La foga di individuare spunti di ricerca sempre nuovi ha infatti posto in secondo
piano l’ingrediente fondamentale insito in ogni lavoro beckettiano: la componente
biografica.
Samuel Beckett fu un uomo caratterizzato da una sensibilita’ spesso tarpante e da
un’emotivita’ traboccante. Il suo unico sfogo consisteva proprio nella creazione
artistica, era quello il momento in cui, forse piu’ di ogni altro scrittore, riusciva a
scoprire e a riconoscere realmente se stesso, inserendo in ogni storia, ed in ogni
personaggio, un pezzetto di vita vera. La sua evoluzione d’uomo coincise
totalmente con l’evoluzione artistica e cosi’ dall’anonimato giunse al successo,
dalla depressione si avvicino’ alla serenita’, dai lunghi lavori teatrali approdo’ai
dramaticules, alla mondanita’ scelse il silenzio.
Nostro scopo, in questa sede, e’ approfondire proprio l’aspetto appena descritto e,
raccontando l’uomo attraverso il drammaturgo, riuscire ad allontanarci da
argomenti triti per esplorare una nuova realta’, approfondendo in particolar modo
il periodo di attivita’teatrale beckettiana che va dagli anni 60’ agli 80’. Fu questo
infatti il lasso di tempo che maggiormente segno’ la vita e la carriera dell’autore
irlandese ma sono proprio questi gli anni piu’ trascurati dalla critica.
Non escluderemo naturalmente anche il periodo che precedette Aspettando Godot,
e cioe’ quello durante il quale il giovane Beckett si avvicino’ per la prima volta al
palcoscenico.
Non prenderemo in considerazione l’attivita’ prettamente letteraria dell’autore, ma
crediamo che nel caso di un artista di tale calibro non sia sbagliato parlare di
teatro letterario, e viceversa.
Speriamo di riuscire ad umanizzare un mito, per renderlo ancora piu’ perfetto.
CAPITOLO I: BECKETT E LA CRITICA
Samuel Beckett non ha mai amato commentare le proprie opere ne’ tanto meno
darne spiegazioni. E’ probabilmente anche per tale motivo che la critica ha
mostrato sempre un particolare interesse per questa bizzarra figura d’uomo e
d’artista, dedicando alla produzione beckettiana monografie, numeri speciali di
riviste, saggi a profusione, insomma una serie infinita di studi tra i quali a volte
diventa davvero difficile orientarsi.
Nostro scopo e’ quello di ripercorrere le tappe fondamentali degli studi
beckettiani, e dunque sara’ bene prendere immediatamente in considerazione il
panorama critico odierno ed in particolare un fenomeno assai attuale ed
interessante, quello della “Beckett industry”. Con questo appellativo viene
denominata la sterminata produzione critica di area anglo-sassone
1
che analizza
con assiduitá l’opera dell’autore irlandese. In particolare negli Stati Uniti,
l’obiettivo principale degli studiosi e’ quello di focalizzare l’attenzione su aspetti
e temi sempre nuovi ed originali e dunque non ancora sondati compiutamente. Tra
questi va evidenziato soprattutto il rapporto dei testi teatrali di Beckett con la
narrativa e la messa in scena, oggetto da alcuni anni di esplorazioni sempre piu’
metodiche. Secondo i critici americani infatti, nella dinamica della solitudine
beckettiana voce e corpo sono destinati ad inseguirsi eternamente e quelle stesse
creature che in un primo tempo affollavano soltanto la pagina scritta,
trasformando il proprio monologo interiore in pantomima parlante, arrivano
successivamente ad abitare anche il palcoscenico. Ed e’ proprio sulle connessioni
da stabilire tra romanzo e teatro, voce recitante ed immagine, parola e
rappresentazione, che hanno puntato lo sguardo gli studi statunitensi. Il processo
creativo viene analizzato nei minimi dettagli e studiato nei suoi sviluppi
immediati: la teatralita’ naturale dei romanzi; il lavoro di musicalizzazione della
scrittura; lo studio delle versioni successive di uno stesso testo; l’elaborazione
della forma; l’attenzione crescente di Beckett nei confronti dello sguardo,
dell’immagine ma anche dello spazio e del corpo. Ed e’ cosi’ che giungiamo ad
un altro punto fondamentale che ha costituito insieme a quello delle connessioni
con la narrativa, un filone di ricerca particolarmente approfondito dalla critica
anglo-sassone: la messa in scena da parte di Beckett delle sue pièces. Il
drammaturgo, lo scrittore che specialmente nell’ultimo periodo della sua attivita’
ha speso gran parte delle proprie energie artistiche sull’idea di forma, che si e’
sempre dichiarato acerrimo nemico della rappresentazione, diventa ora esecutore
meticoloso di una scrittura scenica tanto chiara e rivelatrice da suggerire a volte
raffronti con il linguaggio della musica e della matematica. Da cio’ e’ certamente
ben chiaro che il lavoro scenico dell’autore costituisce un elemento decisivo per la
comprensione della sua drammaturgia e dunque gli studiosi hanno avuto anche in
questo caso bisogno di ritornare alla sorgente del testo. Ma non certo del testo
chiuso, immutabile, su cui si e’ arenata qualche decennio fa la critica beckettiana
francese; si tratta invece di un ritorno alla scrittura e dunque ad un universo
continuamente in movimento. Per i critici anglo-sassoni non e’ stato affatto facile
prendere in considerazione questo nuovo approccio dal momento che, forse piu’
di ogni altro autore suo contemporaneo, Beckett ha amato esplorare linguaggi
sempre nuovi, spostandosi agilmente dal romanzo al teatro, dalla pantomima al
cinema, dalla radio al linguaggio musicale, dal video alla poesia. E’ certamente
vero pero’ che grazie a questo tipo di studi ed alla molteplicita’ dei loro risultati,
gli Stati Uniti si sono guadagnati un posto d’onore nell’ambito della critica
beckettiana, giungendo ad essere giustamente considerati luogo d’origine delle
analisi piu’ aggiornate.
Agli studi d’oltre oceano si affianca anche il filone critico francese che, superati i
condizionamenti dovuti fino a qualche decennio fa a schemi metodologici e
strumenti analitici antiquati, si e’ imposto all’attenzione mondiale gia’ dal 1990,
anno in cui una seconda edizione speciale della “ Revue d’Esthétique” dedicata a
Beckett
2
ha dimostrato per la prima volta, nello spirito e nei criteri, un notevole
cambiamento di tendenza.
Gli studi francesi hanno privilegiato in particolar modo l’analisi del rapporto tra
teatro beckettiano e recitazione, approfondendo in primo luogo la messa in scena
da parte dell’autore dell’impossibilita’ di recitare. La teoria di fondo e’ che il
teatro beckettiano miri a rappresentare l’incapacita’ degli uomini di
rappresentarsi. Quest’ultima considerazione nasce anche dal fatto che fino agli
anni 50, Beckett affermava che rappresentare l’oggetto “perche’ e’ cio’ che é”, e
rappresentarlo “perche’ io sono cio’ che sono”, fosse solo una duplice
impossibilita’. A cio’ consegue, come gia’ sottolineato a proposito degli studi
americani, un ritorno all’analisi della fase di scrittura, nella quale l’impossibilita’
di recitare sarebbe, secondo i francesi, gia’ insita. Non bisogna infatti dimenticare
che e’ proprio nella scrittura che affonda le proprie radici la creazione teatrale che
a sua volta si compie nella recitazione. Dunque questo “gioco dell’impossibilitá”
e’ gia’ ben presente nel romanzo, nel racconto, nella narrazione, insomma in tutto
cio’ che sta prima dell’esecuzione teatrale. La convinzione dei critici francesi e’
dunque ora piu’ facile da cogliere: negando la possibilita’ di recitare Beckett nega
il teatro stesso, nega cioe’ la realizzazione di una rappresentazione. Ed e’ proprio
in questo che sta la sua grande rivoluzione, nell’aver opposto alla tradizione
teatrale occidentale un teatro in cui non accade nulla, in cui non c’e’ nessuno, una
scena in cui si parla per non dire niente.
Esiste un attore beckettiano? Il teatro dell’autore irlandese ha bisogno di uno
specifico stile recitativo? Queste sono le ulteriori domande a cui gli studiosi
francesi hanno tentato di rispondere, giungendo a conclusioni rassicuranti. Beckett
infatti avendo scritto pièces sia in inglese che in francese, e dunque rivolte a stili
teatrali molto diversi, e’ riuscito a garantirsi interpretazioni sempre differenti,
fuggendo il pericolo di una subordinazione allo stile. Inoltre le sue opere, pur
ammettendo diversi tipi di interpretazione, non tendono mai ad enfatizzarne uno
in particolare, riuscendo a metterli tutti continuamente in discussione e a coglierne
le strutture piu’ nascoste fino a scoprirli nell’atto di recitare.
Per quanto riguarda poi gli attori, i critici francesi affermano che se si volessero
paragonare gli interpreti degli anni ‘50 con quelli dei giorni nostri, ci si
renderebbe ben presto conto di quanto “i moderni” abbiano riscoperto una
maggiore liberta’ interpretativa, allontanandosi da quel “grado zero del teatro” che
era stata la grande aspirazione di tanti eccellenti attori del passato
3
. Questi
tendevano infatti a dichiararsi in qualche modo contro il teatro, sognando silenzio
ed immobilita’. Soltanto Madeleine Renaud riusci’, negli anni 60, a restituire con
la sua interpretazione di Giorni felici naturalezza all’opera beckettiana, ma con il
1970 ritorno’ nuovamente in auge una tendenza alla formalizzazione che
produsse rappresentazioni in cui l’accento era posto sui ritmi, sulla ripresa e la
variazione di alcune figure sceniche di base. Fortunatamente ai giorni nostri
questo formalismo sembra totalmente superato e sia le messe in scena che le
interpretazioni degli attori ne risultano assolutamente prive. Solo continuando su
questa strada si potra’, secondo gli studiosi francesi, tener fede all’obiettivo di
Beckett e cioe’ alla volonta’ dell’autore di enfatizzare il piu’ possibile il fatto della
recitazione, cancellando quasi totalmente l’interpretazione e subordinando il
significato del testo al funzionamento concreto e pratico della macchina teatrale.
Al panorama critico beckettiano odierno appartiene anche un altro filone di studi
particolarmente noto ed influente a cui non partecipano soltanto studiosi
accomunati da una stessa nazionalita’, ma critici provenienti da vari paesi e
differenti culture
4
. Tale tipo di studi analizza l’opera beckettiana in chiave biblica,
cogliendo nelle singole pièces parallelismi e rimandi al testo sacro. Questo
approccio critico nasce anche dal fatto che Beckett coltivo’ fin dalla gioventu’ la
teologia protestante, nutrendosi di letture agostiniane dalle quali fu molto
influenzato. Secondo gli studiosi la Bibbia entra infatti nella drammaturgia
beckettiana non come un serbatoio di citazioni, bensi’ come un modello per la
costruzione del testo, come fonte di immagini ed archetipi, ma soprattutto come
riferimento, anche se spesso ironizzato e polemicamente assunto. E se dunque
l’albero sulla scena di En attendant Godot puo’ essere metaforicamente
interpretato come una croce, in Finale di Partita si possono ritrovare riferimenti al
diluvio universale biblico, tanto piu’ che lo stesso nome Hamm ricorda quello di
uno dei figli di Noe’. Ma la religione influenza anche, secondo gli studiosi, lo
humour beckettiano che, sottolineando la gratuita’ assoluta dell’iniziativa salvifica
di Dio, ride dinnanzi ai vani sforzi dell’uomo incapace di comprendere che mai
potra’ modificare alcunche’ della propria condizione strutturale, un uomo,
insomma, che non sa e non puo’, l’agostiniano: “Qui potest, intellegat” (Conf.
XIII, 10.11).
Sara’ bene a questo punto, avendo fin qui analizzato i filoni critici principali degli
ultimissimi anni, cominciare un viaggio a ritroso, esplorando i piu’ significativi
studi del passato i cui risultati sono tutt’oggi tenuti in considerazione dai
ricercatori perche’ considerati pietre miliari del pensiero critico beckettiano.
Proprio il concetto di humour di cui abbiamo parlato a proposito del rapporto tra
l’autore irlandese e la Bibbia, inluenzo’ gia’ in passato le ricerche di un cospicuo
gruppo di studiosi che, guidati da un eminente esperto beckettiano, Martin
Esslin, lo analizzarono nei minimi dettagli, impostandovi un progetto critico e
ritrovandovi un eccellente spunto di analisi per un preciso filone di studi
5
.
Punto di partenza della critica “essliniana”e’ la convinzione che l’opera
beckettiana abbia insito in se’ un “eterno paradosso”: il paradosso della catarsi.
Come mai infatti, si chiedono gli studiosi, le sventure e l’infelicita’ che vediamo
rappresentate sul palcoscenico provocano in noi riso e divertimento? Siamo forse
diventati totalmente sadici tanto da riuscire a provar piacere di fronte alle infinite
disgrazie che ci vengono proposte a teatro? Essendo quest’ultima ipotesi
certamente da scartare, lo scopo della critica e’ stato proprio quello di trovare
risposte plausibili.
Aristotele definiva nella Poetica
6
la catarsi purificazione dell’anima dello
spettatore da emozioni dolorose, che scaturisce, nella finzione tragica,
dall’evocazione di sentimenti di pieta’ e terrore. Esslin e i suoi affermano che
anche nell’opera beckettiana e’ possibile incontrare situazioni capaci di
trasmettere pieta’ e terrore, ma e’ pur vero che il piu’ delle volte vi si ritrova come
componente essenziale il comico. Ed e’ proprio a questo punto che giungiamo ad
un passaggio fondamentale per gli studiosi; essi infatti ritengono che quello
beckettiano sia, rifacendosi ad una categoria aristotelica, un riso dianoetico, lo
stesso che l’autore irlandese definì “il riso che ride del riso, colui che contempla,
che saluta lo scherzo piu’ nobile, in una parola il riso che ride di cio’ che e’
infelice”
7
. Il riso dianoetico infatti agirebbe a livello sia narrativo che drammatico
rifacendosi all’idea aristotelica del tragico ma al tempo stesso da essa
discostandosi perche’ collegato ad un mondo nettamente piu’ arbitrario ed assurdo
di quello classico. Paragonando infatti la tragedia greca alle opere beckettiane, i
critici arrivano a dimostrare che all’universo classico popolato da dei ed eroi di
cui gli spettatori dovevano aver timore, Beckett oppone invece un mondo abitato
da personaggi estremi, spesso ridicoli e certamente comici. Il pubblico dunque,
senza dubbio ridera’ alla loro vista, ma non sara’ un riso di scherno, bensi’ un riso
che ride dell’infelicita’ umana, tanto piu’ che questi personaggi vivono del tutto
inconsapevolmente il loro tragico destino. La conclusione a cui sono giunti gli
studiosi e’ a questo punto quanto mai interessante; essi ritengono infatti che
seppure i personaggi beckettiani non assumono in prima persona un atteggiamento
eroico, e’proprio grazie a loro che l’autore riesce a dimostrare al pubblico la
propria eroicita’, la propria magistrale capacita’ di affrontare ed accettare il vuoto.
Muovendosi all’interno dell’universo beckettiano e’ impossibile non imbattersi in
un sostantivo che fin dagli esordi e’ stato cucito addosso al nostro autore: assurdo.
Non c’e’ da stupirsi dunque che all’inizio degli anni 80 una parte della critica
inglese, facendo riferimento ancora una volta alle ricerche cominciate negli anni
60 da Esslin
8
, vi abbia focalizzato i propri studi, conducendo su questo tema
ricerche ed approfondimenti
9
.
Primario scopo di tale filone critico e’stato quello di sottolineare la distanza di
Beckett da un altro autore suo contemporaneo a cui spessissimo e’ stato
paragonato ed equiparato: Eugene Ionesco.