valutazione degli assets alla conseguente quantificazione dei rendimenti; delle precauzioni di cui
bisogna tenere conto, sulla base di un’attenta analisi dei rischi, nelle analisi comparate degli
score tra diversi FPE; delle difficoltà nel costruire un benchmark di riferimento sui mercati
regolamentati. Il CAPITOLO 5 passa in rassegna il processo di screening e valutazione
dell’operato dei gestori di FPE, immedesimandosi nei panni di investitori istituzionali, comuni o
di fondi che investono su più fondi. La valutazione prettamente qualitativa viene esaminata nel
quadro di giudizio e di due diligence relativa alle performance passate e alle strategie future
d’investimento, con un approccio molto critico anche nella disamina di come si garantisca
un’eventuale continuità tra queste. La valutazione quantitativa si sofferma invece
maggiormente sulla due diligence dei costi che il fondo prospetta, in particolare di quelli a
carico dei sottoscrittori, di cui si valuta la consistenza e trasparenza in termini di pertinenza
d’imputazione, la fondatezza sulla base di benchmark di mercato e degli aspetti competitivi
distintivi del management team del fondo. Il CAPITOLO 6 propone diversi scenari di conflitto
d’interesse, sia tra sottoscrittori e gestori del fondo, che tra questi ultimi e le società oggetto
d’investimento, avendo cura di segnalare con quali misure di monitoraggio e corporate
governance (clausole contrattuali e patti parasociali) la best practice tenti di sopprimerli.
La terza parte, con diversi livelli d’approfondimento, concerne l’evoluzione storico normativa di
alcune economie avanzate e macroregioni prese in esame, i relativi cambiamenti istituzionali
significativi e l’evoluzione del mercato di riferimento, con riguardo verso l’impatto reciproco
indotto dalla variazione di tali determinanti. L’analisi sarà particolarmente concentrata sugli
effetti che detti fattori, e per finire l’attività di PE, ha sull’economia reale, senza trascurare gli
aspetti più critici e polemici che i relativi operatori sollevano nell’opinione pubblica.
Il CAPITOLO 7 entra in merito allo sviluppo del PE nel mercato più maturo: gli USA. Il tema
dominante sarà spiegare il motivo della crescita così pronunciata del venture capital, a partire
dagli incentivi normativi, ai processi di trasferimento tecnologico, per poi ripercorrere il ruolo
storico promotore da parte di specifiche realtà (Silicon Valley) e investitori (endowments).
Infine saranno esposte alcune indicazioni circa i recenti sviluppi di mercato e i relativi impatti
sull’economia reale. La crisi derivante dallo scoppio della bolla tecnologica, le controversie
etiche sui major player PE, in maggioranza di origine americana, anche in forza
dell’implicazione di questi nella crisi subprime, il rapporto con le autorità politiche saranno
trattati in separata sede nel CAPITOLO 9. Nel CAPITOLO 8 viene ripercorsa l’evoluzione
storico-normativa italiana in modo abbastanza dettagliato, soffermandosi anche sulle cause del
ritardo nella maturazione del mercato rispetto alle realtà anglosassoni, congiuntamente ai
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cambiamenti istituzionali di rilievo: verrà considerato la riforma del diritto societario, il regime
fiscale di pertinenza, la riforma del regime di previdenza (Tfr), la finanziaria 2008, la nascita ed
il ruolo di AIFI, della borsa italiana fino alla recente nascita del MAC (Mercato alternativo del
Capitale) e il relativo impatto sul PE. Dopo una breve analisi di mercato sul contesto europeo,
che funge da liaison e benchmark tra il mercato americano e quello italiano, seguirà un
dettagliato esposto sui dati di mercato e uno studio d’impatto sulle aziende toccate
dall’intervento degli operatori PE, sia a livello europeo, che italiano.. L’ultimo capitolo, oltre a
trattare quanto già accennato in riferimento agli USA, analizza il ruolo del PE come attore
promotore e sfruttatore di fenomeni tipici della globalizzazione, in un contesto di sempre
maggior mobilità dei capitali, tendenza all’integrazione economica e alla concentrazione
finanziaria. Verranno esposte le caratteristiche tipiche dei FPE che lo avvantaggiano nello
scenario globalizzato, si parlerà di Basilea II, delle tendenze di fondo nel settore bancario, delle
prospettive di sviluppo del settore finanziario di cui anche il PE è parte attiva, spingendo la
riflessione economica anche oltre l’ambito di esclusiva appartenenza del PE. Non si trascurerà
nemmeno un’interpretazione di coinvolgimento e strumentalizzazione del PE, in chiave di
politica economica, con riferimento anche ad economie emergenti. Infine la ricerca si chiuderà
sulle accuse di cui il mondo degli investimenti alternativi è passibile. Basandosi sul
coinvolgimento del PE nella crisi subprime, l’analisi si estenderà in seguito a tutte le altre
pratiche speculatrici sospette di cui tale settore viene accusato. Infine si trarranno le opportune
conclusioni, senza trascurare ambiti di ricerca che la presente tesi stimola o che l’autore intende
sviluppare, con riferimento alla possibilità di analizzare l’operatività di un fondo chiuso di
diritto italiano e una sua operazione di buyout.
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PARTE I ASPETTI TECNICO-DEFINITORI DELL'ASSET CLASS
CAPITOLO 1 NOMENCLATURE E DEFINIZIONI STANDARDIZZATE
Il settore del private equity (PE) in quanto attività, secondo la definizione stricto sensu di
seguito esposta, esiste nelle economie avanzate da circa vent'anni. Nella cultura finanziaria
anglosassone, incentrata più sugli intermediari che sulle banche, il private equity è ancora più
precoce e maturo. Quando se ne parla si ha tuttavia la sensazione di riferirsi a qualcosa di nuovo
e molto attuale. Questo perché si tratta di un ambito della finanza in cui solo negli ultimi anni
hanno cominciato a confluire grossi tagli di capitale, richiamando l'interesse dei media e
dell'opinione pubblica e proiettando anche l'orizzonte d'investimento sul piano internazionale in
modo consistente. Si è reso dunque necessario anche un certo uniformamento della
nomenclatura tra le associazioni di categoria rispetto a quelle più rappresentative a livello
globale, ai fini di un miglior coordinamento. Le associazioni di categoria relative ai mercati più
maturi, sono negli USA, la NVCA (National Venture Capital Association), nel Regno Unito, la
BVCA, nell'Europa continentale, l'EVCA, quest'ultima conta una fitta rete di collaborazione con
advisor e associazioni di categoria operanti sui sottostanti territori nazionali. Conseguenza
dell'adozione di una nomenclatura standard, è che, per evitare confusioni, i termini tecnici
rimangono spesso e volentieri, come si constaterà nel seguito, in lingua originale (inglese).
Dare una definizione completa ed esaustiva di private equity non è semplice, anche perché si
tratta di un settore soggetto a forti cambiamenti. L'AIFI, Associazione Italiana Finanziarie
d'Investimento ora rinominata Associazione Italiana del Private Equity e del Venture Capital,
propone una definizione nei seguenti termini: “apporto di risorse finanziarie da parte di operatori
specializzati, sottoforma di partecipazione al capitale azionario o di sottoscrizione di titoli
obbligazionari convertibili in azioni, per un arco temporale medio - lungo, in aziende non
quotate” (Bettonica-Liera, 2005). Si potrebbe definirlo sinteticamente come “investimento
istituzionale nel capitale di rischio di società non quotate”, senza specificarne le dimensioni.
Infatti, benché sia innegabile che il private equity sia una valida alternativa ai mercati
regolamentati per il reperimento di capitale (e non solo) da parte delle piccole medie imprese
(PMI), il valore aggiunto potenzialmente ottenibile dal contributo professionale degli operatori
di settore è tale da ottenere la fiducia anche da società di grandi dimensioni. Si usa il termine di
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“big deal” o “large buy-out” per caratterizzare tali maxi-operazioni. Recentemente operatori
(fondi) di private equity (di seguito abbreviati FPE), hanno raccolto quote di capitale tanto
ingenti da partecipare anche ad acquisizioni di grandi gruppi industriali come FiatAvio, Seat,
Fila, Sisal, Piaggio, Gardaland per fare alcuni nomi noti, relativi a operazioni recenti avvenute in
Italia, o Burger King, Equity Office per fare un esempio per gli USA. Ma negli Stati Uniti, così
come in Inghilterra, la diffusione di big deal è molto più precoce che in Italia. L'operazione di
KKR su Nabisco è un esempio tra tanti di grandi operazioni magistrali già diffusesi negli anni
Ottanta. E' chiaro che ottenere la fiducia di grandi FPE è anche un indicatore di maturità del
settore nel mercato di riferimento. Non è un caso che in Italia, tali operazioni hanno conosciuto i
primi sviluppi solo negli ultimi anni, segno di un gap nella maturazione del settore rispetto alle
economie anglosassoni. E' anche vero che “chi arriva dopo fa più in fretta”, ossia salta molte
tappe evoluzionistiche colmando più rapidamente il divario. Bisogna peraltro riconoscere che la
struttura dell'economia italiana, composta prevalentemente da PMI, ha fatto sì che i FPE si siano
soprattutto concentrati su queste. Parlano chiaro in questo senso le statistiche presentate da
Francesco Bellotti, vicepresidente di Confindustria, in occasione della presentazione del
Mercato Alternativo del Capitale a Milano ad inizio giugno 2007: 20'000 PME (80%) con un
fatturato tra i 5-50 milioni di euro e 4000 grandi imprese (20%) con un fatturato oltre i 50
milioni.
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CAPITOLO 2 LE FASI DELL'ATTIVITÀ DI PRIVATE EQUITY
2.1 Raccolta
La raccolta di capitali, anche nota nella letteratura finanziaria come fundraising, è un processo
estremamente delicato, che impegna attivamente i costituenti del fondo da un minimo di 6 mesi
ad un massimo di 18-24 mesi. L'avviamento del fondo dipende strettamente dall'esito della
raccolta, come per un'azienda start-up alla ricerca di un venture capitalist. Se le cose vanno
male, si rischia, oltre a perdere un anno di lavoro, di non poter rendere operativo il fondo e di
marchiarsi in negativo la reputazione con conseguenze anche per l'avviamento di altri eventuali
fondi in futuro. L'EVCA struttura il processo di raccolta in sette fasi. Nella prima viene
identificato il mercato target a cui rivolgersi per la raccolta. Nella fase successiva di pre-
marketing si stabiliscono i contatti con i primi investitori istituzionali al fine di conquistarsi la
loro stima e di avviare un circolo virtuoso di referenze che, una volta consolidato sul piano
nazionale, può permettere di rivolgersi anche ad investitori internazionali (se inclusi tra gli
investitori target). Un ruolo di spicco nel reperimento d’importanti investitori aldilà del mercato
locale, specie per i piccoli fondi chiusi e per gli operatori che gestiscono per la prima volta un
FPE, è ricoperto dai cosiddetti gatekeepers, in altre parole advisor, gestori di portafogli di fondi
o manager di grandi investitori istituzionali che, mettendo in atto procedure di due diligence
conformi alla best practice internazionale, forniscono le necessarie garanzie oggettive oltre che
reputazionali, fermo restando che non sono vincolati da clausole di corresponsabilità e la società
di gestione del fondo rimane interamente responsabile di fronte ai propri sottoscrittori. Alcuni
operatori private equity esternalizzano integralmente il processo di raccolta a tali istituzioni, che
vantano know-how specifico nell’organizzazione del fundraising e la capacità di accesso ad
investitori istituzionali su scala mondiale.
La terza fase consiste nel conferire accuratamente una struttura al fondo sotto un profilo tecnico,
ad esempio definendo la propria politica d'investimento, il framework legale e gli aspetti di
carattere fiscale. Nella quarta fase si prepara il placement memorandum, un fascicolo che
rappresenta il biglietto da visita per gli investitori, una sorta di business plan e spesso la prima e
ultima opportunità di accesso ai capitali. Infatti, in caso di rifiuto categorico, al posto del circolo
virtuoso sopra citato, se ne innescherebbe uno vizioso. Per questo la bontà della politica
d'investimento, della formula imprenditoriale, l'individuazione di effettivi fattori critici di
successo o vantaggi competitivi elencati nel documento possono essere vanificati da una
strategia di marketing mal pianificata. Nel placement memorandum si devono riportare i track
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records evidenziando come il valore aggiunto conferito dal fondo abbia influito sui risultati e
come s’intenda mantenere e/o migliorare il rendimento degli investimenti in seno al nascente
fondo. Oltre a sinteticità e trasparenza, è importante che, sul piano della completezza tecnica,
nel fascicolo siano incluse informazioni circa la dimensione del fondo, la dimensione delle
quote, la durata del fondo, le politiche di distribuzione dei proventi, le management fees, i costi
di organizzazione e struttura e qualsiasi altra natura di costi ordinari previsti, l'attività di
reporting verso gli investitori.
La quinta fase consiste appunto nell'organizzare gli incontri con gli investitori istituzionali (di
norma tutti individuali, in gergo tecnico detti one-to-one) per sottoporre il placement
memorandum. In caso di feed-back positivo, segue la fase di preparazione della documentazione
legale, che include i contratti d'approvazione delle direttrici del placement memorandum e gli
atti di sottoscrizione delle quote del fondo. La settima ed ultima fase consiste nella firma delle
controparti che avvalla la documentazione legale concordata e rappresenta anche la chiusura del
processo di fundraising. Nei paesi anglosassoni i fondi di fondi di private equità (FoFs), che per
missione istituzionale devono investire in FPE, i fondi pensione e le istituzioni assicurative
costituiscono i maggiori investitori istituzionali. Nelle economie bancocentriche (Europa
continentale e Giappone e Cina), sono le istituzioni bancarie a ricoprire storicamente un ruolo
preponderante. Ciononostante si assiste ad un certo fenomeno di convergenza tra i modelli. Tali
configurazioni dipendono anche largamente dal contesto normativo di riferimento, per quanto
attiene al grado di privatizzazione e regolamentazione delle istituzioni assicurative e di
previsione sociale. Risultano vincolanti e decisivi ad esempio regolamentazioni specifiche sulla
quota massima destinabile agli investimenti alternativi, di cui il private equity ne è parte,
nell'asset allocation dei patrimoni gestiti da tali investitori istituzionali.
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2.2 Deal flow
La fase di deal flow consiste nella ricerca mirata di opportunità d'investimento teoricamente in
coerenza con la politica d'investimento. Per aver successo nella ricerca e selezione degli
investimenti, è fondamentale costituire un legame capillare con il territorio del mercato target,
attraverso una rete di conoscenze dirette d’industriali, imprenditori, figure politiche, o
indirettamente, tramite ricorso a intermediari specializzati, come studi legali, commercialisti,
società di advisory o di revisione, che selezionano le imprese adatte a interventi da parte di FPE
(deal flow proprietario). Altra possibilità meno prestigiosa si concreta nel ricorso, o meglio, nel
concorso ad aste organizzate, con lo svantaggio di funzionare attraverso la messa all'asta delle
potenziali società target, per cui la formazione del prezzo è di per sé competitiva (deal flow
competitivo). Non è un caso che, i FPE che troppo ricorrono per il proprio deal flow ad aste
organizzate da intermediari, e che dunque hanno un costo d'entrata per investimento
intrinsecamente superiore, registrino rendimenti inferiori a quelli realizzabili da gestori
costituitesi una cosiddetta “deal flow pipeline” di tipo proprietario. I migliori fondi di PE hanno,
infatti, una componente di deal flow proprietario superiore alla media degli operatori. Con “deal
flow pipeline” di tipo proprietario s'intende la costruzione negli anni di un capillare e
qualitativo network di conoscenze di imprenditori e managers. Per stabilire i primi contatti, i
canali possono essere il “porta a porta”, attuabile ad esempio tramite ricerca mirata d’imprese
per settore, realizzabile sul sito del Registro di Commercio o altre banche dati a pagamento, la
collaborazione con le tipologie di professionisti prima menzionate, la conoscenza di persone
chiave in seno ad associazioni di categoria, istituzioni politiche locali, distretti industriali.
Possono anche essere utili la frequentazione di fiere specialistiche, ambienti di prestigio riservati
che riuniscono tendenzialmente la classe dirigente (non solo in senso economico) come i vari
Clubs e le associazioni industriali, circoli culturali o sportivi, o altre attività tipiche gradite ed
accessibili soprattutto da individui facoltosi. A proposito di persone facoltose, si sta di recente
instaurando uno stretto legame sinergico tra FPE e private banking: i consulenti di tale settore
sono, infatti, a stretto contatto con high net worth individuals, ovvero potenziali investitori nel
PE, ma anche dirigenti d'aziende potenziali oggetto d'investimento (vedi sezione 9.2.4).
Un fattore endogeno che invece limita il deal flow nel contesto italiano è la cultura
imprenditoriale strettamente legata a una gestione famigliare dell'impresa che vede di mal
occhio l'insediamento di un socio esterno che, anche se di minoranza, richiede una
modernizzazione della corporate governance, assegnandosi forti poteri decisionali e proponendo
una distante cultura manageriale che si scinde nettamente dall'assetto proprietario, ed omette
qualsivoglia commistione d'interessi individuali e/o famigliari dagli interessi aziendali.
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2.3 Investimento
Le operazioni d'investimento nel private equity sono classificate in modo funzionale alla
tipologia d'intervento sulla società target. La letteratura è contraddistinta da due correnti in
proposito: l'approccio classico, più analitico ma anche più ambiguo, perché contraddistinto da
troppe categorie definite in modo stringente, e la nuova concezione, più generale, trasparente e
netta.
2.3.1 L'approccio classico
L'approccio classico di segmentazione di mercato suddivide le tipologie d'investimento in
conformità con lo stadio di sviluppo (stage) in cui si situa l'impresa target, nell'ambito del
relativo ciclo di vita. Tale approccio è anche quello più diffuso come standard internazionale sia
a livello di rilevazioni statistiche, che d’impiego terminologico corrente da parte degli operatori,
delle associazioni di categoria e dei centri di ricerca.
Le primissime fasi d'avvio di una nuova attività sono assegnate all'early stage financing,
suddiviso in interventi di seed financing e start-up financing. Il primo si rivolge all'incubazione
dell'idea imprenditoriale, al sostegno finanziario nel promuovere ricerca scientifica applicata
con sbocchi effettivi di mercato, alla consulenza per associare all'idea imprenditoriale
l'appropriata formula imprenditoriale, una volta considerata la posizione competitiva. Con start-
up financing si designa il finanziamento dell'avvio vero e proprio dell'attività. Potremmo
simbolicamente definirlo sostegno al momento dell'apertura degli uffici e/o dell'avvio degli
stabilimenti produttivi, articolato con particolare enfasi nella gestione e monitoraggio degli
aspetti commerciali, direzionali e organizzativi.
In seguito, qualora la società target sia già avviata, si utilizzano i termini di expansion financing
o development capital per designare l'implementazione di piani industriali orientati ad
aggiudicarsi nuove quote di mercato, mettendo in atto piani di sviluppo su nuove brand di
prodotti, migliorando i servizi o la linea di prodotto originale o concludendo acquisizioni
strategiche. Il percorso di crescita può essere seguito dal fondo nel concordato intento di
accompagnare l'azienda fino alla quotazione in borsa: è il caso delle operazioni di bridge
financing.
Con il termine replacement capital s’intende invece un investimento finalizzato ad
ammortizzare e sostenere, di regola tramite partecipazioni di minoranza, cambiamenti più o
meno significativi, nell'assetto proprietario. E' il caso di un socio in disaccordo, o con problemi
di salute, o di età avanzata e senza figli, la cui dismissione di quote sociali, viene rimpiazzata
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temporaneamente dal FPE. In Italia è il tipico caso dell'impresa a conduzione famigliare che
intende risolvere le difficoltà del trasferimento generazionale della proprietà, affiancando alla
propria prole, senza consolidata esperienza indipendente, consulenti fidati (vista l'implicazione
in termini finanziari) e specializzati, garanti della prosecuzione dinastica della famiglia
industriale.
Si parla invece di turnaround con riferimento ad aziende in crisi che necessitano di una radicale
ristrutturazione. Tale genere di crisi può anche essere motivo di dissensi ed uscita dal capitale
sociale da parte di alcuni soci. Per questo, interventi di turnaround possono essere
complementari e simultanei a operazioni di replacement.
Operazioni più radicali, finalizzate al rilevamento di una quota di maggioranza sulla proprietà
aziendale, da parte del management preesistente, vengono denominate management buy-out
(MBO). Spesso tali operazioni per riuscire devono essere supportate da una consistente leva
finanziaria: si parla in questo caso anche di leverage buy-out (LBO). Talvolta l'operazione è
condotta invece a favore di un team di manager esterni che, dopo essersi introdotti nella
gestione a fianco del FPE e/o del management precedente, rileva una partecipazione qualificata
dell'impresa sostituendosi al management precedente: si parla in questo caso di management
buy-in (MBI).
2.3.2 La nuova concezione
La nuova concezione nasce dall'esigenza di semplificazione, visti i limiti della schematizzazione
classica, che definisce in modo troppo restrittivo ed esclusivo la tipologia di operazioni. Infatti,
la crescente complessità nella dinamica di sviluppo dei nuovi settori merceologici, fa sì che, ad
esempio, start-up nel settore ICT sono in pochi mesi pronte per la quotazione in borsa. Dunque
si parla contemporaneamente sia di start-up financing che di bridge financing. Altri esempi di
commistione tra tipologie sono già stati sottoposti nel precedente paragrafo. A questi si aggiunge
anche la crescente sofisticazione degli strumenti d'ingegneria finanziaria che rende imprecise
distinzioni tra buy-out e leverage buy-out (debito mezzanino convertibile in equity).
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Figura 1 - Segmentazione del mercato Private Equity
Fonte: AIFI, elaborazione autore
La nuova classificazione riduce a tre le tipologie d'investimento: si parla di finanziamento
dell'avvio, per quanto attiene all'ambito d'intervento del venture capital e di finanziamento dello
sviluppo, così come di finanziamento del cambiamento o del ripensamento, per l'area
d'intervento stricto sensu del private equity. La fase di avvio concerne l'early stage, in altre
parole interventi in capitale di rischio di aziende interessate a settori fortemente innovativi,
soggette ad un profilo di rischio differenziato cronologicamente, sui costi di ricerca e sviluppo
(seed financing) prima dell'avvio, sul rischio di produzione all'avvio (start-up financing) a cui si
aggiunge anche il rischio di marketing nella fase immediatamente successiva (first-stage
financing). In generale il venture capital, dal punto di vista dei neoimprenditori, è soggetto
anche ai seguenti tipi di rischio:
z technological risk: rischio che il prodotto/servizio offerto cada in obsolescenza;
z timing risk: rischio che compaia un prodotto sostitutivo e/o simile in tempi più brevi del
previsto;
z refinancing risk: rischio di mancanza di capitali per portare e/o mantenere sul mercato il
prodotto;
z risk of lacking management qualities: rischio che il neoimprenditore, capace di inventare
un nuovo prodotto, non abbia però competenze decisionali.
I fondi di venture capital si propongono per effettuare consulenza circa i primi due rischi e
nell'obbiettivo di supplire agli ultimi due.
Nella classe degli investimenti per lo sviluppo rientrano quei finanziamenti necessari ad
alimentare un processo di crescita accelerata richiesto dal mercato (second-stage financing) o di
consolidamento dello sviluppo (third-stage financing) caratterizzati da un profilo di rischio più
contenuto rispetto alle fasi di avvio, anche perché il superamento delle stesse permette di
prevedere in modo relativamente preciso l'andamento futuro dei profitti.
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