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a qualunque tipo di organizzazione sia del settore privato, ma anche e soprattutto
del settore pubblico.
Si sottolinea del settore pubblico perché, come si vedrà nel quinto paragrafo
del primo capitolo, è quello che vive con maggiore difficoltà la valorizzazione del
capitale umano.
Alla luce di questa osservazione, prende vita la seconda parte di questa tesi
che sarà dedicata ad una indagine svolta sul Corpo di Polizia Locale del Comune di
Castellammare di Stabia, una città difficile della provincia di Napoli. Gli agenti che
compongono questa organizzazione sono troppo spesso additati come una delle
cause principali del caos in cui si trova a vivere la cittadinanza in quanto incapaci,
oltre che svogliati, nel compiere il loro dovere.
L’obiettivo di questa ricerca non consiste nel voler assolvere i Poliziotti
Municipali dalle loro presunte responsabilità, ma nella volontà di dimostrare la tesi
secondo la quale i componenti di questo ente pubblico, i vigili urbani di
Castellammare di Stabia, si trovino a vivere ed operare in una condizione
inadeguata allo svolgimento del proprio ruolo.
Dalle interviste effettuate su un campione selezionato sulla base di criteri
relativi all’anzianità di servizio ed al genere, è risultato che gli operatori si auto-
percepiscano come demotivati e, quasi del tutto, rassegnati a poter giocare un ruolo
significativo nel loro contesto lavorativo. La demotivazione deriva, soprattutto, dal
sentirsi scarsamente stimolati, valorizzati, tutelati ed equipaggiati da parte della loro
organizzazione, non tanto dai superiori di grado, quanto dalle autorità politiche
comunali. La rassegnazione, invece, proviene dal sentirsi notevolmente screditati e
criticati dai destinatari delle loro mansioni. Questi ultimi, ovvero l’utenza costituita
principalmente dalla cittadinanza stabiese, stando alle interviste, rappresentano un
muro di gomma per gli agenti di Polizia Locale, in quanto ogni azione, sia
preventiva sia repressiva, messa in atto nei confronti dei cittadini non è in grado di
sortire, se non in ridottissima parte, effetti positivi e, dunque, di modificare
atteggiamenti sbagliati e “fuori-legge” anche di bassissimo livello, quali possono
essere la sosta vietata o la guida di moto e motorini senza l’uso casco.
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L’obiettivo che, invece, “non” si pone questo lavoro è quello di voler gettare
fango su una realtà difficile del sud Italia, fin troppo spesso vituperato e diffamato
da mass-media e opinione pubblica, oltre che offeso e sfruttato da diversi
amministratori politici locali e nazionali. Piuttosto, sarebbe il caso di far luce su
questo tipo di situazioni con la volontà di spezzare un circolo vizioso che rischia di
generare problemi e problematiche ben più gravi e difficilmente sanabili ai quali si
rischia di abituarsi.
In fondo, la demotivazione e la rassegnazione di chi, come i vigili urbani, ha
il dovere di “mettere e mantenere le cose a posto”, non costituisce, forse, una
sconfitta per tutto il sistema sociale? E se anche il sistema sociale si rassegnasse a
questo stato di cose? Dove può condurre la rassegnazione? La meta ideale sarebbe
la speranza. Ma quanto appare difficile, invece, l’approdo al fallimento totale delle
società?
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Capitolo primo
L’organizzazione
1.1 Tipologie organizzative
Da sempre, il lavoro rappresenta lo sforzo compiuto dall’uomo per
provvedere al suo sostentamento. Ma a partire dalla rivoluzione industriale, con
l’avvento di quelle che per l’epoca risultavano essere le nuove tecnologie, esso
assume una connotazione ancor più determinante, non solo per il singolo individuo
e le problematiche che lo riguardano, ma anche per l’azienda e la società stessa.
Il problema nasce dal fatto che, soprattutto durante la fortissima
industrializzazione, di fianco alle nuove enormi potenzialità produttive, non si
muovono di pari passo i metodi per realizzarle, ancora troppo arcaici per sostenere
un impulso di tale portata.
All’interno di questo nuovo scenario, si avverte l’esigenza di organizzare
l’azienda in modo che possa rendere al massimo, sfruttando al meglio tutte le
possibilità, sia quelle proprie che quelle dettate dall’esterno.
Un primo passo viene compiuto, attraverso il cosiddetto modello classico,
verso il concepimento dell’organizzazione come sistema razionale, ovvero uno
strumento atto a realizzare fini predeterminati attraverso una razionalizzazione
estrema delle azioni, tale da garantire la massima efficienza. Si punta, così, sulla
formalizzazione della organizzazione, cioè sulla precisione e l’esplicitazione delle
regole e dei ruoli, a prescindere dagli individui che agiscono nella struttura, in
maniera tale che non vi siano rallentamenti o impedimenti al processo produttivo.
A questo scopo, il modello classico si fonda su diversi principi
fondamentali, tra cui la gerarchia, l’unità di comando perché ogni membro faccia
7
capo ad un solo superiore riguardo ad una funzione, la limitata ampiezza del
controllo per i superiori, la specializzazione degli individui per un’efficienza
maggiore dell’intero sistema di produzione
1
.
Tra i più importanti esponenti della scuola classica, si possono citare
Frederick Taylor, noto come colui che, a partire dal 1911, in modo pragmatico, ha
saputo inventare metodi scientifici per pianificare ed organizzare il lavoro; Henry
Fayol, che si è concentrato, invece, sulla direzione e sui dirigenti; Max Weber, che
ha studiato le caratteristiche delle neonate strutture burocratiche; Herbert Simon,
che ha centrato l’attenzione sul livello socio-psicologico, analizzando l’effetto delle
caratteristiche strutturali dell’organizzazione sugli individui.
Il limite principale di un modello di questo tipo sta nel concepire
l’organizzazione principalmente, se non esclusivamente, come un mezzo.
A partire da questo dato, intorno agli anni Venti prende vita un nuovo
modello, quello delle relazioni umane. In contrasto con quello classico, ritenuto
eccessivamente razionale, l’approccio relazionale vuole intendere l’organizzazione
come un sistema naturale. Queste riflessioni e la loro ulteriore maturazione sono
frutto, senz’altro, anche dei nuovi impulsi forniti da discipline quali la sociologia e
la psicologia sociale, e del bisogno di rinnovamento riscontrabile nella società
industriale intorno agli anni ‘50. Infatti, il contesto dell’epoca vedeva la crescita
dimensionale delle aziende, cosa che comportava maggiori difficoltà nel
coordinamento; lo sviluppo di nuovi settori industriali, sconosciuti ai teorici
dell’approccio classico; l’espansione del settore terziario; la maggior importanza,
nelle aziende, di funzioni quali la programmazione, la gestione del personale, ecc.;
infine, la presenza sempre più robusta del sindacato ad influenzare il processo
decisionale delle gerarchie aziendali.
I teorici di questo approccio non escludono il fatto che la specificità degli
obiettivi e la formalizzazione siano caratteristiche peculiari di un’organizzazione; al
tempo stesso, però, essi sostengono che, all’interno del corpo sociale, a tale struttura
formale se ne affianca una informale. Infatti, chi entra a far parte di
1
A. Pignatto-C. Regazzo, Organizzazione e qualità nei servizi socio-sanitari, Roma, Carocci Faber, ,
2002.
8
un’organizzazione, porta con sé non soltanto la forza delle braccia, ma anche quella
delle idee, delle aspettative, dei sentimenti, delle abilità, dell’intelligenza, ecc. Ed è
proprio questa la risorsa più preziosa che sprecano le organizzazioni
eccessivamente formalizzate, auto-condannandosi ad essere inefficaci.
Da questo principio deriva che, un’organizzazione, ancor prima di essere
considerata uno strumento per raggiungere obiettivi prefissati, è una collettività, un
soggetto collettivo che ha come primo scopo lo stare insieme. Evidentemente, le
organizzazioni non possono concentrarsi soltanto su obiettivi di produzione, ma
anche, e soprattutto, su obiettivi di supporto, sul mantenimento del sistema stesso:
la propria sopravvivenza. A questo punto, per quadrare il discorso, è opportuno un
sillogismo: se l’organizzazione è un fine in sé che deve badare soprattutto alla
propria sopravvivenza, al proprio equilibrio interno, va da sé che, nel momento in
cui questo obiettivo dovesse essere a rischio, essa deve abbandonare il
perseguimento di ogni altro obiettivo pur di salvare se stessa.
Elton Mayo e Chester I. Barnard possono essere considerati i maggiori
rappresentanti di questo approccio. Il primo si è concentrato, particolarmente, sul
fattore umano e sull’anomìa della società industriale, mentre il secondo sulla
cooperazione. Ambedue, però, hanno considerato gli aspetti informali fondamentali
per la vita stessa delle organizzazioni
2
.
Un terzo approccio cerca di trovare un punto di equilibrio tra lo “Scientific
Management” e lo “Human Relation”, attribuendo uguale importanza, ai fini della
produzione, sia agli elementi tecnici che a quelli psico-sociali. Il modello sistemico
nasce a partire dalla presa di coscienza che un’organizzazione è un sistema, ovvero
un insieme di fenomeni o elementi orientato verso una finalità. Ovviamente, tali
fenomeni o elementi devono esser messi in relazione tra di loro in maniera
coordinata, logica e funzionale alla finalità stessa.
Con questo approccio, si guarda l’organizzazione come un processo
(processing) atto alla trasformazione degli input (elementi di entrata) in output
(elementi di uscita) da mettere, poi, a confronto con gli outcome (risultati attesi).
2
Ibid.
9
Nell’organizzazione come sistema, troviamo diversi organi che partecipano
al raggiungimento delle finalità, svolgendo funzioni che si ripercuotono
direttamente e/o indirettamente sugli altri organi proprio in virtù delle relazioni di
cui sopra. In questo modo, qualsiasi cambiamento che si verifichi in uno di questi
organi provoca cambiamenti anche negli altri.
Ad influenzare i vari elementi in relazione tra loro, non sono soltanto gli
organi interni, vale a dire le parti dell’organizzazione. Infatti, anche le sollecitazioni
provenienti dall’ambiente esterno, il supersistema in cui un sistema è inserito,
hanno il potere di ispirare un cambiamento nell’organizzazione. Ora, nella misura in
cui un sistema è capace di produrre cambiamenti, alla luce delle spinte provenienti
dal supersistema, esso sarà definito statico o adattato
3
.
1.2 Il sistema aperto
Con il termine ambiente si vuole intendere l’insieme di fenomeni esterni ad
un’organizzazione, ma in grado di esercitare una qualche influenza rilevante sulla
stessa.
Ovviamente, ogni tipo di organizzazione deve avere a che fare con fenomeni
esterni sui quali non può esercitare un controllo diretto. Questo vuol dire che
un’organizzazione non è mai un fatto esclusivamente privato. Basti pensare che
essa opera in un contesto in cui sono presenti altri enti, utilizza risorse comuni,
quali infrastrutture e reti di comunicazione, e costituisce, a sua volta, una risorsa per
la collettività, dato che produce ricchezza, crea occupazione, induce il sorgere di
altre attività. Quindi, è importante sottolineare che l’organizzazione non gioca
soltanto un ruolo passivo, in quanto, proprio attraverso le sue attività, i suoi
prodotti, le sue esigenze, ecc., essa ha la possibilità di modificare l’ambiente in cui
opera.
3
Ibid.