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L'epatite C
Alla fine degli anni '70, negli Stati Uniti, fu stimato che nel 90%
circa dei casi di epatite post-trasfusionale l'agente eziologico non potesse
essere ricondotto né al virus dell'epatite A (HAV) né a quello dell'epatite B
(HBV) e questi casi furono classificati come epatiti non-A non-B (Alter
1988; Stevens, Taylor et al. 1990).
La diagnosi di epatite non-A non-B (NANB) è stata per molti anni
formulata in base all'esclusione di altre possibili cause di danno epatico
quali alcool, fenomeni autoimmuni, farmaci, HAV e HBV o altri virus
epatotropi (Citomegalovirus, Herpes virus, Epstein-Barr virus).
Per molti anni il virus dell'epatite C (HCV, hepatitis C virus) ha
eluso ogni tentativo di identificazione, soprattutto grazie alla scarsa
viremia e alla refrattarietà a crescere in colture cellulari in vitro.
L'identificazione del virus è finalmente avvenuta nel 1989 (Choo, Kuo et
al. 1989). Successivamente il genoma virale è stato completamente
sequenziato ed è stata definita l'organizzazione strutturale (Choo 1991;
Takamizawa 1991).
Oggi l'HCV è causa di un'infezione ubiquitaria, ed è considerato
responsabile dell'80-85% dei casi di epatite post-trasfusionale (Kuo, Choo
et al. 1989; Hopf, Moller et al. 1990; Miyamura, Saito et al. 1990) e del
75% dei casi di infezione sporadica NANB criptogenetica (Alter, Margolis
et al. 1992). La prevalente modalità di trasmissione della forma
sporadica, definita dagli anglosassoni "community acquired", non è
ancora stata identificata con sicurezza. Dal momento che spesso
l'infezione NANB è asintomatica, il coinvolgimento del virus C come causa
di epatite può essere sottostimato.
La prevalenza di anticorpi contro l'HCV (HCVAb) nei donatori di
sangue nel mondo oscilla tra 0.2% e 1.5% (Alter, Margolis et al. 1992).
Ampi rilievi statistici che includono gruppi dalla popolazione generale
mostrano una prevalenza di HCVAb che varia tra 0.36% e 1% nella
maggior parte dei paesi industrializzati e tra 2.5% e 6.4% nei paesi in via
di sviluppo (Sallberg, Ruden et al. 1992). Studi relativi alle modalità di
trasmissione dell'HCV hanno portato all'identificazione di diverse
A.Pellagatti: Emocromatosi ed Epatite C Pag. 5
categorie "a rischio" che presentano più alte percentuali di sieropositività: i
pazienti emodializzati (7-68% in diverse casistiche) (Sampietro,
Badalamenti et al. 1996), i pazienti talassemici politrasfusi (56-91%)
(Rebulla, Mozzi et al. 1992), i tossicodipendenti (70.2%) (Chiaramonte,
Stroffolini et al. 1991), i pazienti emofilici (76.3%) (Brettler, Alter et al.
1990). In Italia, la prevalenza degli HCVAb in un ampio studio sulla
popolazione generale è risultata del 3.2% (Bellentani, Tiribelli et al. 1994).
Il virus dell'epatite C
Il genoma del virus C è costituito da una singola catena di acido
ribonucleico (RNA) a polarità positiva. L'HCV appartiene alle Flaviviridae
di cui fanno parte, tra gli altri, il virus della febbre gialla e quello della
febbre emorragica Dengue (Brown, Zhang et al. 1992; Heinz 1992).
L'intera sequenza di HCV è stata caratterizzata e sono state identificate le
regioni codificanti e non codificanti (Takamizawa 1991). L'RNA è
costituito da circa 9400 basi e codifica per un'unica poliproteina di circa
3010 aminoacidi, che viene successivamente processata da almeno tre
proteasi (Heinz 1992). All'estremità 5' del genoma dell'HCV è localizzata
una sequenza di circa 324-341 nucleotidi non tradotta (untranslated
region o 5'-UTR). Ad essa viene attribuito un ruolo fondamentale
nell'espressione genomica e nella replicazione virale ed è altamente
conservata (Takeuchi, Kubo et al. 1990; Takamizawa 1991; Bukh, Purcell
et al. 1992). A questa seguono una regione strutturale, costituita dalla
sequenza codificante per le proteine del nucleocapside (core-gene C) e
per le proteine dell'envelope (surface-envelope gene S/E1) e una regione
non strutturale (NS1-5) (Heinz 1992). All'estremità 3' dell'RNA virale si
trova una seconda regione non tradotta di circa 50 basi che comprende
una coda di dodici residui di adenina o di uracile (Han, Shyamala et al.
1991).
Il genoma dell'HCV, come quello di altri virus a RNA, presenta un
alto grado di variabilità. Infatti, l'RNA-polimerasi-RNA-dipendente è
sprovvista dell'attività di "proof-reading" che permette di riparare gli errori
di polimerizzazione commessi durante la replicazione del genoma
A.Pellagatti: Emocromatosi ed Epatite C Pag. 6
(Mizokami, Gojobori et al. 1994). Questo determina l'insorgenza di
variazioni di sequenza distribuite lungo tutto il genoma virale. L'analisi
comparativa delle sequenze di HCV isolati in diverse aree geografiche ha
evidenziato l'esistenza di numerose varianti virali classificabili in genotipi e
sottotipi distinti (Simmonds 1995).
Oltre alla variabilità di sequenza che si è "fissata" nel corso
dell'evoluzione, dando luogo all'albero filogenetico impiegato per la
classificazione dei genotipi, esiste una variabilità generata continuamente
nel corso della replicazione virale. Questa variabilità non è
omogeneamente distribuita lungo il genoma virale; i geni che codificano
per le proteine di superficie (E1 ed E2/NS1) presentano la percentuale più
alta di hot spots di mutazione (20-22%) (Kato 1990). In particolare, una
regione che si trova al 5' del gene (E2/NS1) è stata chiamata regione
ipervariabile (HVR) (Okamoto, Sugiyama et al. 1992). Questa
ipervariabilità è verosimilmente dovuta al fatto che le proteine
dell'involucro, esposte sulla superficie del virione, sono uno dei bersagli
principali del sistema immunitario dell'ospite; vengono perciò sottoposte
ad una pressione selettiva che avvantaggia le varianti che non vengono
riconosciute. L'eterogeneità genomica sembra quindi rappresentare il
meccanismo principale attraverso il quale il virus elude la sorveglianza
immunitaria dell'ospite, impedendo così l'eliminazione virale (Weiner,
Geysen et al. 1992). Al contrario, la sequenza dei geni codificanti per
proteine legate al mantenimento di funzioni specifiche (nucleocapside e
proteine strutturali con funzione enzimatica) è molto meno variabile.
Storia naturale dell'epatite C
La forma acuta dell'epatite C solitamente è caratterizzata da valori
serici di bilirubina e di transaminasi più bassi rispetto alle epatiti A e B e
spesso decorre in forma asintomatica e anitterica (Alter, Margolis et al.
1992). Il virus C è raramente associato con l'epatite NANB fulminante o
subfulminante (Theilmann, Solbach et al. 1992; Liang, Jeffers et al. 1993).
L'epatite C cronicizza nel 50-70% circa dei casi (Hopf, Moller et al.
1990; Bradley 1991); secondo uno studio giapponese, la percentuale di
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cronicizzazione potrebbe raggiungere anche il 90% delle infezioni (Yano,
Yatsuhashi et al. 1993). La forma cronica dell'infezione evolve in cirrosi e
in carcinoma epatocellulare con maggior frequenza rispetto all'epatite B, e
più raramente va incontro a remissione spontanea (Yano, Yatsuhashi et
al. 1993).
Il decorso tipico dell'epatite cronica C è caratterizzato da livelli di
transaminasi fluttuanti nei primi stadi dell'infezione e in seguito
relativamente stabili per circa 10 anni; dopo tale periodo, l'attività
aminotransferasica può subire una brusca impennata che segna il
passaggio ad una fase di più intensa attività con evoluzione a cirrosi e
talora ad epatocarcinoma (Yano, Yatsuhashi et al. 1993). In media, il
tempo che intercorre tra l'infezione e l'evoluzione in cirrosi e carcinoma è
di circa 30 anni, ma la malattia può avere un decorso molto più rapido in
alcuni pazienti (Yano, Yatsuhashi et al. 1993).
Nell'uomo, la viremia può durare indefinitamente e l'infezione
permane anche in assenza di segni clinici e di laboratorio di malattia
epatica. Tuttavia, la possibile esistenza di portatori cronici "sani" è
dibattuta in quanto nei soggetti viremici, anche se clinicamente silenti, è in
genere evidenziabile una lesione istologica (Alberti, Morsica et al. 1992;
Brillanti, Foli et al. 1993). Nel 20% circa dei pazienti che presentano
livelli di transaminasi elevati per oltre un anno, la malattia evolve in cirrosi.
Non è ancora noto il tempo minimo necessario perché l'infezione da virus
C evolva in cirrosi, ma alcuni dati suggeriscono che questo tempo sia
variabile da soggetto a soggetto e sia in genere più rapido nei pazienti
immunodepressi (Di Bisceglie, Goodman et al. 1991; Takahashi, Yamada
et al. 1993).
E' ipotizzabile inoltre che il virus C possa agire non solo
direttamente nell'epatite cronica C, ma anche come cofattore
nell'evoluzione di altre epatopatie (in particolare quelle causate da alcool
e da altri virus) e nelle epatiti di origine autoimmunitaria (Esteban 1993).
Il riscontro di una elevata prevalenza di anticorpi anti-HCV tra i portatori di
carcinoma epatocellulare indicherebbe inoltre nell'HCV un importante
cofattore nello sviluppo dell'epatocarcinoma, suggerendo una precisa
A.Pellagatti: Emocromatosi ed Epatite C Pag. 8
correlazione tra viremia persistente e trasformazione neoplastica
(Esteban 1993).
Aspetti istologici
Posta diagnosi clinica di epatite virale cronica (dati anamnestici,
ematochimici e virologici), l'esame istologico della biopsia epatica può
fornire ulteriori dati utili per le valutazioni cliniche di ordine prognostico e
terapeutico. Oltre agli aspetti istologici comuni alle altre forme di epatite
cronica (piecemeal necrosis, flogosi degli spazi portali, infiammazione
intra-acinare con necrosi e degenerazione epatocitaria, fibrosi periportale
o a ponte), vi sono alcune caratteristiche morfologiche che sono state
riportate con frequenza significativamente maggiore nelle epatiti croniche
causate da virus C. Tali caratteristiche sono: la presenza di
aggregati/follicoli linfoidi all'interno degli spazi portali infiammati (50-80%
dei casi), la presenza di steatosi microvescicolare o macrovescicolare
(70% dei casi) e le lesioni dei dotti biliari (50-90% dei casi) che vanno da
una degenerazione dell'epitelio duttulare a una progressiva e severa
degenerazione con scomparsa dei dotti; meno frequentemente si osserva
anche la presenza di materiale eosinofilo, corpuscolato, simile ai corpi di
Mallory, e l'attivazione delle cellule infiammatorie nei sinusoidi epatici
(Gerber, Krawczynski et al. 1992; Scheuer, Ashrafzadeh et al. 1992;
Roberts, Searle et al. 1993; Ishak 1994).
Per confrontare i quadri istologici dei pazienti e per monitorare nel
tempo l'evoluzione della malattia e gli effetti di eventuali terapie, è utile
che la tradizionale descrizione qualitativa del preparato istologico venga
integrata da un criterio di valutazione che permetta una elevata
riproducibilità ed una ridotta variabilità tra gli osservatori, con la possibilità
di associare ad ogni campione un punteggio numerico.
Sono stati proposti diversi modelli per la classificazione delle epatiti
croniche (Knodell, Ishak et al. 1981; Scheuer 1991; Ludwig 1993), ma il
più usato è l'indice di attività istologica (Hisology Activity Index, HAI),
meglio conosciuto come Knodell score (Knodell, Ishak et al. 1981). Esso
prevede quattro punteggi separati per ogni componente della lesione: da
A.Pellagatti: Emocromatosi ed Epatite C Pag. 9
0 a 10 per la necrosi periportale con o senza necrosi a ponte, da 0 a 4 per
la degenerazione intralobulare e la necrosi focale, da 0 a 4 per
l'infiammazione portale e da 0 a 4 per la fibrosi (Knodell, Ishak et al.
1981). I primi tre punteggi valutano complessivamente l'intensità
dell'attività necro-infiammatoria (grading) mentre il quarto è indicativo del
grado di fibrosi e di alterazione dell'architettura epatica (staging). I
vantaggi del modello HAI sono il suo diffuso utilizzo e l'ampio range di
classificazione; gli svantaggi derivano dall'unione dei valori di grading e di
staging (sarebbe preferibile tenere questi ultimi separati) e dall'eccessiva
variabilità nell'assegnazione di alcuni punteggi da parte di osservatori
differenti (Desmet, Gerber et al. 1994). Per cercare di ovviare a questi
inconvenienti, Ishak et al. hanno proposto alcune modifiche a questo
modello di classificazione che nel complesso prevedono l'attribuzione di
un punteggio massimo di 18 per la componente necro-infiammatoria e di
6 per il grado di fibrosi (Ishak, Baptista et al. 1995).
Ferro e virulenza degli agenti infettivi
Da tempo il ferro è riconosciuto come un elemento essenziale per
la replicazione di tutti gli organismi, inclusi batteri e virus. Numerosi studi
sperimentali e osservazioni cliniche hanno dimostrato l'importanza del
ferro nelle infezioni causate da batteri gram-negativi, gram-positivi e
funghi (Bullen, Rogers et al. 1978; Bullen, Ward et al. 1991; Weinberg
and Weinberg 1995). I soggetti con sovraccarico di ferro hanno un
maggior rischio di sviluppare gravi infezioni causate da questi organismi
(Caroline, Kozinn et al. 1969; Capron, Capron-Chivrac et al. 1984). Al
contrario, gli individui con infezioni o altri fenomeni infiammatori in corso
mostrano una diminuzione della concentrazione serica del ferro, dovuta
agli effetti dell'interleuchina-1 (IL-1), un importante mediatore della
risposta infiammatoria (Dinarello 1984). Questa ipoferremia causata
dall'IL-1 sembra essere un meccanismo di difesa per limitare i processi
infettivi. Anche le proteine che legano il ferro, lattoferrina e transferrina,
vista la loro grande avidità per questo elemento, giocano un ruolo
importante nella resistenza alle infezioni; esse diminuiscono la quantità di
A.Pellagatti: Emocromatosi ed Epatite C Pag. 10
ferro a disposizione degli organismi patogeni (Oram and Reiter 1968;
Reiter, Brock et al. 1975; Lima and Kierszenbaum 1985; Kluger and
Bullen 1987; Byrd and Horwitz 1991; Ellison 1993). La lattoferrina si
trova nel colostro e nelle secrezioni mucosali, dove ha un ruolo
batteriostatico, e in granuli specifici dei leucociti polimorfonucleati, dove si
pensa che aiuti la fagocitosi e l'uccisione dei microrganismi invasori
(Oram and Reiter 1968; Reiter, Brock et al. 1975; Lima and
Kierszenbaum 1985; Byrd and Horwitz 1991; Ellison 1993). La
transferrina, la principale proteina del sangue legante il ferro,
normalmente è saturata solo per circa un terzo, quindi limita la quantità di
ferro disponibile per i microrganismi. Le proteine che legano il ferro
sembrano giocare un ruolo importante anche nell'immunità umorale: gli
anticorpi e il complemento non opsonizzano efficacemente i batteri in
assenza di proteine leganti il ferro non saturate (Kluger and Bullen 1987).
Il ruolo del ferro e delle proteine capaci di legarlo nelle infezioni
causate da virus è ancora poco chiaro. Ad ogni modo, ci sono prove che
esistano effetti simili a quelli che il ferro ha sui batteri e questo è stato
chiaramente dimostrato per l'herpes simplex virus (HSV) (Atta, Lamarche
et al. 1993). La lattoferrina è in grado di inibire l'infezione dell'HSV in
vitro e, se somministrata prima dell'inoculazione del virus, blocca lo
sviluppo dell'infezione oculare di HSV nei topi (Hasegawa, Motsuchi et al.
1994; Fujihara and Hayashi 1995). La lattoferrina e la desferrioxamina,
un chelante del ferro, possono inibire l'infezione del citomegalovirus in
vitro (Hasegawa, Motsuchi et al. 1994; Harmsen, Swart et al. 1995). E'
stato dimostrato che la lattoferrina interferisce anche con la replicazione
in vitro del virus dell'immunodeficienza umana (HIV) (Harmsen, Swart et
al. 1995) e inibisce l'emoagglutinina del virus dell'influenza (Kawasaki,
Isoda et al. 1993). Pertanto, lo stato del ferro in pazienti con epatite
virale cronica potrebbe essere influente dal punto di vista clinico, visti i
suoi effetti sull'infezione cellulare e sulla replicazione virale.
Ferro e danno tissutale epatico
A.Pellagatti: Emocromatosi ed Epatite C Pag. 11
Il fegato è il principale bersaglio dell'eccesso di ferro in condizioni
di sovraccarico ed elevate concentrazioni epatiche di questo metallo
possono portare a danni epatocellulari, fibrosi e cirrosi (Pietrangelo 1998).
In particolare, il ferro è capace di danneggiare la funzionalità epatica
partecipando a tre meccanismi: necrosi, infiammazione e fibrosi.
Necrosi. E' generalmente accettato che il ferro aumenta la
formazione di radicali idrossilici e di altre specie ossidanti altamente
reattive nei sistemi biologici. In condizioni normali, le reazioni
metaboliche della cellula generano delle specie reattive dell'ossigeno
(ROS, reactive oxygen species), quali perossido di idrogeno (H
2
O
2
),
radicali idrossilici (OH
.
), superossido (O
2
-
), alcossilici (RO
.
) e perossilici
(ROO
.
) (Cadenas 1989). Gli ioni dei metalli di transizione, e in particolare
il ferro, che hanno spesso elettroni spaiati, sono eccellenti catalizzatori e
giocano un ruolo fondamentale nella generazione delle specie più reattive
a partire da quelle meno reattive, come la formazione di radicali idrossilici
da forme ridotte di O
2
(Halliwell and Gutteridge 1989). Esistono
numerose prove da esperimenti in vitro che il ferro può catalizzare la
produzione di ROS quando è disponibile in una forma redox attiva
(Halliwell and Gutteridge 1989). Alcuni studi hanno confermato che i
radicali idrossilici vengono prodotti nel fegato di animali da esperimento
dopo la somministrazione di ferro (Burkitt and Mason 1991; Kadiiska,
Burkitt et al. 1995). I radicali idrossilici sono estremamente reattivi e
possono attaccare diversi costituenti della cellula, come gli acidi grassi
poliinsaturi dei fosfolipidi di membrana, le proteine e gli acidi nucleici. Le
cellule possiedono meccanismi citoprotettivi (antiossidanti, enzimi
scavenger, processi di riparazione), la cui azione contrasta gli effetti dei
radicali dell'ossigeno (Halliwell and Gutteridge 1989). Di conseguenza,
l'effetto di questi radicali sulle funzioni cellulari dipende dal rapporto tra la
loro produzione e l'azione dei sistemi citoprotettivi; se tali meccanismi
vengono sopraffatti, l'ossidazione può portare alla necrosi cellulare
(sideronecrosi) (Pietrangelo 1998).
Le reazioni secondarie e gli effetti indiretti portano alla
perossidazione lipidica e al danno ossidativo di proteine e acidi nucleici.
A.Pellagatti: Emocromatosi ed Epatite C Pag. 12
In un fegato con sovraccarico di ferro, tali cambiamenti producono difetti
nella funzione degli organelli (lisosomi, mitocondri, reticolo endoplasmico),
deposizione cronica di tessuto cicatriziale ed un aumento del rischio di
carcinoma epatocellulare (Bacon and Britton 1989; Britton 1996).
Sebbene nell'epatite virale ci sia un ruolo prevalente del virus e del
sistema immunitario dell'ospite nel causare il danno epatico, è stato
anche osservato un danno ossidativo correlato alla disponibilità di ferro.
In particolare, evidenze di aumenti della perossidazione lipidica sono state
identificate nel plasma (Higueras, Raya et al. 1994) e nelle biopsie
epatiche (Farinati, Cardin et al. 1995; Kikuyama, Kobayashi et al. 1995) di
pazienti con epatite cronica C rispetto a controlli sani o a pazienti con
epatite cronica B.
Infiammazione e immunità. E' ormai ampiamente accettato che il
danno epatocitico nell'epatite cronica B sia in gran parte causato dalla
risposta immune cellulare al virus (Chisari and Ferrari 1995). Un
crescente numero di informazioni suggerisce che un meccanismo
immunopatologico sia importante anche nell'epatite cronica C, nonostante
questo punto sia ancora controverso (Mondelli, Cerino et al. 1993; Cerny
and Chisari 1994; Gonzalez-Peralta, Davis et al. 1994). Nell'epatite virale
cronica, sebbene le cellule T virus-specifiche siano presenti nei tessuti
epatici e nel sangue periferico di molti pazienti e siano in grado di
eliminare gli epatociti infetti, esse non riescono ad eliminare
completamente l'infezione virale. Una possibile spiegazione alla
persistenza virale in presenza di un'attiva risposta immunitaria può essere
l'abilità del virus di evadere i sistemi di difesa grazie alla sua elevata
variabilità genetica (Bukh, Miller et al. 1995). In alternativa, può essere
ipotizzato un difetto quantitativo o qualitativo nella risposta immunitaria.
Alcuni individui possono essere predisposti a sviluppare risposte cellulo-
mediate più deboli; questo può risultare da fattori genetici, ma anche da
altre malattie, da farmaci o dalla nutrizione (Cerny, Ferrari et al. 1994).
Alti livelli di antigene virale possono sopprimere (anergizzare) la risposta
delle cellule T, un fenomeno chiamato "immune exhaustion" (Doherty
A.Pellagatti: Emocromatosi ed Epatite C Pag. 13
1993). Infine, una maggior risposta di tipo Th2 piuttosto che di tipo Th1
può essere associata all'incapacità di eliminare le infezioni; questo è già
stato dimostrato nei topi con infezioni da leishmania, micobatteri e virus
del vaiolo bovino (Sher, Gazzinelli et al. 1992; Actor, Shirai et al. 1993;
Romagnani 1994; Mosmann and Sad 1996).
Mentre un eccesso di ferro può influenzare negativamente la
funzione linfocitaria, il ferro è anche un fattore essenziale per la
proliferazione delle cellule T (Seligman, Kovar et al. 1992). La carenza di
ferro inibisce l'ipersensibilità ritardata e la produzione di citochine da parte
dei linfociti T nel topo e nell'uomo (Thibault, Galan et al. 1993; Omara and
Blakley 1994). Quindi, una terapia mirata a ridurre la quantità di ferro
può diminuire l'infiammazione epatica nell'infezione cronica da HBV o
HCV, inibendo la risposta pro-infiammatoria delle cellule T.
Nel complesso, le evidenze disponibili suggeriscono che il ferro
contribuisca all'epatotossicità e forse anche all'epatocarcinogenicità
causata dall'epatite virale cronica. Da questo punto di vista, il ferro
potrebbe avere un effetto potenziante sull'epatite virale cronica simile a
quello che ha sulla malattia epatica da alcool (Tsukamoto, Horne et al.
1995; Bonkovsky, Banner et al. 1996). Sembra quindi ragionevole
ritenere che la rimozione di quantità anche modeste di ferro in eccesso
possa migliorare l'epatite virale e influenzare favorevolmente la sua
progressione.
Fibrosi. Il processo fibrotico sembra essere la risposta a un insulto
cronico che, indipendentemente dalla sua natura (infezione virale, abuso
di alcool, sovraccarico di metalli), porta a un danno cellulare e/o a necrosi;
si verifica poi un'eccessiva deposizione di componenti della matrice
extracellulare che può derivare da un'incrementata produzione o da una
diminuita degradazione (Pietrangelo 1996).
Le cellule epatiche stellate (HSC, hepatic stellate cells) sono la
fonte principale di matrice extracellulare sia in condizioni normali che
patologiche (Friedman 1993), compresi gli stati di sovraccarico di ferro
(Pietrangelo, Gualdi et al. 1994). Durante il processo fibrotico, tali cellule
A.Pellagatti: Emocromatosi ed Epatite C Pag. 14
vanno incontro ad una trasformazione di tipo miofibroblastico
caratterizzata da ingrossamento cellulare con aumento del reticolo
endoplasmico rugoso, lunghe estroflessioni citoplasmatiche,
proliferazione, aumentata sintesi di componenti della matrice
extracellulare e acquisizione di caratteristiche tipiche della cellula
muscolare liscia (espressione dell'α-actina specifica del muscolo liscio)
(Friedman 1993).
L'attivazione delle HSC segue al rilascio di fattori solubili
principalmente da parte dei macrofagi presenti nel fegato, ma anche da
piastrine, linfociti, epatociti e cellule endoteliali sinusoidali. Il più potente
mediatore fibrogenico identificato è il TGFβ (tumor growth factor
β) (Castilla, Prieto et al. 1991). Esso agisce direttamente sugli elementi
promotori del collagene di tipo I e inibisce la degradazione della matrice.
Altri fattori coinvolti nella deposizione della matrice extracellulare sono il
PDGF (platelet-derived growth factor) (Pinzani 1995), una potente
citochina proliferativa per le HSC, l'MCP-1 (monocyte chemotactic peptide
1) e il PAF (platelet-activating factor) (Marra, Valente et al. 1993).
Un ruolo importante nella fibrogenesi epatica associata al
sovraccarico di ferro è svolto dalle cellule reticoloendoteliali, in particolare
dalle cellule di Kupffer. Nel fegato, tali cellule riciclano grosse quantità di
ferro che deriva dalla distruzione dei globuli rossi. Inoltre esse sono
un'importante sorgente di radicali dell'ossigeno: nelle cellule di Kupffer,
l'O
2
viene prodotto durante la fase ossidativa dell'attività fagocitica (Inoue
1994). La via cellulare che porta alla fibrosi epatica indotta dal ferro
inizia con la morte degli epatociti che può essere dovuta all'elevata
quantità di ferro, con un eventuale potenziamento da parte di tossine quali
virus, alcool, xenobiotici. La morte cellulare determina l'attivazione delle
cellule di Kupffer che a loro volta stimolano l'attività delle HSC; queste
ultime innescano così il processo fibrotico (Pietrangelo 1998). Si
possono prospettare due scenari differenti:
- La necrosi epatocellulare provoca l'attivazione delle cellule di
Kupffer a cui segue un sovraccarico di ferro nelle cellule parenchimali.
Quando il ferro, in presenza di un precedente danno epatocellulare, è
A.Pellagatti: Emocromatosi ed Epatite C Pag. 15
veicolato agli epatociti, lo stimolo alla fibrosi è il potenziamento da parte
del ferro della citotossicità dovuta alle epatotossine (Mackinnon, Clayton
et al. 1995; Tsukamoto, Horne et al. 1995).
- La necrosi epatocellulare provoca l'attivazione delle cellule di
Kupffer a cui segue un sovraccarico di ferro nelle cellule di Kupffer stesse.
Se il ferro, in presenza di un precedente danno epatocellulare, è veicolato
alle cellule di Kupffer, queste ultime, già attivate dalla necrosi
epatocellulare, vengono iperattivate dal ferro che potenzia ulteriormente
la produzione di radicali liberi dell'ossigeno (Pietrangelo 1996).
In conclusione, nelle cellule epatiche effettrici e in quelle regolatrici
del processo fibrotico (HSC e cellule di Kupffer rispettivamente), il ferro
può indurre le modificazioni biochimiche e morfologiche che stanno alla
base del processo di cicatrizzazione epatica. Se le cellule di Kupffer
vengono attivate da un preesistente evento necrotico, pare che il ferro
possa stimolare le HSC e quindi il processo fibrotico. Quindi è indubbio
che il ferro sia un importante fattore fibrogenico nella patologia epatica
(Pietrangelo 1998).
Studi clinici su ferro ed epatite cronica
Un possibile ruolo del ferro nella modulazione del corso dell'epatite
virale fu proposto per la prima volta vent'anni fa: furono studiati 67
pazienti emodializzati con infezione da HBV per un periodo di dieci anni e
fu osservato che i 33 pazienti che avevano sviluppato epatite cronica B
presentavano livelli serici di ferro significativamente più alti dei 34 pazienti
che erano guariti dall'infezione. I livelli medi di ferro nel siero prima
dell'infezione da HBV erano simili nei due gruppi (Blumberg, Lustbader et
al. 1981).
Ferro colorabile è spesso rintracciabile nelle biopsie epatiche di
pazienti con epatite virale acuta o cronica. Ishak descrisse la presenza di
emosiderina e lipofucsina in cellule di Kupffer e interpretò questa
evidenza come una sorta di meccanismo di riparazione dopo aver subito
un danno. Egli notò che cellule di Kupffer ipertrofiche e macrofagi
potevano essere rilevati per alcuni mesi dopo la fase acuta del danno, ma
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non successivamente, a meno che il paziente non sviluppasse una
ricaduta. L'ipotesi avanzata era che il ferro trovato nel fegato colpito da
epatite virale fosse stato rilasciato dagli epatociti danneggiati (Ishak
1976).
Hengeveld et al. studiarono 30 pazienti con epatite virale acuta
determinata su biopsia epatica, dei quali 19 affetti da HBV e 11 affetti da
HAV. Durante la fase acuta della malattia, tutti i pazienti avevano alti
livelli di ferro e di ferritina nel siero, elevati valori di saturazione della
transferrina e livelli bassi o normali di transferrina serica. Sulla base di
questi dati e delle informazioni ricavate dalle sezioni istologiche, si
ipotizzò che il ferro e la ferritina derivassero dagli epatociti danneggiati
(Hengeveld, Zuyderhoudt et al. 1982).
Anche lo studio istopatologico di Senba et al. suggerì che
l'accumulo di ferro nell'infezione da HBV fosse dovuto al danno
epatocitario. E' stata studiata la relazione tra la deposizione di ferro e la
positività per l'antigene di superficie dell'epatite B nel fegato e nella milza
di 68 individui sottoposti ad autopsia in Kenya. E' stata riscontrata una
forte correlazione tra la quantità di ferro depositato nella milza e nelle
cellule di Kupffer e la quantità di antigene di superficie dell'epatite B nei
tessuti. Anche questo studio ha portato alla conclusione che il ferro nelle
cellule reticoloendoteliali epatiche deriva dagli epatociti danneggiati dal
virus (Senba, Nakamura et al. 1985).
Deugnier et al. hanno studiato i markers dell'epatite B in pazienti
con emocromatosi genetica in relazione alla presenza di carcinoma
epatocellulare. Per formulare la diagnosi e per valutare i depositi di ferro
e il grado di fibrosi sono state utilizzate le biopsie epatiche. Tutti i
pazienti, con o senza carcinoma epatocellulare, presentavano
un'aumentata frequenza di anticorpi anti-HBc rispetto a un gruppo di
controllo costituito da donatori di sangue. I pazienti HBV-positivi e HBV-
negativi non mostravano differenze nel grado di fibrosi o nella quantità di
ferro colorabile nella biopsia epatica. Gli autori hanno formulato tre
ipotesi per giustificare la maggiore prevalenza di markers dell'HBV nei
pazienti con emocromatosi genetica: a) il sovraccarico di ferro può
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facilitare la replicazione virale negli epatociti; b) le cellule epatiche
infettate dal virus tendono ad accumulare ferro; c) il sovraccarico di ferro
può alterare la risposta al virus (Deugnier, Battistelli et al. 1991).
De Virgiliis et al. hanno studiato il sovraccarico di ferro in 81
pazienti con talassemia major trasfusi, dei quali 59 affetti da epatite
cronica e 22 solo da siderosi. E' stata rilevata un'associazione tra il
grado crescente di severità dell'epatite cronica attiva, il grado di fibrosi e
la deposizione di ferro (De Virgiliis, Cornacchia et al. 1981).
Aldouri et al. hanno correlato i livelli di ferritina serica e di aspartato
transaminasi con il grado istologico di infiammazione e con il grado di
fibrosi e il contenuto epatico di ferro chimico in 51 pazienti talassemici che
ricevevano regolarmente trasfusioni di sangue e iniezioni sottocutanee di
desferrioxamina. Tutti i pazienti avevano evidenza istologica di epatite e
5 avevano cirrosi. Era presente una correlazione tra grado di
infiammazione, grado di fibrosi e grado istologico di siderosi e il contenuto
quantitativo epatico di ferro (Aldouri, Wonke et al. 1987).
Zhou et al. hanno studiato la relazione tra epatite B e ferro in 40
casi di carcinoma epatocellulare provenienti dalla Cina continentale.
Tutti i pazienti tranne uno presentavano epatite cronica e tutti i pazienti ad
esclusione di un altro avevano cirrosi. L'80% dei pazienti era positivo per
l'antigene di superficie dell'epatite B. E' stata trovata una correlazione
significativa tra la positività per l'antigene core dell'epatite B e il ferro nel
tessuto epatico non tumorale; gli autori hanno suggerito che il ferro possa
accumularsi preferenzialmente negli epatociti che sono sede di
replicazione dell'HBV (Zhou, DeTolla et al. 1987).
Farinati et al. si sono chiesti se l'HCV possa avere un effetto
citopatico diretto sugli epatociti attraverso l'attivazione della
perossidazione lipidica ferro-dipendente. Essi hanno analizzato le
caratteristiche istologiche di infiammazione, ferro colorabile, indici di ferro
serico, concentrazione tissutale di ferro e indicatori di perossidazione
lipidica in pazienti con epatite cronica causata da HCV (n=42) e da altre
cause (n=25). I pazienti con epatite cronica C avevano infiammazione
lobulare, steatosi, ferritina serica, saturazione della transferrina serica,