II
era scorrettezza nell’uso dell’apostrofo con l’articolo indeterminativo (questi ultimi
elencati comunque a p.266).
Per lo studio delle varianti abbiamo utilizzato l’edizione critica del Canzoniere
1921, a cura di Giordano Castellani, edito dalla fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori a
Milano, testo in cui leggiamo anche le varianti de Il borgo pubblicato ne «Il Lavoratore»
del I maggio 1905, de L’osteria di fuori porta pubblicata ne «Il Palvese» l’8 dicembre
1907, di Intorno a una cappella chiusa pubblicata in «Poesia» del 4-5-6 luglio 1908 e
quelle dell’importante Canzoniere manoscritto del 1919. Per le varianti successive al 1921,
ci siamo serviti della raccolta Ammonizione ed altre poesie pubblicata a Trieste per conto
dell’autore nel 1932, dei Canzonieri 1945 e 1948, entrambi editi da Einaudi e infine della
raccolta Poesie dell’adolescenza e giovanili pubblicata da Mondadori nel 1949. Leggiamo
invece il Canzoniere definitivo nel recente volume: Umberto Saba, Tutte le poesie, edito da
Mondadori ne «I meridiani» nel 1994. Il curatore A. Stara avverte che “rispetto all’ultima
edizione del Canzoniere [quella Einaudi 1965] si sono compiuti alcuni interventi
emendatori sui testi delle poesie” e aggiunge inoltre che è stato operato “un più massiccio
intervento sulla strutura stessa del Canzoniere”.
1
CAPITOLO 1
1.1 SABA: FORMAZIONE E CULTURA.
1.1.1 La formazione.
Secondo quanto dichiara il poeta stesso nella sua Storia e Cronistoria
1
“la sua
istruzione fu, purtroppo, scarsa; si arrestò alla quarta ginnasiale. Una cultura se la fece poi
da solo, con fatica tanto maggiore quanto più ristrette ne erano le basi” (SABA, 1964: 420).
Entrando nei dettagli, sappiamo che tra il 1893 e il 1899 Saba accanto alle “sterminate
letture” compie studi ufficiali incompleti e disorganici: iscritto al ginnasio superiore
comunale “Dante Alighieri” dall’anno scolastico ’93-4 all’anno scolastico ’96-7, è sempre
promosso, ma non è mai segnalato tra gli studenti migliori, finché visti i risultati poco
soddisfacenti della pagella dell’ultimo anno, in cui il poeta è dichiarato non idoneo per il
liceo, la madre decide di iscriverlo alla I. R. Accademia di Commercio e Nautica, sezione
commerciale, dove rimane però per soli due semestri; infine a quindici anni abbandonerà
definitivamente la scuola. Pare accertato che dal 1898 abbia trovato un impiego come
praticante d’ufficio presso un commerciante di farine tedesco (episodio di cui resta la
testimonianza di Saba nel tardo romanzo Ernesto rimasto incompiuto). Qualche anno dopo
(1903) si trasferisce a Pisa per “attendere quasi esclusivamente a la coltura” e in questa
città frequenta alcuni corsi universitari (archeologia, lingua tedesca, letteratura latina, storia
antica e moderna, filosofia morale e letteratura italiana) in qualità di uditore, poiché non
avendo portato a termine il liceo non può iscriversi regolarmente all’università. Saba
1
Storia e Cronistoria del Canzoniere si citerà sempre da SABA, 1964.
2
abbandona quasi subito il corso di letteratura italiana, perché come risulta da una sua lettera
al Tedeschi “il prof. Cian è un pedante che addormenta gli allievi con la sua voce tranquilla
e monotona di topo da biblioteca”, pochi mesi dopo lascia anche gli altri corsi e torna a
Trieste per curarsi da un attacco di neurastenia. Un anno dopo, precisamente nell’autunno
1904, si stabilisce a Firenze, dove intende prendere contatto con gli intellettuali del tempo
(vi conoscerà Papini e Prezzolini, futuri fondatori de «La Voce») e soprattutto “rimediare”
alla sua arretratezza culturale giovandosi del clima fertile e vivace della città toscana. Il
poeta subirà però nel capoluogo toscano delle profonde delusioni, lo apprendiamo da una
lettera al Tedeschi del 19 gennaio 1905: “La cricca letteraria di Firenze mi muove guerra ad
oltranza; usando naturalmente di tutti i mezzi della mediocrità. Il silenzio, le lodi peggiori
di ogni biasimo, la calunnia e via discorrendo” e da un sonetto di Autobiografia, che ci
testimonia la difficoltà d’inserimento del poeta:
A Giovanni Papini, alla famiglia
che fu poi della «Voce», io appena o mai
non piacqui. Ero fra lor di un’altra spece.
(10.12-4)
Nel periodo fiorentino Saba coltiva soprattutto l’interesse per il teatro, sia andando
agli spettacoli, sia abbozzando alcune tragedie (Il Masaccio, La giovanezza di Vittorio
Alfieri, Giacomo Leopardi) che probabilmente rimarranno incompiute; frequenta circoli
artistici e partecipa a serate di lettura pubblica in cui si presenta con il nuovo nome di
Umberto da Montereale. Sono di quegli anni la poesia Il borgo, pubblicata su «Il
lavoratore» del I maggio 1905 e Intorno a una cappella chiusa, pubblicata su «Poesia» nel
1908, ma probabilmente anteriore di almeno un anno. Risale sempre a questo periodo
l’incontro con Gabriele D’Annunzio (probabilmente settembre 1906) di cui Saba parlerà
molti anni dopo nello stesso sonetto di Autobiografia or ora ricordato in cui sono rievocati
momenti del suo soggiorno fiorentino:
3
Gabriele D’Annunzio alla Versiglia
vidi e conobbi; all’ospite fu assai
egli cortese, altro per me non fece.
(10.9-11)
e in due racconti più tardi, Il bianco immacolato signore e Versilia.
1.1.2 Cultura letteraria di Umberto Saba.
“Le origini triestine di Saba hanno avuto anche, come conseguenza, di farne, almeno agli
inizi, un arretrato. (Dal punto di vista della cultura, nascere a Trieste nel 1883 era come
nascere altrove nel 1850)” (SABA, 1964: 407). Questa è una delle prime frasi che
compaiono nella Cronistoria sabiana, ma il valore documentario di queste parole è stato
abbastanza recentemente ridimensionato, ad esempio da LAVAGETTO (1994: XIV-XVII) e
CASTELLANI (1981: XIV-XV); è stato dimostrato infatti che la cultura del giovane, anzi già
del Saba adolescente, non era poi così scarsa. Nelle lettere all’amico Amedeo Tedeschi
(epistolario di cui ci resta solo la parte sabiana) sono citati Carducci, D’Annunzio,
Rapisardi, De Sanctis, De Amicis, Eschilo, Petrarca, Shakespeare e Goethe e vi si
avvertono sensibili suggestioni wagneriane: tutte testimonianze di una cultura forse
modesta, ma non certo così arretrata come si poteva evincere dalle parole del poeta. Anche
Caccia ricordando l’esigua biblioteca posseduta dal poeta: Leopardi, Parini lirico, Foscolo,
Petrarca commentato da Leopardi, Manzoni, i sonetti di Shakespeare tradotti in italiano e
infine il Poema paradisiaco di D’Annunzio, fa notare che proprio la presenza di
quest’ultima opera del 1893 sta a testimoniare che “l’arretratezza triestina [...] non era poi
secolare” (CACCIA, 1965: 62). Saba avrebbe inoltre letto nella sua fanciullezza Verne, le
Mille e una notte e parecchi altri libri che non possedeva in proprio, ma che probabilmente
4
aveva a disposizione nella Biblioteca Civica dove spesso si recava
2
; a queste osservazioni
Caccia aggiunge: “sappiamo inoltre che libri sicuramente letti, come il Don Chisciotte, non
vengono da lui citati; quelle “sterminate letture”, e quella dichiarazione che nemmeno un
verso del Canzoniere è suo, costituiscono una forte tentazione alla ricerca” (CACCIA, 1965:
64-5). L’idea che ci facciamo della cultura del poeta è dunque in parte diversa da
quell’immagine di “arretrato triestino” ch’egli avrebbe voluto tramandarci.
1.1.3 Saba e i dubbi di natura ortografica e linguistica.
Se le lettere al Tedeschi, contemporanee alle prime prove poetiche sabiane,
attestano una certa sicurezza in materia ortografica e linguistica e la chiara volontà che i
suoi testi non subiscano modifica alcuna, col passare degli anni il poeta si fa sempre più
incerto e più bisognoso del consiglio e dell’aiuto di amici e parenti, come testimonia ad
esempio questa lettera:
Forse fra un mese riceverai il Canzoniere con l’incarico di farci in margine le annotazioni
linguistiche ed ortografiche (le artistiche saranno ugualmente gradite, ma...) (Lettera ad
Aldo Fortuna del 3 settembre 1918).
Negli anni successivi i dubbi del poeta si fanno sempre più insistenti, com’è
evidente da queste lettere alla figlia:
Non so se UN ORIENTALE si scrive con o senza l’apostrofo. Informati, e regolati di
conseguenza (SABA, 1976: 138-9).
Non so se si dice ‘in cima di quella scala, o a quella scala’. A me piace più di; se puoi
lascia; se no correggi (SABA, 1976: 140).
In anni ancora più tardi in occasione dell’edizione del Canzoniere 1951 Saba scrive:
2
Ce lo testimonia anche un tardo racconto Della Biblioteca Civica ovvero della gloria che risale al
1957 (ora in SABA, 1964: 248-50); è certamente questa la fonte da cui anche CACCIA, 1965 e poi 1967, ha
tratto le informazioni sulle letture giovanili del poeta.
5
le rimando le bozze, fino a pagina 224, che sono quelle che ho ricevute fino ad oggi. Non
sono un famoso correttore di bozze; ho trovati pochi errori (A Mario Rivoire, 2 settembre
1951).
Il poeta insiste quindi con forza sulla sua “incapacità” correttoria e su quelle che erano le
sue lacune in materia ortografica e grammaticale, ma se saremmo portati ad evidenziare
come la sua origine triestina possa essere considerata la causa principale di queste sue
incertezze, sarà bene concludere con un’osservazione autorevole che mette in parte in
discussione simili affermazioni:
[...] chi abbia familiarità con l’autore si rende conto che i dubbi, gli errori di battitura e i
refusi non corretti erano la conseguenza non tanto dell’origine triestina del poeta, che
avrebbe potuto trovare in un vocabolario o in un prontuario un antidoto immediato, bensì
del modo nel quale Saba sentiva la poesia, l’altrui, e la propria in particolare: emanazione
sonora dell’intimo essere, aura che circonda una personalità, e non oggetto autonomo,
combinazione di segni sul bianco della pagina (CASTELLANI, 1982: 321).
6
1.2 LA “CORONA” DI SONETTI.
1.2.1 Introduzione.
Nella sua eccellente trattazione sul sonetto del Novecento, Marazzini fa alcune
considerazioni sull’uso della “corona” di sonetti, che incontra proprio tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento una rinnovata fortuna. Oltre a “corone” di sonetti
“incentrate su di una tematica peccaminosa od erotica” (MARAZZINI, 1981: 197) quali le
Adultere di D’Annunzio o il Vas Luxuriae di Govoni, egli annovera anche i sonetti dedicati
a Prato e quelli dedicati ad Assisi nelle Città del silenzio, la Corona di Glauco
nell’Alcyone sempre di D’Annunzio, e la collana Toblack di Corazzini, serie di quattro
componimenti tra cui tre sonetti regolari, ed un componimento in 14 endecasillabi con rare
rime, che si trova nella raccolta L’amaro calice. Tuttavia la trattazione di Marazzini è
purtroppo incompleta, inoltre l’unico spazio ch’egli riserva a Saba in questo saggio è per
ricordare che “la corona di sonetti può essere usata anche per temi autobiografici, come nei
Versi militari di Saba”
3
.
Proprio per la particolarità che ci pare assumano le “corone” di sonetti in Saba nella
sua prima raccolta Poesie, ci è parso legittimo dare inizio a questo lavoro con alcune
considerazioni generali che riguardano i legami testuali e contenutistici nelle serie di
sonetti sabiani, e riservano altresì uno spazio non ristretto alla sorprendentemente ricca
produzione sonettistica della seconda metà dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento.
Riservare un breve sguardo alla storia recente non solo del sonetto, ma proprio della
“corona” di sonetti (cioè a partire da Carducci che fu colui che nell’Ottocento per primo la
recuperò) è in effetti quantomai interessante per mettere in evidenza quelle che sono le
3
MARAZZINI, 1981: 199.
7
caratteristiche peculiari ed uniche (ci pare) delle “corone” sabiane. È opportuno per questo
analizzare brevemente le caratteristiche di alcune “corone” di sonetti degli autori più
significativi, per avere un quadro più completo delle peculiarità e delle problematiche del
genere.
1.2.2 Saba.
Un discorso più preciso deve essere fatto naturalmente per la “corona” di sonetti in
Saba. Innanzitutto pare opportuno rilevare che nei Versi militari ci sono ben quattro
“corone” di sonetti e dunque su 27 sonetti ben 16 fanno parte di una “corona”. La prima
serie di sonetti Durante una marcia, è composta da otto testi, che raccontano le
peregrinazioni più mentali che fisiche del soldato Saba durante le esercitazioni militari.
Salta subito all’occhio il forte legame che stringe assieme questi componimenti, i quali
costituiscono il continuum diacronico di una narrazione. Una spia di quest’ultima
osservazione sono le assai numerose riprese lessicali tra un sonetto e quello successivo. Ad
esempio il termine acqua nel n.3 al v. 12: “udir quest’acqua e non fermarsi a bere”,
compare nell’incipit del n.4 al v.1: “Sei come a questa sete acqua che spanda”. Nel
componimento n.5 il “polveroso piano” del v.1 torna variato in “polverosi piani” al v.5 del
n.6. Ma più forte ancora è il legame tra il sonetto n.6 che reca al v.14: “ogni fatica mia,
ecco, si perde!” e l’incipit del n.7 che suona: “Si perde profondando entro l’uguale / buio”.
Il sonetto n.7 sembra in certo qual modo la conclusione della “corona”-racconto e anche se
il n.8 è tematicamente legato ai precedenti (per l’ovvia tematica della marcia, come già si
evince dal titolo) è significativo il fatto che sia stato poi espunto dalla “corona” già nel
Canzoniere manoscritto del 1919 e ricollocato in altra sede con il titolo Marcia notturna;
evidentemente il poeta sentiva l’esigenza di dare a questa serie di sonetti un forte carattere
d’insieme (cfr. tabella a p.311).
8
Formano un vero e proprio dittico i sonetti de Il capitano, dove il legame è
fortemente sottolineato dalla presenza di enjambement tra il v.14 del n.10 e il v.1 del n.11:
“[...] ma ben più che il fuoco // de l’Eterno la cruccia [...]”, rafforzato ulteriormente dalla
rima petrosa cagnazzi : pazzi, (11.2-3) che vuole essere un omaggio a quel Dante infernale,
già scomodato proprio nel paragone tra il capitano e Farinata al v.14 del n.10. Altra
“corona” è poi il dittico Ordine sparso, dove ancora una volta i due sonetti sono collegati
da ripresa lessicale tra il v.14 del n.12: “Così le bestie lo vedono, forse” e il v.1 del n.13:
“Le bestie per cui esso è casa, è letto”. Ma la più riuscita “corona” di sonetti ci pare
l’ultima, Il prigioniero. Qui, il n.20 e il n.21 non presentano un vero e proprio legame,
anche se il secondo sonetto inizia significativamente con la congiunzione avversativa ma,
in palese contrasto con quanto detto prima. Fortissimo è invece il legame tra il n.21 e il
n.22 e più che di legame bisogna parlare qui, come già per i due sonetti della “corona” Il
capitano, di continuazione tra un sonetto e quello successivo, dato che il periodo sintattico
che inizia con la seconda terzina del n.21 termina solo al v.2 del n.22:
Non per il male (invero lo creava
tale la mamma, da sentirla appena,
quella bastonatura su la schiena)
(21.12-4)
ma che un uomo, non Dio, non un temuto
morbo, gli desse un sì molesto affanno;
(22.1-2)
Ma non è solo nei Versi militari (o più correttamente tra quei 27 sonetti che costituiranno
la sezione nel Canzoniere definitivo) che si osservano queste caratteristiche. Nella raccolta
Poesie è presente anche un’altra “corona” di sonetti: Passeggiando la riviera di
Sant’Andrea; qui dal punto di vista contenutistico si denota la forte continuità tra il sonetto
VIa e VIb, in cui alla tematica della passeggiata solitaria si affianca quella della descrizione
9
dei rossi fumaioli della fabbriche che riporta il pensiero del poeta alla dantesca città di
Dite:
Spesso come un incendio quella fiamma
s’alza su la città tumultüante.
Io nel vederla ripensavo a Dante,
per gli odii miei a la città sua roggia,
(VIb 1-4)
Nel terzo sonetto della serie, la continuità tematica è meno marcata, ma la vista del luogo
(La riviera di Sant’Andrea appunto) riconduce il poeta ad un “amico” che talora lo
accompagnava durante le sue passeggiate e che pur “vecchio e stanco” sapeva tornare
“giovine” in certi momenti, così come anche il poeta nel sonetto VId riesce, quando “la
persona già sente piegare” (v.11), a riscattarsi grazie alla sua forza di volontà. Ed è proprio
qui tra il quarto e il quinto sonetto della serie che il legame tematico, assai debole, si
rafforza grazie a quello testuale, ed avviene inoltre ciò che si era già osservato per alcune
“corone” di sonetti dei Versi militari: un sonetto continua nel successivo:
D’uno scatto la sforza a ritornare
dritta e superba, quella in me tenace
volontà di giovarmi anche del male
(VId 12-4)
e de la pena, e de la nausea ieri
più paventata; volontà che in cima
de gli abissi mi regge, [...]
(VIe 1-3)
In effetti il quinto sonetto della serie, intessuto di una malinconia ancora più forte dei
precedenti, si pone come una parentesi tra quello che lo precede e quello che lo segue, il
VIf, che è caratterizzato invece da osservazioni e descrizioni paesaggistiche maggiormente
affini ai primi due sonetti della “corona”.
10
1.2.3 Carducci.
Nell’intera produzione poetica del Carducci, così come compare nell’edizione
Poesie di Giosuè Carducci (1850-1900)
4
da lui stesso curata per Zanichelli nel 1900,
compaiono 139 sonetti: tra questi si possono annoverare parecchie “corone” di sonetti. Nei
Levia Gravia (1868) c’è una “corona” di tre sonetti intitolata Nel sesto centenario di
Dante, nei Giambi ed Epodi (1882) ci sono le “corone” di sonetti Il Cesarismo (1868) e
Heu Pudor (1868-9), nelle Rime Nuove (1887) il Ça ira (1883) e la “corona” di sonetti
Omero e infine in Rime e Ritmi (1899) le due “corone” Nicola Pisano e Carlo Goldoni.
I sonetti Nel sesto centenario di Dante, sono componimenti in cui Carducci
immagina che Dante, “l’imperïal vate” in occasione del sesto centenario della sua nascita,
ancora colmo dell’antica rabbia, risorga a nuova vita e deluso dalla vista della sua Italia,
tuttora “serva e di dolore ostello” inviti i morti eroi del tempo passato a combattere per la
salvezza dell’amata patria. Sia tematicamente che formalmente paiono sonetti abbastanza
scolastici, ma quel che più conta in questa sede è notare che nonostante vi sia
indubbiamente un continuum nella narratio, rafforzato anche nel terzo sonetto - che segue
al discorso diretto pronunciato da Dante nel secondo - dall’attacco: “disse e movea” (v.1),
manca una precisa ripresa lessicale che funga da legame tra un sonetto e il successivo.
La “corona” Il cesarismo è composta da due sonetti scritti da Carducci “leggendo
l’introduzione alla vita di Cesare di Napoleone III” e vi si nota, al contrario di quella
precedente, la forte esigenza del poeta di collegare tra loro i due sonetti, infatti i vv.13-4
del primo sonetto: “-Trionfo! quattro nivei destrieri, / Divin trionfo, al divin Giulio
infrena!-”, sono ripresi con variatio ai vv.1-2 del sonetto successivo: “Quattro al dio
Giulio, o dio Trionfo, infrena, / Come al buon Furio già nivei cavalli”. È probabile che
4
Noi leggiamo l’opera carducciana nella diciottesima edizione: CARDUCCI, 1927.
11
questo avvenga perché nonostante l’unità tematica, manca in questi sonetti la continuità
narrativa.
Più interessanti tematicamente i tre sonetti della “corona” Heu pudor, che
perfettamente in linea con la tradizione giambica, attaccano fortemente la civiltà moderna
accusandola d’ipocrisia e di viltà e contrapponendo i ladri di oggi agli schietti ladri dei
tempi passati, di cui si erge a simbolo Vanni Fucci: questi, seppur ladro e bestemmiatore,
aveva almeno il coraggio delle sue azioni. Anche in questa “corona” non si riscontra alcuna
ripresa tra sonetti contigui, se non parzialmente tra il primo al v.14: “Questa terra di Fucci
e di Bonturi” e il secondo al v.1: “No. Vanni Fucci in faccia a Dio rubava”. A differenza
della “corona” precedente, manca la continuità narrativa e i tre sonetti potrebbero
altrettanto bene figurare distinti, pur essendo forte l’unità tematica e d’ispirazione.
Nella “corona” Omero nelle Rime Nuove, Carducci si pone ancora come laudator
temporis acti e canta la sua ammirazione per il grande poeta greco, concludendo però con
un finale a sorpresa: la terra è ormai un tribunale immondo in cui nessuno sarebbe disposto
a dare un soldo a Omero. Un legame lessicale è riscontrabile tra il v.14 del secondo
sonetto: “Perenne splenderà col sole Omero” e il v.1 del terzo sonetto: “E sempre a te co’l
sole [...]”, ma nonostante ciò, anche in questo caso non si assiste ad uno sviluppo narrativo,
giacché in particolare il terzo sonetto in cui Carducci rievoca alcuni passi dell’Odissea, si
distacca dai precedenti e prepara a quel finale a sorpresa di cui si è appena detto.
Il Ça ira è una serie di dodici sonetti dove il poeta ricorda i tragici eventi del 1792,
basandosi soprattutto su testimonianze libresche. Pur trattandosi di una rivisitazione di
eventi diacronicamente disposti, non c’è nessun legame lessicale tra sonetti contigui, anzi
essi sono singole scene in cui è fissato un momento determinato e preciso. Tuttavia anche
la lezione del Ça ira, sarà fondamentale per alcuni sonetti sabiani in cui la narratività è
completamente assente e in cui predomina invece il gusto del bozzetto (cfr. p.116).
12
Nella “corona” della raccolta Rime e Ritmi, Nicola Pisano c’è un lieve legame
lessicale tra il secondo e il terzo sonetto: “Il ciel d’intorno, ei vide su l’altare / La nova e
santa Venere d’Italia” (II 13-4) e “E da le spalle d’Ampelo a l’altare / Traversando fu visto
Dïoniso” (III 1-2), mentre non si notano collegamenti diretti tra sonetto e sonetto nella
“corona” Carlo Goldoni, in cui ciascuno dei quattro componimenti rievoca un momento
della vita del grande commediografo, senza che sia marcata la continuità narrativa.
1.2.4 Heine-Zendrini.
1.2.4.1 Testimonianze di Saba e dei critici.
Che l’affinità fra Saba e Heinrich Heine fosse molto forte e risalisse già ai primi
anni dell’apprendistato poetico sabiano ce lo testimonia il poeta stesso nella sua Storia e
cronistoria del Canzoniere dove scrive:
Non è un mistero che Saba ha amato moltissimo Heine. Lo ha sempre considerato uno dei
più grandi poeti dell’Ottocento, superiore a volte, come lirico puro, allo stesso Goethe
(SABA, 1964: 480-1).
In queste stesse pagine Saba ammette poi di essere dotato di “una vena di nordica intimità e
psicologia remota dalla nostra maggiore tradizione” e conclude il suo discorso in maniera
assai significativa, dichiarando cioè riguardo alle poesie dell’Amorosa spina
5
che:
È certamente Saba. Ma potrebbe anche benissimo essere - sentita, non tradotta, in italiano -
una poesia del Buch der Lieder. E forse Saba non l’avrebbe scritta se non avesse letto
quell’altro Canzoniere con l’amore che solo una misteriosa affinità può rendere fecondo
(SABA, 1964: 481-2).
5
Si è occupato recentemente proprio dei contenuti e delle atmosfere rintracciabili sia in Heine che
nel Saba dell’Amorosa spina PREZIOSI (1991: 175-85).
13
Sul fatto che poi quest’affinità fosse così misteriosa non siamo tanto d’accordo, visto che la
parentela “biografica” fra i due autori è più che mai evidente. Ebreo (figlio di un
commerciante) anche Heine, come Saba non porterà a termine il liceo e si iscriverà in
seguito ad un Istituto Superiore di commercio. Vivrà poi ad Amburgo da suo zio, ricco
banchiere e commerciante, che si occuperà di lui dandogli il suo sostegno economico
(come fece per Saba la zia Regina) e permettendogli di iscriversi all’Università, dove
accanto a giurisprudenza studierà anche letteratura, filosofia e storia.
Anche nelle Scorciatoie e raccontini Heine è citato più volte, in particolare è interessante la
citazione in cui Saba scrive che “[...] il BUCH DER LIEDER - scrisse un francese
antisemita - sarà letto fino che vi saranno giovani per amare fanciulle” (SABA, 1993: 55) e
un’altra in cui scrive: “I grandi autori tedeschi - Goethe, Heine, Nietzsche; [...]” (SABA,
1993: 64). Il critico che per primo ha affermato che “la struttura della raccolta di Saba si
richiamava al Canzoniere di Heine” è stato Muscetta. Quello che a noi più interessa è che
del Buch der lieder heiniano, “fu la versione di Bernardino Zendrini, che Saba conobbe (ne
possedeva un’edizione popolare [...]: Sesto San Giovanni, Mondello 1911) [...] fu decisiva
[...] proprio questa lezione di Heine [...]” (MUSCETTA, 1987: XXX).
1.2.4.2 Heine-Zendrini e la “corona” di sonetti.
“Il Canzoniere Heine-Zendrini, ordinato dal traduttore secondo scelte organiche dai
vari libri del poeta tedesco, ma secondo le successioni di serie cicliche e cronologiche, con
prologhi ed epiloghi, fu il vero modello del Canzoniere sabiano” (MUSCETTA, 1987: XXX),
ecco perché pare importante fare un accenno alla pur esigua sezione intitolata Sonetti che
compare nell’edizione del Canzoniere dello Zendrini
6
. In questa sezione, rientrano 22
6
Noi leggiamo il Canzoniere di Heine in ZENDRINI, 1878.
14
sonetti, dei quali tre fanno parte della “corona” Ad A. G. Schlegel, due della “corona” A
mia madre e ben undici della “corona” A C. S. C’è da rilevare che una sezione Sonetti non
compariva nell’edizione di Heine e che all’interno della “corona” A C. S. compaiono dei
sonetti che originariamente non ne facevano parte. Quindi, è facile dedurre che queste
“corone” non sono che un insieme di sonetti riuniti artificialmente.
1.2.5 Betteloni.
È autore di parecchie “corone” di sonetti anche Betteloni, un poeta spesso
dimenticato e trascurato dalla critica, perché difficilmente inquadrabile all’interno di una
corrente o di un movimento letterario
7
, il quale però per certe caratteristiche linguistiche
della sua “poesia che nasce dalla viva realtà quotidiana [e introduce] da noi quei modi
poetici che tanto l’avevano colpito giovinetto nello Heine” (BONFANTINI, 1946: XV) può
essere avvicinato a Saba. Nel volume Poesie edite e inedite (BETTELONI, 1946) curato da
Mario Bonfantini per Mondadori, che raccoglie tutta la produzione poetica del Betteloni,
compaiono quattro “corone” di sonetti: Per una signora composta da 50 sonetti, Per un
amico estinto composta da 3 sonetti, L’illusione composta da 3 sonetti e infine Aprile
nuovo composta da 3 sonetti.
I sonetti Per una signora, costituiscono la terza parte della raccolta poetica In
primavera del 1869; tuttavia più che di una sezione autonoma di componimenti tra loro
slegati, si tratta davvero di una “corona” di sonetti fortemente omogenea, con un suo
svolgimento diacronico, talora interrotto da poesie che costituiscono una sorta di parentesi
nel continuum della narratio. Sono frequenti i legami lessicali fra sonetti contigui, come ad
7
“C’è chi lo collega alla poesia della Scapigliatura e, più largamente, alla cosidetta [sic.] «scuola
verista» [...] c’è chi lo fa precursore della moderna poesia crepuscolare e decadentista [...] altri infine gli
assegna un posto a sé, parlando di lui come d’un «classico moderno»” (BONFANTINI, 1946: XI-II).
15
esempio fra il secondo e il terzo:
Ed è che noi, più che dovunque, in chiesa
A vero amor Bellezza ne commova
(II 2-4)
Ivi però non più che in altro loco,
Che al passeggio o al teatro intimo foco
Femmina che ne piaccia in noi produce.
(II 12-4)
E non fu in chiesa ma in teatro appunto
Che te, donna leggiadra, io vidi pria.
(III 1-2)
dove in incipit del secondo sonetto sono ripresi i luoghi in cui si possono conoscere le
donne. Un legame meno forte, ma comunque significativo è tra i sonetti VIII e IX:
La mente mia più alto non arriva;
(VIII 12)
Quando la mente giovinetta apprese
(IX 1)
oppure tra i sonetti XXX e XXXI:
Veramente non è gran meraviglia.
(XXX 14)
Ma invece grande meraviglia è questa,
(XXXI 1)
Un legame più forte sotto il profilo narrativo sussiste invece tra i sonetti XXXIII e XXXIV:
Anzi più ancor, mi par ch’io l’ora attenda,
Nella qual tosto ai piedi tuoi mi renda,
Nella qual tu mi dêsti già parola
Di ricevermi alfin libera e sola:
E la sera prefissa è questa appunto,
E il dolce istante sarà tosto giunto.
(XXXIII 9-14)
È l’ora infatti e a la tua porta io suono
(XXXIV 1)