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nostra dissertazione, quali sono le dimensioni entro cui questi possono
essere ulteriormente determinati in maniera ancor più esaustiva?
Una prima modalità con cui è possibile analizzare un fenomeno è
quella storica, ed è appunto la via che abbiamo intrapreso con il primo
capitolo, intitolato “Storia ed evoluzione dei concerti e dei festival rock”,
dove, procedendo in ordine cronologico fino ai nostri giorni, si tenterà di
mostrare le varie tappe del processo che ha portato il concerto da semplice
esibizione di gruppi musicali all’interno di modeste sale, fino alla forma
attuale di mega-evento spettacolare, eseguito da rinomate band e da
professionisti del settore.
La nostra partenza, perciò, non potrà diversamente essere collocata
che negli anni Cinquanta, il periodo in cui negli Stati Uniti il rock and roll
vide i propri natali. Questo genere musicale porta con sé una propria
particolare estetica e tutta una serie di mode correlate, tra cui quella di
riunirsi in sale e ballarlo sulle note dei gruppi che lo suonavano dal vivo
durante queste occasioni: è la prima forma nota di concerto rock. Con
l’istituzionalizzazione di questo genere da parte delle radio e dei dischi
incisi, il rock and roll non è più fenomeno di nicchia, ma diventa il tratto
distintivo dei giovani di quegli anni, americani e non. Per questo motivo il
rock and roll comincia a circolare in varie forme tra cui proprio quella del
concerto, i cui tratti tipici vengono esportati anche al di qua dell’Atlantico,
raggiungendo per prima l’Inghilterra e poi il resto dell’Europa.
Con gli anni Sessanta, la musica diventa la voce ufficiale di una
nuova generazione in fermento, la controcultura hippie, che sulla base di
principi come il pacifismo, l’esotismo, le droghe, il sesso libero e, appunto,
la musica rock, fecero di questo decennio la culla ideale per il proliferarsi di
una nuova forma utopica per considerare la società, che non si limitò agli
ambienti musicali, ma andò a lambire i campi più disparati, da quello più
prossimo come l’arte, fino a quelli della comunicazione e della politica. In
7
questo decennio, dunque, i concerti diventano un momento ideale per
ascoltare sia la musica, sia il messaggio che gli artisti lanciavano al proprio
pubblico; e se gli artisti sembravano tutti coalizzati a favore dell’ideale
hippie, cos’altro meglio di manifestazioni di più giorni che univano la loro
musica, la lettura corale di poesie, le proiezioni di documentari e, in
generale, la messa in atto di ogni forma d’arte possibile e immaginabile,
avrebbe potuto attrarre orde di giovani impegnati nel movimento? È la
nascita dei festival, di cui Woodstock è l’emblema supremo.
Gli anni Settanta, invece, segnano la consapevolezza della fine del
sogno di pace e amore del decennio precedente, a favore di una più concreta
e individuale cognizione per cui il futuro diventa sempre di più
un’incognita. Sono comunque anni di estrema sperimentazione musicale,
durante i quali sorgono nuovi grandi gruppi e soprattutto nuovi e più
disparati generi musicali, in aggiunta o in opposizione al rock canonico. Se
quest’ultimo vede tutta una serie di varianti come il progressive, il glam o
l’hard rock, sono i nuovi generi, e l’estetica che si portano appresso, a
caratterizzare i Settanta: si tratta del punk, del reggae e della discomusic.
Ognuno di questi tre, a modo suo, cerca di dare una personale risposta alla
domanda su cosa possa portarci il futuro: totalmente distruttivo il punk,
vagamente positivo il reggae e alquanto incantata e disimpegnata la Disco.
Anche il concerto, salvo rari esempi, segna un passo indietro rispetto alla
magnificenza del decennio precedente.
Con gli anni Ottanta si giunge ad un decennio ricco di contraddizioni
fra il consumismo sfrenato ed edonistico del mondo occidentale,
contrapposto all’emergere delle condizioni di estrema indigenza del
cosiddetto Terzo Mondo. Al primo polo si possono accostare, quindi, la
nascita di MTV, la prima televisione con un palinsesto totalmente musicale,
che fece del videoclip e della totale adesione all’estetica dei nuovi idoli pop
che essa veicolava, la linfa vitale della propria esistenza. Al secondo polo, di
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contro, si può associare la persona di Bob Geldof, ideatore di vari
movimenti ed associazioni a favore del recupero delle condizioni di vita dei
paesi sottosviluppati: una su tutte il megaconcerto organizzato nel 1985, il
primo, grande “Live Aid”, al quale ne seguirono alcuni analoghi, ma di
portata sicuramente minore, nel corso di tutto il decennio rimanente ed oltre.
L’ultima decade del Ventesimo secolo si apre con un magnifico
concerto di Roger Waters (ex membro dei Pink Floyd) a Berlino, proprio
per celebrare la caduta del Muro, con l’erronea convinzione che quello fosse
il simbolo per una nuova e pacifica era che stava per aprirsi. Al contrario,
gli anni Novanta si caratterizzarono per tutta una serie di sanguinosi conflitti
bellici, dal Medio Oriente alla Jugoslavia, verso i quali il mondo della
musica non poté fare altro che organizzare eventi per raccogliere fondi che
in qualche modo aiutassero le popolazioni colpite a rialzare la testa. Sono
anche gli stessi anni in cui sorgono movimenti contro la “globalizzazione”,
ossia un fenomeno di crescita progressiva di scambi e relazioni a livello
mondiale, il cui primo effetto è una decisa convergenza economica e
culturale tra i vari paesi: tradotto, i paesi sottosviluppati, già ampiamente
sfruttati da quelli più avanzati, verranno addirittura uniformati al modus
vivendi dei loro “colonizzatori” commerciali. Tra le varie aziende che
intraprendevano questo iter, cominciavano ad affacciarsi all’opinione
pubblica anche quelle dell’informatica, che proprio durante questo decennio
diedero il via a quella che venne definita come “rivoluzione digitale”, i cui
effetti andarono a lambire ogni ambito della nostra società (musica
compresa) e continuano ancora oggi.
L’ultimo decennio preso in considerazione, quello che stiamo
vivendo ancora oggi, è famoso perché si apre tragicamente con le vicende
dell’11 settembre 2001 e degli attacchi terroristici a New York, per le quali
il mondo della musica fu tra i primi a mobilitarsi per creare eventi che
cercassero di donare nuovamente dignità e voglia di ricominciare alle
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famiglie che in prima persona avevano subito tale tragedia. La voglia di fare
del bene sembra il tratto di unione di questo ultimo decennio, durante il
quale il gap fra i paesi industrializzati e quelli sottosviluppati diventa
sempre maggiore, ed è nuovamente Geldof, con l’ausilio di Bono degli U2,
ad arrivare a stretto contatto con gli ambienti della politica internazionale
sensibilizzandola ed allestendo un’immensa campagna a favore della
cancellazione del debito contratto dai paesi del Terzo Mondo. Il culmine di
questa iniziativa è un concerto storico, di proporzioni stratosferiche, che
coinvolge tutto i paesi aderenti al G8 a raccogliere maggiori fondi possibili
per le persone che hanno meno possibilità: è il “Live 8” del 2005. Il
paragrafo si chiude, per ovvi motivi temporali, al 2007, con una
manifestazione analoga, questa volta organizzata dall’ex vicepresidente
americano Al Gore in favore della salvaguardia ambientale dell’intero
pianeta, denominata “Live Earth”. Ciò che caratterizza maggiormente
questo decennio è come la musica, in qualche modo, si sia sostituita alla
realpolitik nelle questioni più importanti che affliggono il pianeta, e che
nonostante tutto sia riuscita pragmaticamente a fare qualcosa, magari non
del tutto risolutivo, al contrario del lavoro di molti degli uffici istituzionali.
Con il secondo capitolo, invece, intitolato “Il concerto come rito
sociale di aggregazione”, tenteremo di spingerci all’interno dei fenomeni
che stiamo prendendo in considerazione per cercare di capire meglio quali
siano le spinte psicologiche, le motivazioni storiche e sociali per cui un
concerto può definirsi un rituale, al pari di cerimonie analoghe che avevano
luogo in passato come le grandi messe itineranti del Seicento, o quelle
cronologicamente più prossime, come le adunate oceaniche dei regimi
totalitari del Novecento. Il tutto, non prima di avere brevemente definito in
maniera più dettagliata e teorica alcuni termini largamente usati nel corso
del primo capitolo come “cultura”, “cultura di massa” e “cultura pop”,
facendoci soccorrere dall’aiuto dei riferimenti teorici delle scienze sociali e
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di alcuni dei suoi autori che, in maniera più pertinente o meno, si sono spinti
ad analizzare il mondo della musica leggera che li circondava: uno su tutti,
l’esponente della scuola critica di Francoforte, Theodor W. Adorno.
Il rituale vero e proprio del concerto, viene a sua volta analizzato
sotto tre logiche differenti. La prima, che va ad esaminare la “socialità
dell’evento”, tende a focalizzarsi su dinamiche ataviche che caratterizzano
da sempre l’essere umano come il suo “bisogno di riunirsi” (per difendersi,
per pregare, per divertirsi); quello di crearsi una ”aspettativa psicologica”
che in qualche modo doti la propria cittadina, prescelta per l’evento, di una
importanza inaspettata; la ricerca e il fascino della “figura della star”; e
infine la “liberazione” dal quotidiano che il prender parte a questi eventi
regala ai suoi partecipanti.
Esiste poi una branca della semiotica, la “prossemica”, che studia il
significato dello spazio e delle distanze nei rapporti comunicativi
interpersonali, che può venirci comoda per la nostra analisi del rito. Infatti la
metamorfosi del luogo quotidiano scelto per l’allestimento del concerto è un
ulteriore spinta a quella particolare percezione di straordinario che questi
eventi portano con sé: sarà dunque la “scenografia” utilizzata, il mutamento
delle fattezze classiche del “luogo” prescelto, il “tempo” interno del rito e
quello che a sua volta il rito crea all’esterno (tempo normale e tempo di
festa), ed infine i ruoli e i rapporti che si creano tra chi sta sopra e chi sta
sotto al palcoscenico, a rendere il concerto un’esperienza fondamentalmente
unica per tutti gli appassionati che vi prendono parte.
E proprio quest’ultimo aspetto, apre la strada al discorso sul “valore
di questi riti nel lungo periodo”. Tutto ciò che è avvenuto durante quel
particolare concerto, è un unicum oppure è semplicemente un canovaccio
che gli artisti sul palco replicano ad ogni nuova data? Ma quale è, in fin dei
conti, la corretta percezione di un concerto? Quella che si ha nel momento
stesso in cui lo si sta vivendo o quella immediatamente dopo quando le luci
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si sono accese, tutto è finito e si torna a casa, e a mente fredda si ragiona su
quello a cui si è appena assistito? E poi, il rito è quello che si vive
individualmente, magari per la prima volta, oppure è quel sentimento di
comunione e fratellanza che ci fa percepire come amici, come uno dei
nostri, persone mai conosciute prima, delle quali tenderemo anche a copiare
i loro comportamenti durante il concerto perché ci sembrano individui che
sanno il fatto loro in termini di ritualità corretta?
“Individualismo” e “collettività”, “vero” o “artefatto”, “novizio” o
“habitué”, sono tutti termini che sorgono dall’analisi della ritualità del
concerto ma che possono tranquillamente essere utilizzati anche in relazione
ad una particolare ed ulteriore forma di aggregazione: la discoteca e il rave.
Con questo terzo ed ultimo paragrafo del capitolo, tenteremo di fare un
breve excursus riguardante la storia della “musica da ballo” moderna,
partendo dal jazz negli anni Trenta e Quaranta, passando per il già citato
rock and roll, e arrivando alla più convenzionale musica elettronica, dalla
discomusic alla techno. L’analisi successiva va a toccare proprio il rito e le
dinamiche che si mettono in pratica nelle discoteche o durante i rave,
giungendo alla conclusione che se il concerto è dominato da una ritualità
che predilige lo “stare insieme”, l’esperienza nei club è più da vedersi come
una specie di catarsi dalle brutture del mondo esterno, ma in chiave
intimamente individualista.
Il terzo ed ultimo capitolo, infine, dal titolo “Economia e gestione
del concerto”, cercherà di dare al lettore una visione totale del comparto
della musica leggera, con tutti i suoi vari attori e le relazioni che
intercorrono fra di loro. È il caso del primo paragrafo, che partendo dalla
figura dell’artista e del suo staff più intimo (manager, assistente personale,
legale/finanziario ed ufficio stampa), giunge al secondo gradino del sistema
musica, quello industriale, formato dai due grandi pilastri dei promoter e
delle case discografiche.
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Queste, generalmente suddivise in major ed indies, a seconda della
loro ampiezza aziendale e soprattutto per la politica artistica che decidono di
mettere in atto, sono il primo gradino che un artista ha per poter entrare
dalla porta principale del sistema musica. Infatti una casa discografica, una
volta optato per un certo artista, ha il compito di seguirlo, se è il caso
svezzarlo, e dargli i migliori mezzi per la realizzazione del suo prodotto: per
l’appunto l’album. La rivoluzione digitale, dalla metà degli anni Novanta ha
totalmente scombussolato il sistema di lavoro delle etichette discografiche le
quali stanno vivendo una fase di riadattamento delle vecchie logiche
produttive e promozionali e, a fatica, stanno cominciando a fare proprie
quelle del digitale e della sua “musica liquida”, i quali, da nemici, si stanno
invece dimostrando una nuova forma di guadagno e promozione.
È appunto la promozione l’ultimo gradino del sistema musica, quello
formato, cioè, dai vari mezzi di comunicazione con cui un musicista potrà
avere a che fare. Quello generalmente più amato dalla discografia, per
motivi tecnici non indifferenti, è la radio che fa del suono il suo contenuto
principale. La televisione generalista offre alla musica cospicue fette del
proprio palinsesto, ma in generale non vede quest’ultima come un contenuto
ottimale che le garantisca un’audience adeguata; di contro quelle
specializzate, Mtv ed affini, seguono un iter molto simile a quello delle
radio. La stampa, nonostante la propria caratteristica strutturale che le
impedisce di veicolare il suono, ha nonostante ciò un’importanza
ragguardevole in funzione delle recensioni, positive o negative, che i suoi
giornalisti possono fare nei confronti dell’uno o dell’altro artista. Esistono,
infine, i “nuovi media” figli della rivoluzione digitale (computer, i-pod,
lettori mp3, cellulari di ultima generazione) che assolvono
contemporaneamente a funzioni di riproduzione, promozione, ricerca e
acquisto di musica, dando a quest’ultima una ubiquità ed una importanza
che mai aveva riscosso prima.
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Oltre alle case discografiche, il secondo pilastro fondante del sistema
musicale è quello della musica dal vivo e dei suoi produttori. Tra questi,
esistono molte figure che si spacciano per organizzatori di eventi
(multinazionali, enti pubblici, e aziende o soggetti che saltuariamente
decidono di investire il proprio capitale in qualche manifestazione musicale)
ma è senz’altro il settore privato, nella figura dei “promoter”, a svolgere al
meglio questo tipo di lavori. Il compito di questa figura è quello di
occuparsi in toto della perfetto funzionamento della macchina produttiva di
un concerto, che può essere singolo, un tour oppure un festival.
In questo caso il promoter dovrà, nell’ordine, occuparsi della ricerca
e della stesura di un contratto con un artista o un gruppo, curare ogni singola
fase della produzione del concerto vero e proprio (palco, sistema audio e
luci, staff dei lavoranti, security, merchandising, logistica e permessi
amministrativi), curare la promozione sugli altri mezzi ed infine occuparsi
della gestione finanziaria del tutto. Ovviamente per fare tutto ciò si avvarrà
dell’aiuto di altre figure professionali come promoter locali, tour manager e
responsabili di produzione, ognuno con il proprio compito. Il lavoro dei
promoter non è unicamente legato alla realizzazione di manifestazioni
musicali tout-court, ma spesso si prestano a mettere in piedi eventi ulteriori,
al cui interno si fondono linguaggi e modi operativi provenienti da altri
settori dell’entertainment, che spesso si spingono ad una totale ridefinizione
dell’archetipo di concerto: si tratta dei media-event, come possono esserlo
diversamente il Festivalbar, l’Mtv Awards, la Notte degli Oscar o la
manifestazione di apertura delle Olimpiadi.
Il capitolo si chiude con un’analisi dettagliata dei singoli costi che un
impresario dovrà accollarsi per la realizzazione di quello che abbiamo
definito come un “concerto standard”, ossia un’esibizione che riesca a
convogliare almeno quarantamila persone. Per un concerto di tale portata,
dunque, le principali spese organizzative che un promoter dovrà sostenere
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saranno quelle per l’ingaggio degli artisti, la promozione dell’evento,
l’impiantistica e l’attrezzatura per l’allestimento, l’affitto del locale scelto, i
trasporti e la logistica, gli stipendi al personale impiegato e per ultime le
imposte fiscali. Abbiamo ipotizzato che per un evento del genere, almeno
nel nostro Paese, si debba disporre di una cifra di partenza che superi il
milione e mezzo di euro.
Essendoci dunque occupati del concerto rock sotto tre punti di vista
completamente differenti l’uno dall’altro, ma in qualche modo strettamente
correlati, abbiamo comunque optato per una chiusura quantomeno positiva
della nostra dissertazione dato che, per i motivi precisi che troverete nel
paragrafo dedicato alle conclusioni, siamo sicuri che “the show must go on”!
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1. Storia ed evoluzione dei concerti
e dei festival rock
“…I know,
it's only rock 'n’ roll,
but I like it!”
(The Rolling Stones, 1974)
1.1 Anni Cinquanta: le origini
Come spiega Franco Fabbri “il primo festival rock della storia non
ebbe luogo3”! Organizzata nel 1952 da Alan “Moondog” Freed, al secolo
il disk jockey statunitense che per primo coniò il termine “rock and roll”, la
manifestazione avrebbe dovuto fare di Cleveland, nell’Ohio, il punto di
raccolta di tutti quei musicisti che praticavano tale genere (genere, che per la
verità, fu il primo di una serie di clamorosi “furti musicali” da parte dei
bianchi, nella fattispecie del rhythm and blues degli afroamericani), che nel
giro di qualche anno avrebbe conquistato gli Stati Uniti e poi il mondo4. Il
luogo scelto, la Cleveland Arena, aveva una capienza di diecimila posti,
ma il tamtam mediatico creato dalla trasmissione radiofonica di Freed,
aveva convogliato più di trentamila persone, due terzi delle quali erano
giovani bianchi. L’eccessiva e inaspettata affluenza dei fan, unita a
deprecabili scene di distruzione di porte e finestre dello stabile, fece
allarmare le autorità locali che optarono per un sofferto annullamento del
concerto, che, per la cronaca, si tenne poi nell’autunno dell’anno successivo
con il nome di “Moondog’s Rock and Roll Party”. Il rock and roll, dunque,
3
F. Fabbri, “Concerti e festival rock e pop”, p. 1.
4
Idem nota 3.
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si era guadagnato i primi titoli sui giornali5. Alla luce di ciò, la vicenda
appena menzionata, può essere benissimo considerata come la prima pietra
nella messa in opera della storia dei grandi concerti rock capaci di
configurarsi come una delle forme di diffusione più importanti per la musica
nella seconda metà del Ventesimo secolo6.
Inteso in questo senso, allora, il concerto non è sicuramente la prima
espressione di una performance musicale eseguita dal vivo, ma, a differenza
di quelle messe precedentemente in atto, quest’ultimo si distingue da esse
per la supremazia della “funzione estetica” rispetto alle altre come le
interazioni sociali, piuttosto che le danze. Secondo tale prospettiva dunque,
chi analizzerà il terreno della popular music (con i suoi generi, i suoi riti
partecipativi e consumistici) contrapponendola al modus vivendi dei cultori
della musica classica (considerata invece alta, colta), secondo il pensiero e
l’operato di Adorno, tenderà in prima analisi a definire il concerto rock
come l’apice della manifestazione creata per l’intrattenimento facile, del rito
di massa totalmente estraneo alla cultura propugnata dall’arte con la “a”
maiuscola, dato che, sostanzialmente, la musica pop viene percepita solo
come uno sfondo sonoro [in un corpo sociale dove] se nessuno è più in
grado di parlare realmente, nessuno è più nemmeno in grado di ascoltare
[e] la potenza del banale si è estesa sulla società nel suo insieme 7.
Tuttavia, superando i giudizi valoriali adorniani, osservando lo
sviluppo della popular music si può sostenere con altrettanta sicurezza che
il concerto rock non sarebbe mai nato se l’attenzione - di natura [appunto]
inequivocabilmente estetica - per vari generi della popular music (a
cominciare proprio dal rock’n’roll) non fosse diventata predominante su
altre funzioni assolte da quelle stesse musiche in altri contesti; già da molto
5
M. Paytress, Io c’ero. I più grandi show della storia rock & pop , p. 17.
6
Idem nota 3.
7
T.W. Adorno, Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto, tratto da R.
Middleton, Studiare la popular music, p. 59.
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tempo il termine “concerto”, in varie lingue, era utilizzato per indicare
occasioni di ascolto di vari generi popular nelle quali l’attenzione per lo
spettacolo e per l’esecuzione musicale fosse posta in primo piano rispetto
ad altre funzioni, principalmente il ballo. Ciò che cambia con il rock’n’roll,
soprattutto per il fatto che questa musica si indirizza ad un pubblico
giovanile, è che il ballo diventa un accessorio: si va [al concerto]
principalmente per vedere e ascoltare, e naturalmente si può “anche”
ballare.8 È proprio in tal senso che si può affermare che il rock and roll
segni un mutamento radicale nella società americana di quegli anni, durante
i quali si è configurata una graduale e particolare autonomia estetica della
musica pop.
Il passaggio dell’esibizione live come sottofondo per i balli
infiammati, allo spettacolo di artisti altrettanto o addirittura più spettacolari
sul palco che i ballerini in pista (dalla “pelvica” di Elvis Presley alle
esibizioni spiritate e infuocate di Jerry Lee Lewis), influenzano l’estetica
dello stile musicale che andava delineandosi, nonché la forma
convenzionale delle canzoni rock che, ad esempio, necessitavano la
presenza a due terzi del brano di un assolo per amplificare la performance
straordinaria degli strumentisti che si esibivano su quei palchi. Oltre che
dalla spettacolarità degli artisti, gli anni Cinquanta sono inoltre caratterizzati
dall’enfasi partecipativa del pubblico: l’entusiasmo dei partecipanti
formalizza lo stereotipo, che si perpetuerà nel tempo fino ad oggi, del
pubblico urlante. Questa sorta di paradigma turbolento del concerto di
musica rock aveva ormai superato i confini degli Stati Uniti, diffondendosi
anche in Europa, ed aveva varcato oltre che le frontiere geografiche anche
quelle dei generi musicali, andando a diffondersi in tutte quelle
manifestazioni di musica cosiddetta “giovane”, anche quando non si trattava
strettamente di rock and roll.
8
F. Fabbri, “Concerti e festival rock e pop” , p. 2.