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contribuiscono all’alta prevalenza di soggetti affetti da insufficienza cardiaca (1-2% 
della popolazione occidentale, 10% della popolazione anziana). 
I dati dimostrano che circa il 50% dei pazienti muore entro cinque anni, con una media 
annuale negli USA di circa 250.000 pazienti ed in Europa di circa 300.000 pazienti
 
[Lloyd-Jones D et al, 2009]. 
L’insufficienza cardiaca, inoltre, costituisce la principale causa dei ricoveri ospedalieri, 
con conseguenti enormi costi sanitari: si stima, infatti, che tali ricoveri rappresentino, 
nel mondo occidentale, circa il 2% del bilancio sanitario [Mudd JO et al, 2008]. 
Se negli ultimi trenta anni si è assistito ad una diminuzione della prevalenza delle 
malattie cardiovascolari, al contrario, per quanto riguarda lo scompenso cardiaco, si è 
registrato un aumento. In Italia, ad esempio, dal 1996 al 2001 sono diminuiti i ricoveri 
nosocomiali per eventi coronarici maggiori, mentre quelli per scompenso cardiaco 
risultano in progressiva crescita (Figura 1.1). 
 
 
Figura 1.1: Andamento nel tempo dei ricoveri ospedalieri per eventi 
coronarici e per insufficienza cardiaca in Italia 
(www.ministerodellasalute.it). 
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1.1.2 Aspetti clinici 
Lo scompenso cardiaco è una condizione fisiopatologica caratterizzata da un’anomalia 
della funzione cardiaca per cui il cuore non è in grado di garantire una gittata sistolica 
adeguata alle necessità metaboliche dei tessuti, oppure riesce a farlo con un aumento 
eccessivo del volume diastolico [Braunwald E et al, 1982]. Quando si esauriscono i 
meccanismi di compenso, il quadro assume le caratteristiche cliniche delle cardiopatie 
terminali, che sono caratterizzate da un basso performance status, dalla mancata 
risposta alla terapia medica e dall’impossibilità di interventi chirurgici conservativi. Da 
un punto di vista clinico, l’insufficienza cardiaca è caratterizzata da un variabile grado 
di dispnea, affaticamento, diminuita capacità allo sforzo fisico e ritenzione idrica che 
favorisce la comparsa di edemi polmonari e/o periferici. 
 
1.1.3 Classificazione 
La più nota classificazione dello scompenso cardiaco è quella della New York Heart 
Association (NYHA). Tale classificazione si basa su un criterio funzionale, ossia sulla 
presenza e sulla gravità del sintomo dispnea percepito dal paziente e rilevato dal clinico, 
per diverse entità di sforzo. Questa classificazione NYHA prevede quattro classi di 
gravità crescente, con reversibilità possibile e trattamenti terapeutici che 
sostanzialmente non differiscono tra loro: 
Classe I. L’attività fisica abituale non determina dispnea, astenia, 
palpitazioni. 
Classe II. Lieve limitazione dell’attività fisica abituale per la comparsa di 
dispnea, affaticamento e palpitazioni. Benessere a riposo. 
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Classe III. Grave limitazione dell’attività fisica. I sintomi di dispnea, 
affaticamento e palpitazioni insorgono per attività fisica di entità 
inferiore a quella abituale. Benessere a riposo. 
Classe IV. Incapacità a svolgere qualsiasi attività senza comparsa di sintomi 
di scompenso anche a riposo. 
Recentemente, l’American College of Cardiology e l’AHA hanno proposto una nuova 
classificazione, basata su quattro stadi (A-D) che rappresentano le tappe evolutive 
dell’insufficienza cardiaca (Figura 1.2) [Jessup M et al, 2003]. Con il sistema di 
riferimento NYHA, un paziente di Classe IV può andare incontro al miglioramento dei 
sintomi, grazie alla terapia, passando alla Classe III. Con la nuova classificazione, 
invece, lo scompenso cardiaco può progredire dallo Stadio A allo Stadio D ma non può 
più regredire. 
 
 
 
Figura 1.2: Stadi dello scompenso cardiaco e opzioni terapeutiche per lo scompenso cardiaco 
sistolico [Jessup M et al, 2003]. 
 
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1.1.4 Eziopatogenesi 
Tutte le alterazioni cardiache, strutturali o funzionali, che alterano la capacità dei 
ventricoli di riempirsi e di espellere il sangue possono causare insufficienza cardiaca. 
Frequentemente si verifica un’alterazione della contrattilità miocardica con disfunzione 
sistolica del ventricolo sinistro e ridotta frazione di eiezione: in due terzi dei casi questo 
fenomeno è il risultato di malattie coronariche con ischemia del ventricolo sinistro 
(cardiopatia ischemica). I rimanenti casi di disfunzione sistolica non ischemica possono 
avere cause riconoscibili (malattie valvolari, ipertensione, tossine miocardiche, 
miocarditi) oppure non riconoscibili (cardiomiopatia dilatativa idiopatica). 
L’insufficienza cardiaca può essere determinata anche da una ridotta capacità diastolica 
(cardiomiopatia restrittiva, ipertensiva o ipertrofica), da un deficit del rilassamento 
ventricolare (cardiomiopatia ipertrofica, ischemia miocardica acuta) o da aumento della 
rigidità della parete ventricolare dovuta a fibrosi o ad infiltrazione miocardica 
(cardiomiopatia ischemica cronica, dilatativa o restrittiva) [Fauci AS et al, 1999]. 
Questi cuori sono in grado di contrarsi normalmente, ma la diastole è alterata. In 
presenza di una alterazione della contrattilità miocardica e/o di un eccessivo carico 
emodinamico a carico del ventricolo sinistro, il cuore, per mantenere la sua funzione di 
pompa, mette in atto una serie di meccanismi di adattamento, agenti a breve o a lungo 
termine [Katz AM et al, 2000]. 
Tra questi, risultano di cruciale importanza: 
 ξ  il meccanismo di Frank-Starling, grazie al quale, entro certi limiti, un aumento 
del precarico produce un miglioramento della performance cardiaca; 
 ξ  il rimodellamento del muscolo cardiaco, che conduce ad un aumento della massa 
del tessuto contrattile, in presenza o in assenza di dilatazione delle camere. 
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Il primo meccanismo si verifica dopo minuti od ore dall’insorgenza della disfunzione 
miocardica grave e può essere adeguato a mantenere la performance di pompa del cuore 
a livelli relativamente normali. Il rimodellamento cardiaco è un processo che si verifica 
più lentamente, da settimane a mesi dopo l’evento acuto di sovraccarico, svolgendo, 
quindi, un ruolo molto importante nell’adattamento a lungo termine del cuore. Questi 
meccanismi omeostatici, però, hanno un effetto positivo limitato nel tempo e, se le 
condizioni di sovraccarico emodinamico permangono cronicamente, l’esito inesorabile 
è comunque lo scompenso cardiaco. 
Per lungo tempo l’insufficienza cardiaca è stata considerata una malattia incurabile e 
con scarse speranze di recupero; al giorno d’oggi, nonostante una migliore conoscenza 
del ruolo dei fattori emodinamici e neuro-ormonali coinvolti e lo sviluppo di più valide 
terapie, essa rimane una malattia progressiva ed irreversibile, la morbilità e la mortalità 
rimangono elevate e la qualità della vita risulta gravemente compromessa [Roger VL et 
al, 2004]. 
Nelle fasi finali dello scompenso cardiaco il trattamento di elezione è il trapianto 
d’organo [Hunt SA, 1998], ma poiché risulta limitato dalla disponibilità dei donatori e 
dalle complicanze legate alle problematiche immunologiche, particolare attenzione è 
stata recentemente rivolta allo sviluppo del trapianto cellulare come alternativa al 
trapianto d’organo. 
L’obiettivo di questa nuova strategia d’intervento consiste nell’ottenere cellule in grado 
di sostenere il lavoro cardiaco, di integrarsi con le cellule circostanti, come 
cardiomiociti e cellule interstiziali, e di rispondere adeguatamente a stimoli fisiologici e 
fisiopatologici [Soonpaa MH et al, 1995]. 
 
 
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1.1.4.1 Cardiomiopatia dilatativa (CMD) 
La CMD rappresenta la forma più comune e diffusa di cardiomiopatia. E’ una malattia 
del miocardio caratterizzata da dilatazione e depressa funzione sistolica del ventricolo 
sinistro che si accompagna a segni e sintomi di uno scompenso cardiaco congestizio 
(Figura 1.3). 
 
 
Figura 1.3: CMD 
 
Dal punto di vista anatomico, il cuore si presenta globalmente ingrossato a causa di un 
considerevole aumento del volume della cavità cardiaca. Le pareti del ventricolo 
sinistro sono inizialmente ispessite, ma l’ipertrofia non è proporzionata alla dilatazione 
della cavità (ipertrofia inadeguata), per cui si assiste ad un progressivo assottigliamento 
del muscolo cardiaco. 
La CMD è caratterizzata, inoltre, dalla riduzione della contrattilità miocardica, 
prevalentemente a carico del ventricolo sinistro. La dilatazione che ne consegue 
mantiene normali, almeno inizialmente, la gittata sistolica e la portata cardiaca, ma 
tende a far aumentare la pressione telediastolica ventricolare. La dilatazione del 
ventricolo sinistro non si accompagna ad un grado di ipertrofia sufficiente a mantenere 
nella norma lo stress di parete, misura del postcarico ventricolare. Ciò determina un 
           Cuore sano 
                             CMD 
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aumentato consumo di ossigeno e crea le condizioni per il deterioramento della 
funzione ventricolare con conseguente riduzione della portata cardiaca. La dislocazione 
dei muscoli papillari, dovuta alla dilatazione del ventricolo sinistro, fa sì che la valvola 
mitrale diventi insufficiente. L’aumento della pressione telediastolica ventricolare 
sinistra e il rigurgito mitralico determinano l’aumento della pressione delle cavità a 
monte (atrio sinistro, vene e capillari polmonari) e la comparsa dei sintomi e segni dello 
scompenso sinistro, tra i quali lo stravaso di fluidi a livello polmonare. Si instaura, 
progressivamente, l’ipertensione arteriosa polmonare, che contribuisce a deteriorare la 
funzione del ventricolo destro e la comparsa del reflusso tricuspidale. Il rigurgito 
tricuspidale, associato all’aumento della pressione telediastolica del ventricolo destro, 
determina l’aumento della pressione nell’atrio destro e nelle vene sistemiche e, quindi, 
la comparsa dei segni obiettivi di scompenso destro, caratterizzato dall’accumulo di 
liquidi in tessuti e organi del corpo, come gambe, fegato ed addome. 
Si conoscono diverse forme di cardiomiopatia, familiari/genetiche (nel 20-30% dei 
casi), virali, su base immunologica e forme di cardiomiopatia dovute ad abuso d’alcool, 
droghe e farmaci. 
Tra i farmaci responsabili della comparsa di CMD vanno ricordati diversi 
antineoplastici tra cui la doxorubicina (DOXO), la ciclofosfamide e farmaci di più 
recente introduzione quali il trastuzumab. 
 
1.2 La Doxorubicina 
La DOXO è un farmaco antineoplastico appartenente alla classe delle antracicline, 
antibiotici glicosidici isolati da culture di Streptomices peucetius var. caesius, 
ampiamente utilizzata in chemioterapia, da sola e/o in associazione con altri farmaci.