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di Genetica e Microbiologia della medesima Università. Alcuni individui di Phyllitis s. nel
2004 sono stati prelevati dal Cimitero di Cotignola (Ravenna), distante circa una decina di
chilometri dalla riserva naturale, trasferiti e piantati presso l’Orto Botanico dell’Università
di Pavia; qui sono stati sottoposti a monitoraggio con cadenza quindicinale, per registrare
dati come presenza/assenza e numero di gemme per ogni individuo e loro velocità di
crescita, nonché sviluppo in fronde, con relative misure di allungamento fogliare. Presso il
Dipartimento di Genetica e Microbiologia si è tentato di formulare un protocollo per la
coltura in vitro di Phyllitis s. La disponibilità di un protocollo per la coltura in vitro di
Phyllitis s. consentirebbe la propagazione vegetativa di questa specie in condizioni
controllate, favorendo la produzione di numeri elevati di individui ed offrendo la
possibilità di verificare, per ciascuna pianta, la capacità di sopravvivenza ed il vigore in
fase ex vitro, in serra ed in campo.
Seduta di Laurea del 26 Gennaio 2006
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1 Introduzione
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1.1 Problematiche
1.1.1 Biodiversità e conservazione della flora spontanea.
La biodiversità può essere considerata come l'espressione dell'evoluzione biologica degli
organismi viventi (Conti et al., 2005), rappresentandone il potenziale genetico e la
possibilità di consentire loro adattamenti evolutivi ogni qual volta le condizioni ambientali
vengono a mutare. Un alto valore di biodiversità si raggiunge in aree presentanti un’elevata
diversità di specie capaci di automantenersi in buone condizioni nel corso del tempo
(Bologna et al., 2003). Inglobando nel termine, ecosistemi, specie, geni e loro relativa
abbondanza, si può affermare che la biodiversità ha una struttura gerarchica (Cristofolini,
1998), in cui si distinguono gradi e livelli (specie= α, comunità= β, ecosistemi regionali=γ,
per la componente vegetale (Whittaker (1972)) (Pignatti, 2004), per cui essa non è
un’entità definibile e quantificabile numericamente, in quanto sono tutti questi diversi
fattori che contribuiscono a determinarla. In conseguenza di ciò, la misura che si può
raggiungere applicando alcuni indici statistici (indici di Shannon-Weaver, Simpson,
Biological Distinctiveness Index (BDI) ed il Conservation Status Index (CSI)), avrà sempre
un valore relativo al sistema di riferimento adottato (Pignatti, 2004). Un approccio
realistico ad una valutazione indiretta della biodiversità complessiva consiste
nell’identificare gruppi di organismi la cui rilevabilità sia relativamente facile e, la cui
abbondanza sia correlata con la diversità complessiva (Cristofolini, 1998). Per quanto
riguarda la flora si può fare riferimento al sistema di bioindicazione proposto da Ellenberg
(1974, 1992) che ha sintetizzato per tutte le specie della flora della Germania, il
comportamento rispetto a sei principali fattori ecologici (Pignatti, 2004). Analogo
procedimento è stato proposto da Landolt (1977) per la flora svizzera, al quale si fa
particolare riferimento in Italia, data la maggiore similarità a livello fitoclimatico. I fattori
di minaccia per le specie vegetali secondo la classificazione proposta da Filipello (1979)
sono costituiti sostanzialmente da: 1) cause naturali endogene, cioè proprie di ogni specie
(rarità, areale minimo o puntiforme) ed esogene, cioè dovute a modificazioni ambientali
(evoluzione geomorfologica, parassitismo e patologia); 2) uso o sfruttamento della flora
spontanea (raccolta diretta per uso familiare, collezionismo, commercio, artigianato); 3)
domesticazione del territorio (manomissione dell'ambiente con interventi sul soprassuolo
che comportano modifiche o distruzione del manto vegetale, pascolo, inquinamento,
regimazione delle acque); 4) incendio. A queste si possono aggiungere anche
l’introduzione di specie esotiche, i cambiamenti climatici, il dinamismo della vegetazione.
Risultato: variazione dei parametri ecofisiologici, distruzione e frammentazione degli
habitat di vita, estinzione forzata di popolazioni e di specie, impoverimento delle biocenosi
7
(Primack e Carotenuto, 2003). Ogni specie vegetale rappresenta un universo a sé, un
elemento indispensabile all’equilibrio naturale e alla vita di altre entità vegetali o animali.
La scomparsa di una pianta potrebbe condannare all’estinzione anche una o più specie
zoologiche ad essa collegate dai rapporti che reggono gli equilibri ecologici (Conti et al.,
1992). La conservazione della biodiversità trova giustificazione proprio nella continua
ricerca (e mantenimento) di un equilibrio tra lo sfruttamento delle risorse naturali e la
tutela di tutte le forme di vita e degli ambienti che le ospitano (Bologna et al., 2003). A tal
fine da alcuni anni è emersa una nuova disciplina, la Biologia della conservazione, che
descrive: la diversità delle forme di vita (biodiversita’), le minacce cui e’ esposta tale
diversità per effetto delle attivita’ antropiche e i metodi e le tecniche per preservarla
(Primack e Carotenuto, 2003). Secondo Alessandrini (1997) - l’estinzione è per sempre;
una specie scomparsa è una perdita irreversibile per tutti. Lavorare per impedire
l’estinzione è un dovere morale, prima che politico o tecnico o utilitaristico.- Da qui la
necessità di intervenire con strategie mirate e programmi internazionali allo scopo di
conservare a lungo termine le specie minacciate. La conservazione in situ, permette il
mantenimento di popolazioni vitali nel loro ambiente naturale, conservando anche
l’enorme potere evolutivo delle specie. Questo però non è sempre possibile, per cui si può
ricorrere alla conservazione ex situ, che prevede azioni sulle specie al di fuori del loro
ambiente naturale (generalmente nei giardini botanici e/o nelle banche del germoplasma).
Contrariamente alla prima, questa tecnica permette una conservazione del germoplasma in
maniera statica, privando le specie delle forze selettive cui sarebbero sottoposte se
mantenute in natura. Di conseguenza la conservazione ex situ non può essere considerata
un’alternativa a quella effettuata in situ, bensì un’operazione a questa complementare e di
sostegno, da attuare in combinazione ad essa nei programmi di intervento mirati alla
protezione e conservazione del germoplasma.
1.1.2 Il ruolo degli Orti Botanici nella conservazione della flora spontanea.
La coltivazione e la moltiplicazione ex situ di una specie selvatica minacciata,
eventualmente seguita dalla reintroduzione nel suo habitat naturale originale, serve a
rinforzare popolazioni deboli o a reintrodurre nuove popolazioni in stazioni presenti in
passato, rappresentando una delle possibili misure contro l'estinzione (CPS-SKEW, sito
web). Gli effettivi interventi in favore della conservazione ex situ vengono operati per lo
più da Orti ed Istituti Botanici attraverso le loro collezioni viventi di individui e materiale
genetico vegetale (vedi banche del germoplasma), in collaborazione con gli Enti di
conservazione della natura responsabili della conservazione degli habitat in genere. Nelle
operazioni di reintroduzione bisogna però tenere conto, in base alle «Linee direttive
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dell'IUCN relative alle reintroduzioni» (1998), che la piantagione d'individui va effettuata
solo nel caso di specie particolarmente rare e, preferenzialmente, per i discendenti della
prima generazione della pianta d'origine. Nei giardini botanici infatti, esiste il pericolo di
ibridizzazione con piante della stessa specie ma di provenienza differente, o con specie
imparentate (CPS-SKEW, sito web). La conservazione non può essere scissa dalla ricerca
scientifica: è infatti indispensabile la conoscenza dello status, della distribuzione, della
biologia ed ecologia delle specie oggetto delle misure di salvaguardia (Federparchi, sito
web). Dopo aver effettuato l’analisi della specie, l’analisi delle cause e dei fattori di
minaccia e l’analisi del sito d’intervento, le opere di introduzione, reintroduzione e
rafforzamento si esplicano mediante quattro fasi: a) fase preliminare, b) fase preparatoria,
c) fase attuativa, d) fase di monitoraggio (Rinaldi e Rossi, 2005). E’ nella fase preparatoria
che gli Orti Botanici rivestono un ruolo fondamentale. Questi collaborano per tutelare le
specie selvatiche delle Liste Rosse e, in base all’obiettivo 2 della “Global Strategy for
Plant Conservation and Regional implementation in Europe”, essi si sono impegnati entro
il 2010, per la conservazione del 60% delle piante minacciate in collezioni ex situ, e del
10% di quelle incluse in programmi di recupero e rinaturazione (Rinaldi e Rossi, 2005). In
Italia, secondo le liste del “Libro Rosso delle piante d’Italia” (Conti et al., 1992, 1997)
almeno 1011 entità vegetali tra felci e piante con semi, pari all'8,2 % della flora italiana,
sono incluse in una categoria di minaccia, mentre 29 sono le specie da considerarsi estinte
o estinte in natura. E‘ stato stimato inoltre, che entro il 2050 circa 100.000 specie di piante
superiori, delle 300.000 viventi sulla terra, potrebbero estinguersi (Rinaldi e Rossi, 2005).
Tra gli Orti Botanici si annoverano 58 strutture dislocate su tutto il territorio nazionale, di
cui 34 legate a vario titolo al mondo universitario, 4 inserite negli assetti organizzativi di
Enti locali, 18 configurate come giardini botanici alpini e 2 gestite privatamente
(Federparchi, sito web).
1.1.3 L’Orto Botanico di Pavia: cenni storici.
La sede attuale dell’Orto Botanico, a seguito del trasferimento dal Collegio Griffi sui
terreni occupati dal monastero dei Canonici Lateranensi di S. Epifanio, si deve all'opera di
sensibilizzazione e persuasione delle autorità competenti del primo Professore di Botanica
Fulgenzio Vitman, al fine di creare una struttura adeguata per l'insegnamento della
Botanica, e, al Prof. Brusati suo successore. L’inizio dei lavori e la piena autorizzazione
per il trasferimento risale al 1773, ma non è facile stabilirne con precisione la data di
fondazione (A.D.R.A.T., 2002). Il merito però, di una sistemazione completa va soprattutto
ad Antonio Scopoli, lo studioso più noto dell'Istituto ed Orto Botanico dell'Università di
Pavia che diresse l'Orto Botanico dal 1777 al 1778. Dell'impianto originario ad egli
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attribuito, rimane un monumentale Platanus hybrida (45 m di altezza, 7.30 m di
circonferenza a 1 m dalla base), oggi inserito nel catalogo degli alberi monumentali d’Italia
(Orto Botanico di Pavia, sito web). La costruzione delle serre lignee, progettate da G.
Piermarini, note oggi come “serre scopoliane” in ricordo Scopoli, risale al 1776. In origine
riscaldate con aria calda (calidario) oggi ospitano collezioni di piante succulente e
Cicadacee (Amici dell’Orto Botanico, sito web). L'Orto Botanico ha subito nel corso degli
anni numerose trasformazioni fino ad ampliarsi nel 1887, occupando gli attuali circa 3
ettari (comprese le superfici coperte dagli edifici e dalle serre). L’impostazione attuale
dell’Orto deriva dalla sistemazione eseguita tra il 1945 e il 1948 da Raffaele Ciferri.
L’Orto attuale ospita collezioni di specie così organizzate: “l'arboreto” che ospita diverse
specie arboree ed arbustive originariamente con la prevalenza di esotiche, “la serra delle
piante utilitarie” che ospita una serie di piante esotiche da frutto, aromatiche, da legno e
ornamentali, “il settore delle Angiosperme” che si estende su tutta la parte compresa tra il
corpo dell'Istituto e le serre di Scopoli, “la serra caldo umida”, fatta costruire da Ruggero
Tomaselli nel 1974, attualmente contiene diverse specie esotiche di Palme, Pteridofite,
Aracee, Euforbiacee, Liliacee, Marantacee, ecc., “il settore delle Gimnosperme” situato ad
oriente dell'Istituto che comprende diverse Pinacee europee ed esotiche, Taxacee e Gingko,
“il Roseto” istituito da Raffaele Ciferri, “la serra detta delle Orchidee”, ed infine “le
azalee”. Attualmente la direzione e la gestione dell'Orto sono unificate a quelle del
Dipartimento; oltre al Curatore, il personale dell'Orto è costituito da 7 persone (Orto
Botanico di Pavia, sito web). (Tav. 1)
Tav. 1 Schema dell’attuale Orto Botanico di Pavia. (Associazione Amici dell’Orto Botanico dell’Università degli Studi
di Pavia).
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1.1.4 Necessità di conservazione delle Pteridofite.
Le felci si trovano in un ampio spettro di ambienti: nelle vegetazioni sub-artiche,
equatoriali, pietraie alpine, macchie mediterranee, nelle paludi, rupi e muri; spesso, sia per
numero di specie rappresentate, che per biomassa prodotta, non costituiscono una
componente secondaria della flora e della vegetazione. Il loro contributo alla biodiversità
mondiale è enorme, infatti con più di 14.000 specie esse rappresentano il secondo gruppo
di piante per consistenza numerica. La varietà di adattamenti delle felci è impressionante,
si passa da forme arboree e lianose, tropicali ed equatoriali, a piccole specie annue e
persino a forme acquatiche. Anche nella distribuzione geografica ed ecologica il gradiente
è elevato, passando da specie cosmopolite invadenti a specie endemiche o a distribuzione
relittuale (Peroni A. e G., 2004). Nel 2002 l’UFAFP, Ufficio Federale dell'Ambiente, delle
Foreste e del Paesaggio, ha pubblicato la “Lista rossa delle felci e piante a fiori minacciate
della Svizzera”, redatta dal Centro della Rete Svizzera di Floristica (CRSF), elaborata a
partire dai criteri UICN 2001. La Lista Rossa del 2002 sostituisce la Lista Rossa del 1991
(Landolt/UFAFP, 1991) e dal paragone tra le due, si constata una tendenza verso un
aggravamento dei gradi di minaccia. Per l’Italia, l’ultima edizione del “Libro rosso delle
piante d'Italia” (Conti et al., 1992) è quella aggiornata al 1997. A livello regionale o
territoriale recentemente sono stati pubblicati alcuni atlanti dedicati, in parte o totalmente,
alle Pteridofite. Si ricordano: Alessandrini e Bonafede (1996) sulla distribuzione, rarità e
stato di conservazione delle specie della flora protetta della Regione Emilia-Romagna,
dove compaiono anche le felci. Successivamente Bonafede et al. (2001) hanno pubblicato
un Atlante delle Pteridofite dell’Emilia-Romagna, in cui tra le 66 entità appartenenti alle
Pteridofite, è dedicato ampio spazio alle felci. Molto recentemente Bona et al., (2005)
hanno pubblicato un Atlante sulle Pteridofite ad ampia scala, relativo alle Alpi Sud-
occidentali (Atlante corologico delle Pteridofite nell'Italia nord-orientale), comprendente
zone dell’alta Pianura Padana, più esattamente i territori della Lombardia (parzialmente),
Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia. In generale, emerge un buon livello di
conservazione delle felci nei territori collinari, montani ed alpini (salvo casi localizzati), in
relazione alla minore antropizzazione del territorio. Invece, nelle zone di pianura (es.
Pianura Padana) lo stato di conservazione delle Pteridofite in generale, appare più precario,
come è stato dimostrato per l’Emilia-Romagna nell’area compresa tra la Via Emilia e il
corso del Fiume Po (Alessandrini e Bonafede, 1996). Infine il Dipartimento di Biologia
Vegetale dell’Università “La Sapienza” di Roma ha avviato la realizzazione di una Banca
dati della Flora vascolare italiana, a seguito di una convenzione finanziata dal Ministero
dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, Direzione per la Protezione della Natura, che