2
creazione di nuovi concetti, nonché di realizzazione di nuovi prodotti/servizi sulla
base di tali concetti. Proprio il processo di sviluppo di nuovi prodotti costituisce
l’aspetto centrale della creazione di nuova conoscenza organizzativa e deve perciò
rispondere a questa prerogativa strutturandosi secondo logiche nuove. Infatti, per
la molteplicità di competenze e attività “non di routine” che mette in gioco, tale
processo risulta uno dei contesti in cui le conoscenze sono maggiormente
suscettibili di assumere una pluralità di significati. La crescente complessità , non
permettendo di adattare il processo innovativo alle istanze ambientali, porta a
focalizzare l’attenzione manageriale verso attività di sperimentazione per
alimentare in modo continuativo la generazione di nuova conoscenza e di nuove
idee. E in questo panorama, l’organizzazione per team di progetto viene
considerata quale principale soluzione per la realizzazione del processo
innovativo. I membri del team, infatti, rappresentano quelle persone che realmente
e concretamente trasformano idee vaghe, concetti e specifiche di prodotto nel
progetto di un prodotto innovativo sviluppando il potenziale di conoscenza che
risulta dalla combinazione dei patrimoni di conoscenza di cui essi sono portatori.
Il metodo di ricerca adottato per affrontare in quest’ottica la gestione della risorsa
di conoscenza finalizzata allo sviluppo di nuovi prodotti si rispecchia nella
struttura finale conferita al lavoro. Esso, infatti, è organizzato in due parti. Nella
prima parte, comprendente i primi tre capitoli, è stata svolta un’analisi teorica
finalizzata ad una rassegna critica e interpretativa della letteratura esistente sul
tema della conoscenza come risorsa strategica per indirizzare il management e
l’organizzazione del processo innovativo. Nella seconda parte è stata svolta una
ricerca su un’impresa internazionale operante nel nostro Paese, volta ad indagare
alcune delle tematiche emerse dall’analisi teorica.
Più precisamente, nel primo capitolo viene effettuata un’analisi della risorsa di
conoscenza a partire dall’approccio resource-based, considerato come
fondamentale momento di rottura rispetto agli approcci tradizionali indirizzati
all’evoluzione dell’interfaccia strategia-ambiente competitivo. Di seguito, la
conoscenza viene esaminata dal punto di vista tassonomico, per evidenziare in
particolare le differenze rispetto ai concetti di dati e informazioni. L’esame
procede attraverso la spiegazione della dicotomia tra conoscenza tacita ed
3
esplicita per poi esplorare i connotati che essa esprime a livello di singolo
individuo, di gruppo, d’impresa e interaziendale.
Il secondo capitolo prende in considerazione due differenti prospettive teoriche in
merito al processo di creazione di nuova conoscenza. La prima è quella
costruzionista. Essa interpreta il sapere come una creazione (e non una
rappresentazione) unica prodotta da ciascun individuo attraverso la sua esperienza
complessiva, fisica oltre che mentale. Un sapere che, come si è visto, è per una
parte codificato, ma in gran parte resta implicito, inespresso, non facilmente
condivisibile. La seconda prospettiva è quella cognitivista, che vede il sapere
come processo di rappresentazione e modellizzazione della realtà e delle sue
componenti. L’apprendimento si configura cioè come il frutto di processi
unidirezionali attraverso cui individui, gruppi e organizzazioni sviluppano una
rappresentazione della realtà più complessa e completa, la codificano e la
trasmettono ad altri. La parte centrale del secondo capitolo analizza nello
specifico le condizioni organizzative che promuovono la creazione di conoscenza,
analizzando il ruolo del contesto sia nell’ambito della singola impresa sia in
presenza di differenti divisioni del medesimo gruppo.
Il terzo capitolo si focalizza sul tema dello sviluppo di nuovi prodotti inteso come
processo fondamentale attraverso cui misurare il successo conseguito nella
costruzione di nuovo sapere individuale e organizzativo. In particolare, viene
evidenziata la presenza di una dicotomia tra approccio razionalista e approccio
cognitivo. Il primo si caratterizza per una progettazione razionale delle principali
variabili manageriali che porta a un’articolazione delle varie fasi del processo
innovativo strettamente connessa all’adattamento nei confronti del contesto
ambientale. L’approccio cognitivo esprime, invece, la necessità di garantire una
continua iterazione tra le molteplici competenze necessarie al dispiegamento della
capacità innovativa dell’impresa. L’ultima parte del capitolo esamina il
funzionamento dei team di progetto e le principali variabili che ne determinano
efficienza ed efficacia d’azione nel consentire di “incorporare” nuova conoscenza
in nuovi prodotti.
Nell’ultimo capitolo l’analisi si sposterà dalla teoria all’evidenza empirica,
studiando il caso del centro di R&S di una multinazionale anglo-francese
4
impegnata nel settore dell’ICT e che ha sede sul territorio campano. Attraverso
un’intervista realizzata con il direttore del Centro e l’analisi di dati ambientali,
sarà possibile osservare nella realtà d’impresa il peso determinante che ha assunto
la risorsa di conoscenza nell’indirizzare le attività del Centro e attraverso quali
modalità il management è in grado di svilupparne il potenziale per migliorare la
performance aziendale.
Al termine di questo lavoro ho avuto modo di apprezzare quanto importante sia
l’impegno di un team di lavoro per la produzione di conoscenza. Desidero perciò
esprimere un sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito alla
realizzazione di quella base di conoscenza da cui si è generato il presente lavoro.
Un primo ringraziamento è rivolto all’ing. Angelo Rondine per la disponibilità
prestata in fase di realizzazione della ricerca empirica. La chiarezza espositiva e la
ricchezza di contenuti emersi dall’intervista da lui rilasciata, in aggiunta alle
dettagliate informazioni sui dati aziendali offerte dal suo staff, hanno apportato un
contributo prezioso in tutte le fasi di svolgimento dell’indagine.
Il professor Francesco Izzo mi ha fornito un supporto essenziale. Per i ricchi
suggerimenti in fase di impostazione del lavoro, per il conforto che mi ha offerto
durante il lungo percorso della ricerca e per i continui stimoli che mi hanno
permesso di migliorare progressivamente il presente scritto, gli sono
profondamente grato.
Ringrazio di cuore Anna Rita, con cui quotidianamente mi confronto e con cui
ormai condivido il mio “patrimonio cognitivo”. Ha curato la parte grafica del
lavoro e mi ha offerto costantemente suggerimenti e scambi di idee per la sua
realizzazione. Farò di tutto perché il nostro team sia sempre vincente.
Un grazie infinito ai miei genitori che mi hanno sostenuto moralmente e
materialmente durante tutto il percorso dei miei studi. Sono e saranno sempre il
mio riferimento più importante e la mia inesauribile fonte di comprensione e
d’amore.
5
CAPITOLO I
Le risorse di conoscenza come determinanti
del vantaggio competitivo
6
1.1 Le risorse e competenze dell’impresa
La conoscenza d’impresa è stata oggetto, in letteratura, di due differenti percorsi
di studio. Il primo ha radici negli anni ’60 e rappresenta l’esplorazione sul terreno
aziendale di uno studio, quello psico/sociologico, che ha avuto inizio ben prima
della fine dell ‘800
1
. Il secondo, invece, sviluppatosi in campo specialistico,
rappresenta un ulteriore passo nella ricerca accademica delle fonti del vantaggio
competitivo aziendale e, precisamente, quello compiuto in risposta alla
consolidata turbolenza dei mercati, all’indeterminatezza dei confini settoriali e
all’allargamento della concorrenza
2
. In tal caso, l’analisi si è mossa in direzione
della dimensione interna dell’azienda, visto che il contesto esterno si evolveva in
maniera complessa e difficile, se non addirittura impossibile, da governare.
La resource-based view (Rbv) costituisce, in tal senso, un primo essenziale punto
di rottura rispetto al tradizionale focus d’analisi che aveva ad oggetto l’interfaccia
strategia-ambiente competitivo. Essa, infatti, considera corretto per un’impresa
definire il campo d’attività basandosi sulle proprie capacità di fare le cose
piuttosto che affidarsi alla prospettiva di soddisfare le esigenze del mercato,
correndo il rischio di non disporre delle competenze necessarie. L’approccio
basato sulle risorse vuole fondarsi su delle certezze – ciò che l’impresa è capace di
fare – per interpretare e conferire valore a qualcosa di estremamente variabile ed
incerto come i bisogni che l’impresa sarà in grado di soddisfare. Per cui, quando
le condizioni esterne cambiano, l’identità dell’impresa può essere definita sulla
base delle risorse e competenze interne, elementi molto più stabili delle prime.
1
La psicologia sociale si è affermata agli inizi del ventesimo secolo come la scienza che ricollega
l’analisi dei processi psichici negli individui con l’analisi delle dinamiche sociali a cui essi
partecipano, studiando il modo in cui le esperienze psicologiche sono interconnesse con l’ambiente
sociale. I capiscuola di tale percorso scientifico possono identificarsi in Cattaneo C. (1886),
Baldwin J.M. (1913), Piaget J. (1913), Vygotskij L.S. (1932). La letteratura manageriale che ha
fatto riferimento a tali studi sarà esaminata attraverso le opere di Polanyi M. (1966) e Machlup F.
(1967).
2
Il riferimento è, in particolare, agli studi di Hamel e Prahalad (1990), Leonard-Barton D.(1992)
Grant R. (1994).
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Di qui lo spostamento dell’analisi all’interfaccia strategia-risorse e competenze
dell’impresa. La Rbv trova la sua più lineare enunciazione in Grant (1994). Egli,
infatti, nel tentativo di spiegare perché alcune imprese sono in grado di stabilire
posizioni di vantaggio competitivo sostenibile e, così facendo, di ottenere
performance superiori alle medie di settore, considera l’impresa come un coacervo
unico di risorse e capacità idiosincratiche. L’obiettivo e ruolo primario del
management è, perciò, di massimizzare il valore creato attraverso l’ottimale
allocazione delle risorse e competenze esistenti, promuovendo
contemporaneamente lo sviluppo della base di risorse necessarie per il futuro.
La risorse vengono assunte non solo come il motore, la forza d’impulso del
processo strategico, ma come punto di partenza e di arrivo. È in base al
patrimonio di risorse e competenze possedute o da acquisire che l’impresa
determina il suo orizzonte strategico, i suoi orientamenti di fondo, la sfide
competitive cui è in grado di partecipare. Ogni organizzazione può e dovrebbe
perseguire soltanto strategie compatibili con il suo patrimonio, reale e potenziale,
di risorse.
Il nuovo approccio sostenuto da Grant si esprime nella considerazione che
“quando l’ambiente esterno è caratterizzato da continui mutamenti e se tecnologie
diverse competono per soddisfare i medesimi bisogni e l’identità dei clienti
cambia velocemente, allora l’orientamento che si focalizza sui fattori esterni non
offre più un fondamento solido per la formulazione di una strategia di lungo
periodo” (Grant 1994, p.76).
Nello stesso anno in cui Grant pubblicava il suo libro, Hamel e Prahalad (1994)
hanno confermato l’approccio di fondo della Rbv valutando molte grandi imprese
statunitensi dietro una prospettiva nuova: da portafoglio di attività a portafoglio di
competenze (core competence). Le competenze, nell’analisi proposta dai due
autori, costituiscono la base conoscitiva e relazionale attraverso cui l’impresa può
percepire e soddisfare bisogni rilevanti, offrendo una serie di soluzioni, delineate
nelle produzioni finali, alle esigenze espresse o latenti dei clienti, superiori a
quelle proposte dai concorrenti.
8
La reale fonte del vantaggio competitivo diventa, così, l’abilità di creare, a un
costo più basso e più velocemente dei concorrenti, le competenze distintive che
danno vita a prodotti innovativi; abilità che il management deve consolidare in
capacità produttive e tecnologiche a livello di tutta l’azienda.
L’approccio competence-based, in definitiva, chiede al management:
1. di coinvolgere il personale a tutti i livelli e tutte le funzioni;
2. di promuovere la convergenza di individui e sfruttare così l’opportunità
d’integrare le loro competenze con quelle di altri in modo innovativo;
3. di applicare e condividere la competenze in modo continuativo,
programmato, organizzato, visto che le competenze di base non
diminuiscono con l’uso, bensì aumentano quanto più sono utilizzate; esse
richiedono di essere alimentate e protette, pena il loro indebolimento.
Questi due approcci costituiscono la base sulla quale numerosi altri autori hanno
disegnato la propria teoria in materia di strategia aziendale. A questo punto, come
e perché fra tutte le risorse tangibili e intangibili dell’impresa, una di esse, la
conoscenza, ha amplificato il proprio ruolo fino ad assurgere a quello di risorsa-
chiave e diventare così il focus d’analisi per un’ulteriore evoluzione
dell’approccio basato sulle risorse? E ancora, dove risiede la conoscenza in
azienda e cosa effettivamente intendiamo per conoscenza? E’ alla risoluzione di
questi interrogativi che s’ispirano i prossimi paragrafi.
9
1.2 Che cos’è la conoscenza
E’ necessario, innanzitutto, chiarire somiglianze e differenze fra i concetti di
conoscenza, dati e informazioni, spesso utilizzati come sinonimi. La letteratura è
ricca di considerazioni dedicate alla chiarificazione dell’argomento.
Berger e Luckman (1966) hanno sottolineato un nesso evidente tra informazioni e
conoscenza. Essi sostengono che le persone che interagiscono entro un
determinato contesto storico/culturale condividono informazioni, a partire dalle
quali elaborano una conoscenza socialmente condivisa che ha per essi valore di
realtà e da cui sono influenzati nelle loro valutazioni, nella loro condotta e nei loro
atteggiamenti. Allo stesso modo, in un’impresa, la visione dell’organizzazione che
un leader presenta come strategia viene trasformata in conoscenza su un piano
organizzativo attraverso l’interazione dei membri dell’impresa con il contesto,
interazione che a sua volta influisce sul comportamento economico dell’impresa.
Analogamente, Machlup (1980) ha considerato l’informazione come un fattore di
mediazione, o un materiale necessario a produrre e costruire conoscenza, che
influisce su quest’ultima ristrutturandola o integrandola con nuovi elementi.
Anche la definizione di Dretske (1981) si muove in questa direzione:
“L’informazione è un bene capace di produrre conoscenza; è il veicolo di un
segnale che può far scattare un processo di apprendimento. La conoscenza è
credenza prodotta dall’informazione” (Dretske 1981, p.87).
Le impostazioni analizzate portano a considerare, dunque, le connessioni che si
sviluppano tra dati, informazioni e conoscenza. Bohn (1994) ne ha proposto una
rappresentazione che configura i tre concetti come elementi di un continuum
(fig.1.1).
10
Figura 1.1 Il continuum della conoscenza.
Fonte: Bohn (1994).
Bohn afferma che i dati sono “fatti, accadimenti, eventi” che diventano oggetto di
una misurazione di qualunque tipo, mentre l’informazione è il risultato della
correlazione e dell’organizzazione dei dati. La conoscenza, infine, sulla base delle
informazioni recuperate, permette di ottenere attendibili predizioni su fatti,
accadimenti ed eventi futuri.
Davenport e Prusak (1998) hanno raccolto quest’impostazione secondo cui i dati
rappresentano una collezione di fatti distinti e oggettivi che emergono da
determinati eventi. Normalmente, sostengono i due autori, nell’impresa si tende
ad istituire un sistema di gestione dei dati il meno centralizzato possibile in modo
da renderli disponibili su richiesta da qualsiasi postazione informatica, ma la
struttura di base e le modalità di immagazzinamento e utilizzo restano le stesse in
qualsiasi sistema. Evidentemente, i dati non posseggono un significato intrinseco.
Un dato descrive solamente una parte di quello che accade; non formula nessuno
giudizio o interpretazione e non fornisce alcuna base sostenibile per intraprendere
un'azione. Se anche l'attività decisionale può richiedere l'utilizzo di dati, questi
non potranno mai suggerire che cosa è meglio fare. I dati nulla dicono circa la
propria importanza o irrilevanza. Tuttavia, sono fondamentali in
(Dati correlati, aggregati e
consolidati)
(Fatti e misurazioni non correlati)
DATI
INFORMAZIONI
CONOSCENZA
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un'organizzazione perché costituiscono la materia prima essenziale per la
creazione di informazioni.
La parola "informare" originariamente ha significato "dare forma" e l'
informazione ha assunto il significato di strumento in grado di plasmare la
persona che l'ottiene, consentendole di modificare la proprie prospettive o
percezioni. Ne segue perciò che il destinatario, non il mittente, decide se la
comunicazione che ottiene è realmente informazione, ossia se veramente lo
informa. Diversamente dai dati, le informazioni hanno un significato intrinseco.
Non solo potenzialmente sono in grado di plasmare il destinatario, ma hanno una
forma: sono organizzate per raggiungere un determinato scopo. Un dato diviene
informazione quando il suo creatore vi aggiunge significati ulteriori ed è possibile
trasformare dati in informazioni aggiungendo valore in vari modi. Davenport e
Prusak ne considerano i seguenti:
- contestualizzazione: raggruppamento dei dati sulla base delle scopo dell’analisi;
- categorizzazione: scomposizione dei dati in unità di analisi e componenti-chiave;
- calcolo: analisi matematica o statistica dei dati in possesso;
- correzione: rimozione degli errori dai dati;
- condensazione: sintesi dei dati in una forma più concisa.
Bisogna, sostengono gli autori, concepire “l'informazione come quel dato che crea
una differenza" (pag.3), mentre la conoscenza “è il frutto di menti al lavoro"
(pag.5). La conoscenza si configura, cioè, come una miscela fluida di esperienze,
valori, informazioni contestualizzate e intuizioni che provvedono a creare una
struttura mentale in grado di valutare e incorporare nuove esperienze e nuove
informazioni. Nasce ed è applicata nelle menti dei knowers. Nelle organizzazioni,
spesso è "incastrata" non solo in documenti, ma anche in routine organizzative,
processi, pratiche e norme. Secondo Davenport e Prusak, la conoscenza proviene
dalle informazioni, così come le informazioni vengono dedotte dai dati. Se le
informazioni devono diventare conoscenza, è il singolo individuo che deve
virtualmente esercitare tutto il lavoro di conversione. Questa trasformazione si
realizza attraverso:
12
- il paragone: come si possono confrontare le informazioni riguardo questa
situazione con altre situazioni di cui si è venuto a conoscenza?
- le conseguenze: che implicazioni hanno le informazioni per decisioni e azioni?
- i collegamenti: come può questo frammento di conoscenza essere riferito ad
altri?
- la conversazione: cosa pensano le altre persone riguardo questa informazione?
Queste attività intervengono sia nelle singole persone che tra di esse. Mentre è
possibile ritrovare dati in note o operazioni, e le informazioni nelle
comunicazioni, si può ottenere conoscenza solo da individui o gruppi di
individui.
Nonaka (1994) ha, a tal proposito, evidenziato proprio la necessità di tenere in
considerazione la componente soggettiva per comprendere il valore intrinseco del
sapere detenuto da ogni individuo. Egli sostiene, infatti, che la conoscenza,
diversamente dalle informazioni, concerne le credenze e il coinvolgimento. È cioè
funzione del punto di vista, della prospettiva o dell’intenzione del singolo. In
secondo luogo, la conoscenza, diversamente dalle informazioni, riguarda l’azione.
È sempre diretta a un fine. Infine, la conoscenza, come l’informazione, concerne
significati; è specifica del contesto e relazionale. “L’informazione offre una nuova
prospettiva di interpretazione di eventi e oggetti, che permette di cogliere
significati in precedenza nascosti o di gettare luce su relazioni inattese. Essa può
essere considerata sia dal punto di vista “sintattico” (in termini quantitativi, di
volume, prescindendo da qualsiasi significato intrinseco) che da quello
“semantico”, che si concentra proprio sul significato veicolato dal messaggio. È
questo secondo aspetto quello più rilevante nel processo di creazione della
conoscenza : cogliere la creazione di nuovi significati a partire dal caos
magmatico ed equivoco dell’informazione”. (Nonaka 1994, p.48)
L’informazione, egli afferma, è un flusso di messaggi, mentre la conoscenza si
sviluppa a partire da questo flusso materiale, ancorato nelle credenze e nei valori
di cui si è portatori. In questa accezione, la conoscenza diventa “qualcosa di
intimamente connesso all’azione umana”.
13
Anche McDermott (1999) ha valutato che la conoscenza deriva dall’esperienza,
non solo da quella “grezza”, effettivamente compiuta, ma anche da quella su cui
abbiamo riflettuto e a cui abbiamo dato senso confrontandola con quella degli
altri. E’ l’esperienza che, a suo avviso, è “informata” dalle teorie, fatti e
comprensioni, è l’esperienza che ci permette di dare un significato alle cose, in
relazione ad un campo o ad una disciplina. La conoscenza è il frutto di ciò che
conserviamo come risultato del pensiero volto alla risoluzione di un problema che
affrontiamo sulla base delle esperienze realizzate e rielaborate. “Dal punto di vista
della persona che conosce, la conoscenza è un insieme di intuizioni circa l’uso
dell’informazione e dell’esperienza” (McDermott, 1999).
1.3 La dimensione epistemologica della conoscenza
Nei prossimi paragrafi del presente capitolo l’analisi prenderà in esame l’aspetto
epistemologico delle risorse di conoscenza, che indaga la struttura e i metodi di
osservazione, e l’aspetto ontologico delle stesse, che studia come la conoscenza
creata dagli individui viene trasformata al livello di gruppi e di organizzazione.
Tale distinzione risulta fondamentale perché è necessario comprendere come, da
un punto di vista epistemologico, le risorse di conoscenza presentano
connotazioni estremamente diverse che generano modalità di sfruttamento
ugualmente differenti; inoltre, da un punto di vista ontologico, poiché la
conoscenza è unicamente il prodotto di singoli individui e un’organizzazione non
può creare conoscenza senza di essi, è fondamentale osservare come l’impresa
promuova e sostenga il processo di diffusione a livello organizzativo della
conoscenza creata dagli individui e di sistematizzazione della stessa entro la rete
di conoscenze dell’organizzazione.
Due autori su tutti hanno elaborato modelli di studio della conoscenza tesi alla
definizione e alla catalogazione dei suoi oggetti: Polanyi (1966) e Machlup (1967,
1980).
14
1.3.1 La conoscenza tacita nell’approccio di Polanyi
Polanyi ha il merito di aver, per primo, ravvisato in modo formale l’esistenza di
una conoscenza tacita oltre a quella esplicita. La conoscenza esplicita si riferisce
al knowledge about, mentre quella tacita è associata all’esperienza. La prima è
“codificata” e trasmissibile attraverso un linguaggio formale e sistematico; la
seconda è personale, specifica del contesto e, in quanto tale, difficilmente
formalizzabile e comunicabile. La nozione di “tacito” è più ricca di una semplice
conoscenza di “ciò che si sa” e si spinge oltre la classica dimensione psicologica
arricchendo il contenuto di knowledge conscious con quello di sub and pre-
conscious modes of knowing.
L’intento di Polanyi è criticare l’assunto positivista per cui ogni scienziato
dovrebbe interagire solo con tradizioni razionaliste e empiriche, formulando
ipotesi logiche e realizzabili, test ripetibili. A suo avviso, invece, la creatività
scientifica deriva principalmente da una profonda immersione nel fenomeno che
deve essere spiegato, tale da consentire di aumentare le intuizioni sulle leggi
fisiche che lo regolano. “La scienza è il processo di spiegazione di una
comprensione tacita, intuitiva, che è guidata dall’apprendimento subconscio di
ogni singolo scienziato”. (Polanyi 1966, p.21). Il “central puzzle” che Polanyi
vuole ricostruire è “perché gli individui conoscono ben più di quello che riescono
ad esprimere” (Polanyi 1966, p.12). La ragione di tale discrepanza sta proprio
nell’esistenza di una dimensione tacita della conoscenza. The tacit knowledge
consiste in regole di ricerca, o eurismi, che identificano il problema e gli elementi
rilevanti per la sua risoluzione. La formale espressione della soluzione
probabilmente non coglie a pieno questo procedural knowledge o anche tutti i dati
e le informazioni (“indizi”) che conducono alla soluzione. Infatti, anche nel
campo della identificazione e della risoluzione dei problemi, il know-how of
heuristic search precede la conoscenza formale della soluzione.
Insomma, riuscire a fare qualcosa e allo stesso tempo non riuscire a spiegare come
si è fatto, è molto più di una possibilità logica – afferma Polanyi – è una
situazione comune: “Lo scopo di una prestazione altamente professionale viene
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raggiunto grazie all’osservanza di una serie di regole che nessuno riconosce come
tali se non la persona che le sta adottando in quel momento” (Polanyi 1966, p.29).
Regole d’azione e schemi di comportamento che rappresentano le modalità
attraverso cui si dispiega la conoscenza tacita: “Gli esseri umani acquisiscono
conoscenza creando e organizzando attivamente le loro esperienze, attraverso
l’interazione con gli oggetti o, in altri termini, attraverso il coinvolgimento e
l’impegno di sé” (Polanyi 1966, p.47). Comportamento che egli ha definito
indwelling (“dimorare”). Conoscere qualcosa significa crearne l’immagine o il
modello unificandone le parti di cui si compone senza rendersene conto. Per
cogliere il modello come una totalità dotata di senso, è necessario armonizzare il
proprio corpo con questi aspetti. L’indwelling rompe la classica opposizione tra
mente e corpo, ragione ed emozione, soggetto conoscente ed oggetto conosciuto.
L’oggettività scientifica non è più l’unica fonte di conoscenza. La nostra
conoscenza è anzi, in larga parte, il frutto di atti intenzionali che eseguiamo nel
rapportarci al mondo e quella che può essere espressa in parole e numeri
rappresenta solo la punta dell’iceberg del corpus complessivo delle conoscenze:
“We can know more than we can tell”, per l’appunto.