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Premessa
Oggetto di questa tesi è la traduzione di quattro racconti di
Chaim Potok, un rabbino statunitense divenuto autore di romanzi di
grande successo come, tra gli altri, The Chosen, My Name Is Asher
Lev, The Gift of Asher Lev e I Am the Clay.
Tre dei racconti qui presentati sono tratti dalla raccolta per
ragazzi Zebra and Other Stories, la terza opera dell‟autore
indirizzata ad un pubblico giovane della quale Potok parla come di
una miniera di spunti letterari: “I just finished a book of short
stories for young adults, and for each of the stories I wrote, I must
have written six other stories. A novel for each story, in other
words”.1 Il quarto racconto, “Cats of 37 Alfasi Street”, ancora
inedito nella nostra lingua, è invece tratto dalla rivista American
Judaism ed è l‟unico, fra i racconti presentati, ad avere un forte
legame con il mondo ebraico, il mondo a cui Potok fa riferimento
nella maggior parte della sua produzione letteraria.2 Non a caso, è
l‟autore stesso a evidenziare l‟eccezionalità di Zebra and Other
Stories rispetto al resto delle sue opere: “[...] of all the stories I have
1 “An Interview with Chaim Potok”, in Philadelphia News, 1 marzo 1998.
<http://potok.lasierra.edu/Potok.interviews.PN.html>
2 Chaim Potok, “Cats of Alfasi Street”, American Judaism. 36.1 (Fall 1966): 12-13, 25-
26, 28-29.
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written, Zebra is the least Jewish”3
I racconti hanno come protagonisti bambini e ragazzi che si
muovono sullo sfondo di una vita quotidiana di un qualsiasi
ragazzino occidentale. Le quattro storie differiscono per le diverse
voci narranti: “Moon”, “Zebra” e “B.B.”, hanno come punto di
vista quello dei ragazzi stessi ‒ anche se, nel caso di “B.B.”, la voce
narrante è autodiegetica mentre in Moon e Zebra troviamo un
narratore extradiegetico. “Cats of 37 Alfasi Street”, invece, adotta il
punto di vista di un narratore omodiegetico adulto che prende parte
alla vicenda solo come testimone.
Tuttavia, da qualunque prospettiva si osservino i protagonisti,
dalla penna di Potok emergono ragazzi legati tra loro dalla
medesima inquietudine, i quali mal si rapportano con gli adulti, a
volte per colpa di incomprensioni reciproche, altre a causa di uno
stato di impotenza in cui si trovano imprigionati. In ciascuno di
questi racconti avviene qualcosa di inaspettato, una sorpresa o bella
o dolorosa, che muta le carte in tavola, scompagina le vite ordinarie
dei giovani protagonisti e rimette tutto in discussione. Solo in due
casi, in “Moon” e in “Zebra”, i ragazzi troveranno qualcuno in
grado di sbloccarli dalla loro situazione di disagio, due personaggi
che hanno in comune con loro gli stessi impedimenti, le stesse
3 D. L. Vanderwerken, "A Visit with Chaim Potok", in Conversations With Chaim
Potok. Ed. Daniel Walden. Oxford: UP of Mississippi, 2001. 170.
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passioni. Ma anche in questi due racconti, come negli altri, il finale
lascerà spazio a un lieto fine incompiuto, seppur velato da ombre
tragiche, come la malattia o la morte.
Attraverso il susseguirsi di dialoghi per lo più concisi e resi
convincenti dall‟uso sapiente di registri colloquiali e giovanili, e
lucide descrizioni di frammenti di vita quotidiana, Potok dipinge
quattro ritratti di bambini e ragazzi costretti dalle circostanze a
confrontarsi con le prime, piccole o grandi tragedie che segneranno
momenti di svolta nella loro vita.
Vorrei far soffermare l'attenzione del lettore sulla traduzione dei
suoni e delle battute nel racconto "Moon", in quanto frutto di una lunga
riflessione linguistica e musicale. Dietro al tentativo di riprodurre lo
stesso effetto sonoro dell'originale, infatti, vi è l'aiuto di un consulente –
un batterista – il quale mi ha fornito preziosi consigli sulla trascrizione in
italiano dei suoni prodotti dalla batteria. I risultati ottenuti quindi, hanno
da una parte l'ambizione di risultare convincenti nella nostra lingua, e
dall'altra la volontà di aderire alla sensibilità musicale dimostrata dalla
scrittura di Potok.
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I gatti di Via Alfasi 37
L‟angusta strada di Gerusalemme curva come il letto di un
fiume bruno sotto gli alberi dal fogliame verde ed è calda e secca
nel vento del deserto. I gatti stanno distesi all‟ombra dei muri di
pietra color sabbia davanti ai giardini. Alti cipressi si stagliano
contro il cielo azzurro pallido ─ enormi dita verdi che picchiettano
il sole fiammeggiante. Dietro ai muri di pietra, terra rossastra
coltivata dà vita a piante del deserto ─ cactus dai luridi pugni,
taglienti cespugli di ragni, piccoli arbusti dalle foglie di gomma, e
fragili fiori del deserto dai petali rossi, azzurri e minuscoli, come
pietre preziose in una collina d‟argilla. Vialetti lastricati
serpeggiano attraverso i giardini fino a palazzine dai muri di pietra,
e i gatti si spostano come tigri lungo i vialetti verso l‟ombra dei
portici.
Le case sono del colore della sabbia del deserto, costruite con
la pietra estratta dalle colline della Giudea. Hanno uno stile
moderno, linee rette e funzionali dal suolo al tetto e solo una casa si
erge più alta di tre piani. I portici spiccano da quasi ogni stanza e il
sole è a un passo da un‟imposta aperta. A secoli di ghetti senza sole
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replicano i portici di Via Alfasi.
E ci sono le spoglie colline brune della Giudea che si elevano
in onde di pietra tutto attorno ─ le colline dove Davide e Salomone
plasmarono un regno, e i maccabei combatterono i siriani, e i farisei
combatterono i sadducei, e gli zeloti combatterono i romani, e gli
ebrei attesero il Messia all‟ombra delle fiamme di un Tempio
infuocato ─ forti echi da un passato tenace.
Qualche anno fa, i trattori che tagliavano e spianavano la
terra su cui si sarebbe dovuto costruire le nuove case di Via Alfasi
scoprirono una tomba che si era lasciata seppellire da secoli di
roccia e sabbia. Arrivarono gli archeologi dalla Hebrew University
e datarono la tomba al secondo secolo avanti Cristo, al tempo della
rivoluzione dei maccabei contro i siriani ellenizzati. La tomba fu
ricostruita e oggi un‟alta struttura piramidale di pietra bianca copre
le lapidi. I gatti oziano lungo il sentiero che porta dalla strada alla
tomba, in mezzo alla terra terrazzata con rocce e fiori del deserto. I
morti vecchi di duemila anni fanno parte del presente di Via Alfasi.
Ora, al giorno d‟oggi, i bambini giocano lungo la strada con
un ebraico parlato a raffica; chassidim con i loro caftani camminano
velocemente piegati in avanti, i riccioli alle orecchie che dondolano;
il giardiniere bussa alla mia porta al pianterreno e chiede una
bevanda fresca; la domestica si domanda dove abbia lasciato il
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secchio e la scopa; una giovane coppia fa suonare dischi russi e
americani per tutto il cortile; a una finestra più in là una ragazza
studia pianoforte; una vicina di sopra aspetta che il figlio ritorni
dall‟esercito….
Il passato e il presente si fondono ─ sogni di secoli hanno
raggiunto l‟obiettivo della normalità su una striscia di terra di
Gerusalemme.
Ora la strada è limpida e muschiosa per il caldo. È la prima
settimana di ottobre, il periodo del khamsin, quando il deserto detta
legge, e perfino i gatti si muovono lentamente in Via Alfasi.
I gatti sono ovunque ─ sui muri dei giardini, sui vialetti
lastricati, nei vicoli minuscoli, sui marciapiedi, nelle strade. Sono
neri e bianchi e grigi, e urlano nelle notti fresche quando il caldo se
ne è andato e possono agitare le code l‟uno all‟altro, lontano dal
sole del deserto. Si cibano della spazzatura portata fuori la mattina e
gli spazzini li scacciano con minacce affettuose gridate in un
ebraico-arabo gutturale. I gatti sono dei compagni per i marocchini
dei camion della spazzatura che avanzano come pesanti carri armati
nel primo mattino di Via Alfasi.
Di fronte al civico 37 di Via Alfasi c‟è un lungo vialetto
lastricato. Le pietre sono tirate a lucido e sono del colore della
sabbia del deserto. Il vialetto porta dalla casa alla strada, su
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entrambi i lati c‟è la terra rossastra coltivata con piante del deserto.
A intervalli di pochi giorni, un giardiniere viene a innaffiare le
piante e una donna viene a pulire tutto il vialetto.
Due gatti vivono fra le piante del deserto di Via Alfasi 37.
Sono gatti grossi e uno ha una macchia nera frastagliata che parte
dal naso, attraversa lo spazio fra gli occhi e corre lungo la cima del
capo fino all‟orecchio sinistro. Le parti inferiori delle zampe sono
nere e ci sono lunghe striature nere sulla coda. Le macchie nere
stridono contro l‟unico altro colore ─ il bianco.
La seconda è tutto bianca, ad eccezione delle minuscole
macchioline di nero lungo i fianchi. È incinta, e quando cammina o
corre la pancia dondola pesante da una parte all‟altra e a malapena
evita il terreno.
Nel caldo pomeridiano i due gatti oziano all‟ombra del muro
davanti al giardino. La sera stanno distesi fra le piante del deserto a
pulirsi le zampe. Quando torno dalla Hebrew University, la sera, li
vedo sulla terra rossastra fra le piante e mi domando quando
arriveranno i gattini. Mi osservano nervosamente, i corpi arcuati
tesi per l‟istintiva apprensione primordiale. Alla mia porta, mi giro e
li vedo distesi, di nuovo rilassati fra le piante del deserto, a leccarsi
le zampe.
Il giardiniere, un marocchino alto e dalla pelle bruna, li
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provoca benevolo. È giovane e con le spalle larghe e indossa un
berretto e arriva alla casa su di una motocicletta. Punta il tubo per
innaffiare verso il pezzo di terra su cui sono distesi e ride mentre
scappano via dal lungo getto d‟acqua. Osserva la pancia della gatta
incinta che dondola sul terreno mentre corre via spedita e le dice
che i cuccioli usciranno cadendo di testa se continua a correre di
qua e di là in quella maniera, e che non deve pensare che le
permetterà di tenere la cucciolata nel suo giardino, due gatti sono
tollerabili, ma non un‟intera cucciolata ─ e ride di gusto e regola
l‟erogatore per avere un getto più fine mentre sposta le sue
attenzioni ai fiori del deserto.
La donna delle pulizie è bassa e macilenta, con braccia e
gambe da spaventapasseri e un prominente naso a becco. Ha una
quarantina o una cinquantina di anni e viene ogni due o tre giorni
per pulire tutto il vialetto lastricato e la scalinata, e passa alcuni dei
primi minuti della giornata correndo di qua e di là, domandandosi
dove abbia lasciato il secchio e la scopa. Riempie il secchio con
dell‟acqua e lo svuota sul vialetto lastricato, poi spazza via l‟acqua
verso la strada con una scopa dalle lunghe setole. Mentre spazza il
vialetto, parla dolcemente con i gatti in ebraico. Dice loro che è una
grande responsabilità avere una famiglia. Lei, per quanto la
riguarda, non è mai stata madre, ma sa che è una grande
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responsabilità, dal momento che lei aveva dieci fratelli in Persia e si
ricordava perfettamente dei propri genitori. Com‟è fortunato chi
avrà dei figli, com‟è privilegiato, com‟è orgoglioso. Ma è una
responsabilità. Quando finisce il lavoro, porta loro dell‟acqua in un
recipiente di metallo ammaccato e loro lasciano che si avvicini
senza ritrarsi. È l‟unica persona su quel vialetto lastricato contro cui
non reagiscono con una paura folle.
Ogni giorno, di primo mattino, i due gatti stanno fuori sul
marciapiede, in cerca di cibo fra i bidoni della spazzatura. Si
sbarazzano del coperchio dei bidoni e girano in tondo in cima alla
spazzatura, all‟interno, mangiando velocemente perché di lì a poco i
camion simili a carri armati arriveranno per portar via il loro cibo.
Mangiano da soli. Nessun altro gatto viene nei loro bidoni, giacché
il gatto maschio diventa violento col suo cibo e li allontana
aggredendoli. Poi arrivano gli spazzini e i gatti scappano tornando a
ridosso del muro, e gli spazzini prendono i bidoni e li svuotano nel
camion, ridendo bonariamente dei due gatti e di quanto
comodamente papà gatto faccia provviste per la sua famiglia. Uno
degli spazzini è basso e molto forte, con muscoli tirati e gonfi sotto
la pelle bruna delle braccia. Porta un berretto nero e schiocca la
lingua alla tsemed-hemed, la coppia deliziosa, e dice agli altri che i
gattini spargeranno presto la spazzatura per mezza Via Alfasi. I gatti