in Europa già negli anni ’20, attraverso la
poesia collages di frammenti di Eliot e Pound, attraverso i grandi
romanzi senza eroe, da Musil a Joyce, e, soprattutto, attraverso
l’esperienza omnicomprensiva dei surrealisti, i quali con la loro attività
avanguardistica, offrivano al mercato oggetti feticcio misteriosi, anti
merci assolutamente non richieste nel tempo presente, ma assolutamente
necessarie nel tempo che si ipotizzava futuro
18
.
Ma sarà poi negli anni successivi al secondo conflitto mondiale che si
avrà, anche nell’Italia fino ad allora prevalentemente ermetico-classicista,
un significativo dibattito e importanti prese di posizione relative alla
necessità di mutar tema, lingua e stile, per una socializzazione e una
diffusione di una cultura e di un sapere nuovi, che non si sarebbero
limitati a consolare l’uomo dalla sofferenza ma che gli avrebbero fornito
anche una presa di coscienza e una protezione concreta, attraverso la
denuncia e il resoconto preciso di quanto avveniva nel mondo reale,
come ben sottolinea Vittorini nell’editoriale del primo numero de “Il
Politecnico”, il 29 settembre 1945: «la cultura non è società […] perché i
suoi principi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente
rinnovatori e efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la
società stessa vive […] una cultura che le impedisca, che le scongiuri,
che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno,
questa è la cultura in cui occorre che si trasformi la vecchia cultura».
19
18
Ivi, pp. 55-58.
19
Cfr. E. Vittorini, Una nuova cultura , editoriale de “Il Politecnico”, 29 settembre 1945.
12
Si configura, come questo intervento di Vittorini dimostra, l’esigenza
diffusa di un rinnovamento radicale del ruolo dell’intellettuale e della sua
presenza e azione all’interno della società, e, a partire da ciò, una
revisione del modo di fare e comunicare la letteratura, come scrive
Sanguineti ne I santi anarchici «il problema di un poeta (e quindi di un
autore), oggi, rimane sempre […] quello di trasformare l'impulso alla
rivolta in una proposta di rivoluzione, e fare della propria miscredenza un
progetto praticabile».
La soluzione proposta da Sanguineti (e dai Novissimi) è sicuramente più
radicale rispetto a quella caldeggiata da Vittorini, ma per certi versi è più
internazionale, assimilabile alle teorizzazioni fatte da Robbe Grillet nei
primi anni ’60 sul nouveau roman, in Francia.
La risposta di questi autori al nuovo clima culturale è caratterizzata da un
riassetto strutturale e tematico del testo letterario attraverso la riduzione
drastica del peso del soggetto poetico che, scomparendo
progressivamente sia come pronome che come punto di vista, permetteva
agli autori di avvicinarsi di più alla realtà oggettuale, sia dal punto di
vista tematico che da quello stilistico.
Come ben teorizza Giuliani nella prefazione alla raccolta di poesie dei
Novissimi: «due aspetti delle nostre poesie vorrei far notare
particolarmente: una reale "riduzione dell'io" quale produttore di
significati e una corrispondente versificazione priva di edonismo, libera
da quella ambizione pseudo-rituale che è propria della ormai degradata
versificazione sillabica e dei suoi moderni camuffamenti […]. Il nostro
compito è di trattare la lingua comune con la stessa intensità che se fosse
la lingua poetica della tradizione e di portare quest'ultima a misurarsi con
la vita contemporanea»
20
.
I personaggi diventano di conseguenza sempre più irrilevanti, la trama
narrata è pressoché inesistente e la comprensione del mondo sempre più
impossibile, così come spiega Robbe Grillet: «l’époque actuelle est plutôt
celle du numéro de matricule. Le destin du monde a cessé, pour nous, de
20
A. Giuliani, introduzione a I Novissimi, Einaudi, Torino 1965.
13
s’identifier à l’ascension ou à la chute de quelques hommes, de quelques
familles. Le monde lui-même n’est plus cette propriété privée, héréditaire
et monnayable, cette sorte de proie, qu’il s’aggissait moins de connaître
que de conquérir»
21
.
L’attenzione è ora focalizzata sulle cose e sugli oggetti, la prospettiva è
esterna e inquadra i singoli frammenti di una realtà disgregata e senza
senso, che viene mostrata e spiegata attraverso un montaggio inorganico,
freddo e distaccato di frammenti oggettivi.
Analogo è il panorama statunitense, sia nell’ambito artistico, legato alle
opere dei pittori informali e della pop art che prendono atto della
frammentarietà del mondo, della perdita della forma e dell’impossibilità
di conoscere e dare senso a ciò che si vede; sia in quello letterario, con
l’affermarsi di autori come Allen Ginsberg, il quale, nei suoi scritti,
esprime il rifiuto per l’ american way of life opponendosi al mondo falso,
ipertecnologico, consumista che lo circonda e lo vorrebbe soggiogare e
che ha ridotto la tradizione culturale e letteraria, anche qui, ancora una
volta, a merce da supermercato:
«I saw you, Walt Whitman, childless, lonely old grubber,
poking among the meats in the refrigerator and eyeing the grocery
boys.
I heard you asking questions of each: Who killed the
pork chops? What price bananas? Are you my Angel?».
22
E se il fantasma di Walt Whitman vaga disorientato tra i reparti di un
supermercato già nel 1955, qualche anno più tardi anche in Italia il
problema del consumismo e della mercificazione di ogni cosa, compreso
il capitale simbolico, verrà affrontata dalla letteratura e dalla poesia,
come bene si nota in questi versi di Sanguineti, vera e propria denuncia
del mondo contemporaneo sul piano sociale e politico:
23
21
A. Robbe Grillet, Pour un nouveau roman, Édition de Minuit, Paris 1963, p. 45.
22
A.Ginsberg, A supermarket in California, in Jukebox all’idrogeno, Guanda, Parma 2006.
23
Sanguineti assume lo schema di una filastrocca piemontese, che viene trasformato in un
elenco di cose diverse, di regali strani e "non confortevoli", riferiti anche al tempo. Il poeta
schernisce il figlio che piange plagiato dagli inganni e dalle ingiustizie della società
consumistica, del neocapitalismo e delle tecnologie avanzate, e contesta allo stesso tempo
14
«piangi piangi, che ti compero una lunga spada blu di plastica, un frigorifero
Bosch in miniatura, un salvadanaio di terra cotta, un quaderno
con tredici righe, un’azione della Montecatini:
piangi piangi, che ti compero
una piccola maschera antigas, un flacone di sciroppo ricostituente,
un robot, un catechismo con illustrazioni a colori, una carta geografica
con bandierine vittoriose:
piangi piangi, che ti compero un grosso capidoglio
di gomma piuma, un albero di Natale, un pirata con una gamba
di legno, un coltello a serramanico, una bella scheggia di una bella
bomba a mano:
piangi piangi, che ti compero tanti francobolli
dell’Algeria francese, tanti succhi di frutta, tante teste di legno,
tante teste di moro, tante teste di morto:
oh ridi ridi, che ti compero
un fratellino: che così tu lo chiami per nome: che così tu lo chiami
Michele:».
24
Il mondo, in questa dimensione disumana e artificiale, diventa, insomma,
il panorama entro il quale il poeta è costretto a muoversi e a
destreggiarsi.
Risso, nell’introduzione a Laborintus, spiega: «siamo in un momento di
grande fermento della cultura italiana che, dopo il fascismo e nella fase di
ricostruzione del dopoguerra, si apre al confronto di una prospettiva di
socializzazione e di diffusione dei saperi, non più riservati alle sole classi
colte e dominanti, ma pronti a diventare patrimonio condiviso. Conflitti e
mutamenti caratterizzano fortemente questa fase»
25
.
polemicamente la realtà tragica e macabra che lo circonda. Attraverso questa poesia
Sanguineti ci fornisce una sorta di catalogo dei miti e dei simboli della contemporaneità: gli
oggetti status symbols, il potere economico, la distruzione chimica, il mondo meccanico e
le guerre che dilaniano il mondo, ma fornisce uno spiraglio di speranza attraverso la chiusa
finale, dove inserisce la nascita del fratellino come espressione autentica e superstite della
vita.
24
E. Sanguineti, Purgatorio de l’inferno, in Triperuno, Feltrinelli, Milano 1964.
In realtà anche in Laborintus, la prima raccolta poetica di Sanguineti, scritta tra il 1951 e il
1955, è già presente un primo riferimento al mondo capitalista e sfruttatore attraverso il
personaggio di Moneybags.
25
E. Risso (a cura di), Laborintus di Edoardo Sanguineti. Testo e commento, Manni, Lecce
2006, pp. 7, 15-16.
15
Sanguineti inizia, nella notte tra il 1950 e il 1951, il suo personale
percorso letterario assemblando i brandelli scollegati e sparsi del mondo
post atomico e dando loro un nuovo senso, una nuova funzione
all’interno delle sezioni di Laborintus, le quali diventano pertanto bacino
di raccolta di una serie infinita di reminescenze letterarie, linguistiche e
storiche, abilmente celate, travestite o rovesciate dall’autore: «la
particolare costruzione fondata sull’accumulo di materiali
apparentemente eterogenei […] è l’unico (schema) che poteva dare conto
della labirintica –e insieme infera- realtà della nuova situazione atomica
[…]. L’io che prende la parola non solo è diviso (secondo le modalità
descritte dalla psicoanalisi e dagli artisti più avvertiti della prima metà
del Novecento), ma è del tutto frantumato, gettato nella Palus della realtà
[…] il processo di neutralizzazione e fortissima oggettivazione avviene
estremizzando la lezione dantesca di una geografia infernale priva di una
specifica attenzione paesistica attraverso […] un paesaggio fortemente
frantumato e putrescente».
26
Sanguineti dunque monta questi frammenti di realtà e di cultura in modo
discontinuo, procedendo per disordini ed accumuli di eventi e oggetti non
contigui né dal punto di vista spaziale né da quello temporale. Il suo è un
estremo tentativo di ricostruire una unità dei diversi frammenti che
generano un nuovo tipo di ordine delle cose, caratterizzato dalla
enumerazione caotica, e che si aprono verso il tumulto del tempo
presente: «il babelismo del linguaggio e delle immagini, che Sanguineti
compone, mira a copiare in maniera parodica il caos profondo del mondo
neo-capitalista: ma contemporaneamente […] libera qualcosa di ignoto:
onde, attraverso un barocco critico, una discesa liberatrice nel crogiolo (o
diremo: una discesa all’inferno?) dei sensi primitivi, delle immagini
essenziali, delle figure inconsce, delle connessioni alchemiche, erotiche,
oniriche»,
27
come bene illustra Barthes.
26
Ivi, p. 13.
27
R. Barthes, Edoardo Sanguineti visto da Roland Barthes, in Album Sanguineti, Manni,
Lecce, 2002, p. 19.