6
scioperi, nella sospensione di lavoro parziale o totale o comunque
nell’intralcio dell’andamento normale della fabbrica”2, ma anche in tutte
quelle attività o accordi che conducono ad un miglioramento della
professionalità e delle condizioni dei lavoratori, o più in generale
l’interesse comune alle esigenze della produttività e dell’efficienza
gestionale perseguite dalle imprese.
Ed ancora come “sistemi più strutturali e cooperativi di relazioni
collettive, in quanto consentano alle parti di tenere comportamenti
coerenti con gli obiettivi, sostanzialmente comuni, che vengono
perseguiti: il superamento di situazioni di crisi, per esempio, e/o il
miglioramento della performance aziendale, cui sono connesse le
prospettive di difesa e miglioramento delle condizioni di lavoro e
dell’occupazione”2
E’ però importante non cadere nell’errore di ritenere la cultura
della produzione come una sorta di buonismo dove sindacati e
industriali “si fanno dei gran sorrisi” e sono disposti a concedersi tutto
reciprocamente, no, ogni parte persegue i suoi interessi e non è
disposta a regalare niente all’avversario, il cambiamento importante che
2F. Peschiera: Sindacato Industria e Stato negli anni dell’emergenza.
7
introduce la cultura della produzione è quello delle regole del gioco, è
come se due fratelli molto rivali che fin da quando erano piccoli
litigavano per ottenere qualsiasi cosa (fase conflittuale), ora che sono
grandi e più maturi, sanno che discutendo e ragionando insieme
possono trovare una soluzione che racchiuda in sé un interesse
comune e che quindi sia in grado di soddisfare entrambi (fase
partecipativa).
La contrattazione, con la cultura della produzione, non è più un
gioco a somma zero dove c’è chi perde e chi vince, al contrario è un
modo di gestire gli accordi da cui è possibile costruire qualcosa di
nuovo e comune che sia utile ad entrambi.
Quindi quello che si ricerca nella stipulazione dei contratti che
andiamo ad analizzare è proprio quella comune convenienza che rende
il gioco positivo.
Ma per poter avere una visione più chiara e completa di come la
cultura della produzione sia stata intesa e applicata nel decennio preso
in esame bisognerà attendere la conclusione di questo lavoro.
2
Relazioni industriali e contrattazione aziendale, L.Bellardi, F.Angeli , Milano, 1997.
8
A) IL MOVIMENTO OPERAIO ITALIANO TRA CULTURA
DELLA PRODUZIONE E CULTURA DEL CONFLITTO.
E’ necessario riuscire a comprendere in che tipo di contesto
culturale viene sentita e si sviluppa la cultura della produzione e quali
siano le scelte su cui i sindacati e la Confindustria abbiano influito in
questo senso.
Fin dal 1906 con l’accordo FIOM-ATALA is titutivo delle
commissioni interne “che arriva a prevedere il risarcimento dei danni
materiali o morali che alla ditta derivassero con la facoltà per
quest’ultima di rivalersi sulla causazione”3, si intuisce la volontà del
movimento operaio italiano di riconoscere, come negli altri paesi
europei che stanno anche loro vivendo un epoca di sviluppo
industriale, l’esistenza di valori comuni anche alla controparte quali, la
professionalità , l’abilità tecnica dei lavoratori e la necessità di evitare
scioperi ed ogni altra manifestazione che sia di intralcio all’attività
lavorativa. “Trattasi di un indirizzo culturale di lunga portata che
sopravvive non solo alle pressioni del nascente sovietismo torinese del
9
primo dopoguerra, ma addirittura si riconferma nel secondo con la
ricostruzione delle C.I., che non a caso riconoscono nel mantenimento
della normalità dei rapporti con la direzione dell’azienda il compito
fondamentale da perseguire.” 4.
Questo indirizzo riesce a resistere fino agli inizi degli anni
Settanta quando dopo le lotte dell’“autunno caldo” vi è un cambio di
direzione dei sindacati dovuto alla maggiore influenza assunta da una
classe operaia poco specializzata e molto politicizzata.
Infatti fino al momento in cui ad avere maggiore influenza erano
le classi operaie più tecniche e specializzate, le scelte delle
organizzazioni sindacali, si muovevano nell’ambito della cultura della
produzione, quando invece scelte di opportunità spingono i sindacati
a voler cavalcare la protesta degli operai meno specializzati, anche la
materia di trattazione perde spessore.
I sindacati riescono comunque ad ottenere dalle aziende
importanti conquiste come: le assemblee pagate ai lavoratori, i
permessi retribuiti ai sindacalisti, il diritto di affissione dei comunicati.
3F. Peschiera: Sindacato Industria e Stato negli anni dell’emergenza.
4F. Peschiera: Sindacato Industria e Stato negli anni dell’emergenza.
10
La raggiunta unità federale tra CGIL,CISL e UIL di quegli anni
non si pone come un fatto positivo , infatti l’accresciuta importanza
porta i sindacati a staccarsi dall’impresa per rivolgere le proprie
richieste direttamente alla società, cominciando a cavalcare
rivendicazioni più politiche che sindacali.
Il nuovo potere politico dei sindacati viene utilizzato anche dal
P.c.i. come arma di pressione nei confronti del governo nelle forme
dello sciopero e delle marce di protesta, svincolando sempre più le
manifestazioni sindacali da rivendicazioni strettamente legate al mondo
del lavoro.
A questo punto la strategia delle tre confederazioni viene
obbligata a conformarsi alle ideologie e alle rivendicazioni degli operai
dequalificati, non essendo più possibile continuare a perseguire quei
valori e principi che fino a questo punto avevano ispirato
l’orientamento sindacale.
A partire dalla seconda metà degli anni Settanta le innovazioni
tecnologico organizzative riducono il lavoro operaio non qualificato e
non professionalizzato riportando al centro dei processi produttivi
categorie più tecniche e specializzate che di conseguenza tornano ad
avere una maggiore influenza all’interno della triplice, spostando
11
nuovamente la politica sindacale verso la cultura della produzione.
L’episodio più significativo è rappresentato sicuramente dalla
marcia dei 40.000 operai specializzati, tecnici e quadri intermedi, che si
è svolta a Torino il 18 ottobre 1980, i quali sfilando silenziosamente
fra la folla che li applaudiva, mettono fine all’occupazione degli
stabilimenti Fiat.
Non bisogna comunque dimenticare che i grandi livelli di
capacità produttiva e la grande concorrenzialità che il nostro paese
aveva nei primi anni Settanta sui mercati internazionali , grazie alla
produzione di beni di consumo durevoli che utilizzavano molta mano
d’opera pagata poco e con costi di trasformazione bassi anche grazie
al prezzo del petrolio, finiscono con la guerra del Kippur e “ bisognava
riorganizzare completamente i fattori della produzione e la destinazione;
la vocazione della struttura industriale del nostro paese e le grandi
vertenze del ‘73 - ‘74 furono emblematiche di questa capacità del
sindacato di tradurre in un coerente percorso rivendicativo questa
scelta,” 5 dando una spinta significativa nella direzione della cultura
della produzione.
5Del Turco Militelli, L’accordo IRI Sindacati, EDIESSE, Roma, 1985, pag.10.
12
Il contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici privati,
stipulato tra F.L.M. e la Confindustria il 1° settembre 1983 va proprio
in questa direzione, si potrebbe dire che apre la strada al successivo
accordo IRI del 1985, spostando gli argomenti di discussione oltre che
sul salario anche sull’orario, sul costo del lavoro e sulla produttività,
svelando ancor di più l’esistenza di esigenze comuni tra i lavoratori e
gli imprenditori.
Dall’ inizio del secolo si scontrano la cultura della produzione e
una visione conflittualistica e politicizzata di quello che dovrebbe
essere il modo di operare dei sindacati i quali cercano con la loro
attività di rappresentare il pensiero della coscienza collettiva ed è
possibile notare come il movimento partecipativo riesca quasi sempre
ad avere la meglio su quello conflittuale ogni qual volta il sindacato si
svincola dalle lotte di bandiera o di trincea e si interessa concretamente
al bene dei lavoratori per lo sviluppo della professionalità.
La crescita della cultura della produzione dall’accordo IRI del
1985 in avanti è esponenziale e legata ai grandi contratti nazionali che
esamineremo insieme nel corso di questo lavoro.
13
B) IL PROBLEMA DELLA PARTECIPAZIONE
Prima di entrare nel vivo della trattazione è però necessario
analizzare quali siano stati gli spunti Costituzionali da cui trae origine la
cultura della produzione e se questi richiami siano stati o meno presi in
considerazione.
L’articolo 46 della Costituzione così recita: “Ai fini della
elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze
della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a
collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle
aziende.”
Ad una prima lettura appare tutto piuttosto chiaro; perché vi
possa essere una crescita economica e un miglioramento delle
condizioni lavorative è necessario che gli stessi lavoratori si impegnino
a collaborare con gli imprenditori nella conduzione delle aziende
cercando di agevolare piuttosto che ostacolare l’attività lavorativa.
Ma alla semplicità e alla chiarezza del dettato Costituzionale si
contrappone la complessità e la confusione del mercato del lavoro e
della società italiana.
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Infatti, il mezzo per poter raggiungere un risultato di
partecipazione all’attività lavorativa che sia di una certa importanza, (e
quindi non solo a livello di singole unità produttive locali, ma a livello
nazionale,) è rappresentato dai sindacati confederali che sono in grado
di rappresentare una grande quantità e varietà di lavoratori e quindi
anche di riuscire a dare un indirizzo generale alle contrattazioni
aziendali.
Bisogna però tenere presente che la politica sindacale è frutto
delle decisioni assunte da soggetti che in un preciso momento storico
esprimono più di altri il pensiero dei lavoratori e si pongono alla loro
guida cercando di interpretarne al meglio le esigenze.
Questo vuol dire che i sindacati essendo un espressione di un
atto di liberalità, sia nel momento della loro costituzione che nel
momento in cui il lavoratore decide di aderirvi e di votare un certo
indirizzo piuttosto che un altro, non possono assumere una direzione
prestabilita e non esiste nessuna legge che li obblighi a seguire il dettato
dell’articolo 46 Cost. se non il buon senso.
Questo comporta che si possano seguire sia indirizzi partecipativi
che conflittualistici.
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Dalla parte opposta gli imprenditori, per i quali l’indirizzo
preferibile è quello partecipativo, non sempre sono stati disposti a
tollerare l’ingerenza dei sindacati all’interno delle decisioni aziendali. Si
rende quindi necessario un intervento legislativo, come auspicato
nell’art. 46 Cost., in modo che vi possano essere delle regole
all’interno delle quali sia sindacati che imprenditori possano meglio
dipanare le loro controversie.
Il legislatore inizia a manifestare la tendenza ad intervenire
direttamente sulle R.I. con leggi di tutela dei lavoratori nella metà degli
anni Sessanta.
La prima legge importante è forse la n° 703 del 14 luglio 1959
detta dell’erga omnes, “che si proponeva di aggirare l’articolo 39
Cost., rimasto lettera morta per l’opposizione dei sindacati, e di
garantire l’applicazione dei contratti collettivi a tutti i lavoratori senza
discriminazioni.”6
Questa norma ha però durata breve (dopo un anno viene
dichiarata l’illegittimità della proroga della legge), ma segna “tuttavia
l’apertura di una lunga stagione di diretti interventi del legislatore in una
6F. Mortillaro: In principio era il conflitto.
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materia lasciata fino ad allora all’autonomia delle parti”,7 ed è da qui
che prenderà poi forma agli inizi degli anni Settanta, promosso da
Brodolini e scritto da Giugni, lo Statuto dei Lavoratori. 8
Con lo Statuto dei Lavoratori non si considerano più le R.I.
come questioni di natura esclusivamente contrattuale, demandate
direttamente alle parti, ma come un terreno di intervento istituzionale.
Gli imprenditori “reagirono con un misto di costernazione e di
rifiuto incappando in un apparato giudiziario che per un momento si
credette veramente investito di una missione riformatrice della società
attraverso quella che i pretori d’assalto definivano l’interpretazione
evolutiva della legge.”9
Lo Statuto dei Lavoratori, rappresenta il mezzo con cui ai
sindacati si aprono i cancelli delle aziende (prima socchiusi o aperti
solo su invito degli imprenditori) e la base da cui parte un’epoca di
partecipazione all’azienda, negoziando preventivamente i suoi
orientamenti e conciliando l’insorgere di conflitti su questioni di minore
importanza.
7F. Mortillaro: In principio era il conflitto.
8Legge n° 300 del 1970
9F. Mortillaro: In principio era il conflitto.
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Il ricorso alla contrattazione, preventiva o successiva in caso di
micro conflitti10 diventa la via normale alla ricerca del consenso e della
partecipazione.
10L’espressione “micro conflitti” si riferisce a conflitti avvenuti a livello di stabilimenti, reparti o unità produttive.
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CAPITOLO I
IL PROTOCOLLO IRI DEL 18 DICEMBRE 1984
L’accordo sottoscritto il 18 dicembre 1984 dopo due anni di
trattative, tra il gruppo IRI e le Confederazioni CGIL, CISL, UIL, ha
aperto una fase di ristrutturazione e trasformazione tecnologica, delle
imprese, attraverso procedure negoziali fondate sulla ricerca del
consenso.
In generale l’accordo nasce dalla convergenza di opinioni sugli
obiettivi di politica industriale del gruppo IRI qui riassunti:
- il consolidamento e lo sviluppo dei settori chiave e la
ristrutturazione e/o riconversione degli altri settori;
- il contributo dei lavoratori a tali obiettivi di risanamento e
sviluppo, con nuove possibilità di espansione delle loro capacità
professionali nelle imprese;
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- una politica attiva del lavoro per l’allocazione razionale delle
risorse;
- linee di comportamento anche negoziale, in grado di favorire la
soluzione di tali problemi.
All’interno del protocollo IRI è anche presente una parte
considerevole dedicata alle procedure per prevenire e risolvere i
conflitti collettivi aziendali, oltre che le procedure per la conciliazione
delle controversie di lavoro individuali e plurime.