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all’individuazione di indicatori del benessere animale sempre più validi e
sostenibili.
Pensiamo, pertanto, che il problema del benessere animale non
potrà mai essere risolto solo attraverso la morale dei diritti degli animali:
richiamandosi alla sola animalitas, infatti, si rischia di precludere la
direzione della humanitas, di un umanesimo cosciente e responsabile
della biodiversità animale.
Il nostro intento è dunque quello di sviluppare, applicare e
migliorare dei possibili approcci pratici che siano in grado di conciliare
le esigenze produttive dell’uomo con il benessere degli animali allevati.
Sic et simpliciter.
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1.1. L’uomo e l’animale
Tra gli uomini e gli animali vi è un rapporto che cambia
continuamente, a volte lentamente, altre volte tumultuosamente; è la
conseguenza alla variazione dello status delle diverse specie animali
secondo le epoche, le strutture sociali, le credenze, le religioni, … quella
summa di valori, etici ed intellettuali, che i Greci chiamavano paideia,
ovvero cultura.
Il gatto ad esempio, deificato nell’antico Egitto, considerato
manifestazione diabolica nel Medio Evo, mangiato da molte popolazioni
anche europee fino a pochi decenni fa, è divenuto un insostituibile
animale familiare. Anche per la capra il discorso non cambia: nella
mitologia greca spicca la figura di Amaltea, la ninfa con fattezze di capra
che allattò Zeus bambino sul monte Creso; presso il popolo ebraico,
però, un caprone, carico dei peccati di Israele, ogni anno veniva
abbandonato nel deserto per farlo morire di fame; dal “capro espiatorio”
la maledizione è passata più tardi, con il Cristianesimo, sul caprone,
complice del Diavolo, e sulla capra accusata di stregoneria. Oggi, la
“vacca del povero” sta avendo, fortunatamente, la sua giusta
rivalutazione.
Riguardo alla nascita del rapporto uomo-animale, poco sappiamo
ed al più possiamo soltanto ipotizzare i rapporti tra gli ominidi ed i
preominidi e gli animali. Secondo Camera e Fabietti (1993), il mangiare
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carne, ricavata dalle carogne prima e procurata con la caccia poi, costituì
un fattore essenziale nel graduale emergere del genere Homo dall’iniziale
stock degli ominidi, emarginando la nicchia prevalentemente vegetariana
delle australopitecine.
Con l’addomesticamento, risultato più di una combinazione
fortunata che di un disegno preciso e consapevole, gli uomini poterono
poi disporre di riserve alimentari complementari assai più sicure di
quelle, sempre precarie, offerte dalla caccia e dalla raccolta. Ciò permise
di abbandonare almeno in parte il nomadismo e risiedere nel medesimo
luogo per un tempo sufficiente a cogliere il rapporto che lega la
seminagione alla nascita dei vegetali. In tal senso, l’addomesticamento,
conquista fondamentale del Mesolitico, fu la premessa necessaria
all’invenzione dell’agricoltura.
Ex tunc l’uomo utilizza gli animali per la sua alimentazione, per la
medicina, per ottenerne indumenti, lavoro, utilità fisiche e psichiche …
un rapporto che fa riferimento a dom di domus, casa, ma anche a
dominus e quindi al dominio, un rapporto che ha, ergo, molti caratteri di
una predazione: in qualunque luogo della terra, anche tra i più
inaccessibili come il mare e l’aria, è infatti il genere umano a decidere
come e dove gli animali devono vivere.
“E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a
nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e gli uccelli
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del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i
rettili che strisciano sulla terra”. Dio creò l’uomo a sua
immagine; a immagine di Dio lo creò. Dio li benedisse e
disse a loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la
terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli
uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla
terra”.
E Dio disse: ”Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e
che è si tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che
produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie
selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri
viventi che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io
do in cibo ogni erba verde”. E così avvenne. Dio vide quanto
aveva fatto, ed ecco, era molto buona. E fu sera e fu mattina:
sesto giorno.”
(Genesi 1,26)
Secondo Ballarini (1998), il rapporto uomo-animale si è evoluto
attraverso tre distinte fasi; la prima di queste, arcaica, fu di tipo magico-
totemico, nel senso che gli animali erano considerati divinità o loro
messaggeri, oppure figure ancestrali ed iniziatrici di una stirpe umana.
Presso gli Egiziani ad esempio, importantissimo era il culto degli animali
(zoolatria), che perdurò nella tradizione religiosa anche quando prevalse
l’antropomorfismo; l’arcaico legame col mondo animale è ben visibile in
molte divinità, rappresentate come immagini parte antropomorfe e parte
teriomorfe. Le divinità più venerate erano Hator, rappresentata in forma
di donna con orecchie bovine ed un paio di corna, il bue Api, incarnato in
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un toro nero con macchie bianche sulla fronte, ed Anubi, rappresentato in
forma di uomo con testa di cane.
In questa fase, gli animali sono tramiti privilegiati del contatto con
le divinità ed il loro sacrificio, giustificato da riti religiosi, è spesso
sostitutivo di quello umano. Presso gli Etruschi prima ed i Romani dopo,
grande importanza veniva data alla pratica della divinazione, ovvero
l’arte aruspicina: la volontà degli Dei era interpretata attraverso lo studio
del volo degli uccelli e del fegato degli animali sacrificati; il fegato
dell’animale sacrificale, in particolare, era considerato la sede della vita e
raffigurava l’universo al momento del sacrificio.
In più, la figura animale acquista in questa fase valenze mitiche e
ricorre spesso in molte leggende, ad esempio quella del Minotauro, “…
horrendum monstrum medium inter hominem et taurum, cui
Atheniensium liberi obiciebantur ut devorarentur.”, o quella della
fondazione di Cartagine: alla fine del IX secolo, parte della popolazione
di Tiro, guidata dalla regina Didone, si trasferì sulla costa dell’attuale
Tunisia.
“ … Giunsero a questo lido, ove tu vedi
sorger la rocca e le possenti mura
della nuova Cartagine, e con oro
acquistarono un tratto di terreno,
quanto potesse cingerne una sola
pelle di bove; d’onde il nome Birsa …”
(Virgilio. Eneide, I vv. 537-542)
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La leggenda narra che la pelle del bue venne tagliata in strisce
sottilissime che, unite le une alle altre, avrebbero costituito il perimetro
di Cartagine.
È il “periodo romantico” del rapporto degli uomini con gli
animali, un periodo che trova espressione anche in campo letterario con
le favole animali di Esopo (sec. VI a.C.) prima e Fedro (I sec. d.C.) poi;
in particolare, i protagonisti caratteristici di queste favole sono gli
animali, ciascuno dei quali rappresenta tipici vizi e virtù: così la volpe è
l’espressione dell’astuzia, il lupo dell’ingordigia, il leone della regalità,
gli ovini della mansuetudine. La materia è ergo l’uomo con i suoi
sentimenti e pulsioni, ambizioni e comportamenti che permangono nei
secoli. A questo genere letterario appartiene anche Animal Farm di
George Orwell (1903-1950), una satira politica che ha come protagonisti
gli animali di una fattoria; guidati dai maiali, essi riescono a ribellarsi
alla tirannia dei contadini per condurre da soli la fattoria. Purtroppo i
maiali, peggiori degli uomini, instaurano un nuovo regime dittatoriale.
Anche in questo caso la figura animale incarna quella umana, ma
l’aspetto preso in considerazione è quello politico: l’opera mostra come
il potere corrompa, qualunque sia la forma di governo. L’ultimo verso
recita così:
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“All animals are equal
But some animals are more
Equal than others”.
Il confine che separa il mondo animale da quello umano diviene
così assai sottile: basti pensare che Aristotele (384-383 a.C.), in
appendice alla sua Storia degli animali, scrisse che le verità di una
persona possono essere dedotte osservando la sua somiglianza con un
animale. Chi ha la fronte bassa è probabilmente ignorante, perché
assomiglia ad un maiale; coloro che invece hanno la fronte alta,
caratteristica tipica dei cani, tenderebbero ad essere adulatori, chi ha una
pelle rossiccia, che ricorda la volpe, è furbo e via dicendo. Vi sono
uomini-leone, uomini-pecora, …
I tratti del volto di un uomo ricordano sempre quelli di un animale, e ciò
corrisponde recte, secondo Aristotele, alla sua personalità.
Secondo Nicola e Provana (1994), questa lettura simbolica ed
antropomorfica del mondo animale è gestita integralmente dall’inconscio
e non è scevra di pericoli: intere specie animali sono state sterminate solo
perché la loro struttura fisiologica si associa nel nostro inconscio a
qualche espressione di spavento o di terrore. Ultimo caso è quello del
lupo: sebbene la pericolosità reale degli ultimi esemplari rimasti in Italia
sia minima, le associazioni ambientaliste sono in difficoltà nella difesa di
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queste specie, che soffre di una pessima identificazione simbolica con la
cattiveria. D’altra parte il grande successo ecologico del panda si fonda
anch’esso sul suo aspetto, ricco di forme e caratteristiche “infantili”
(testa grande, pelo morbido, occhi dilatati, movimenti un po’ goffi,
forme rotonde, …) atte a far scattare le pulsioni protettive umane,
inibendo quelle aggressive.
La repulsione di fronte a determinati animali è, invece, una forma
di nevrosi e può essere spiegata come il caso in cui viene a mancare
qualsiasi possibilità di “umanizzazione” dell’animale; più che l’aspetto
esteriore e le caratteristiche fisiologiche specifiche, conta in queste fobie
il movimento: di molti insetti, ad esempio, ciò che ci fa inorridire è
praesertim il brulichio, l’agitazione caotica ed accelerata dei movimenti,
il formicolio frenetico ed agitato di migliaia di individui in una folla
convulsa, gli scatti rapidi, brevi e concitati.
In una seconda fase, nel rapporto uomo-animale prevale l’aspetto
economico-funzionalista: gli animali sono resi schiavi e sfruttati, come
produttori di alimenti (carne, latte, uova e miele) o di altri prodotti (lana,
seta, pellicce), con un più o meno completo utilizzo dei relativi
sottoprodotti (corna, ossa, ecc.), o come fornitori di lavoro (traino, soma,
ecc.) od altri servizi (caccia, guerra, svago, guardia, ecc.). Il rapporto
dell’uomo con l’animale muta quindi completamente: l’utilizzazione
degli animali, a qualsiasi fine, non richiede alcuna giustificazione che
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non sia quella di un vantaggio per la società o l’individuo umano; gli
animali, ai quali non è riconosciuto un intelletto, non sono persone e
quindi non hanno alcun diritto, per cui l’uomo non ha verso di loro alcun
dovere o responsabilità.
Allora il Signore si rivolse a Mosè: “Va a riferire al
Faraone: Dice il Signore, il Dio degli Ebrei: Lascia partire il
mio popolo, perché mi possa servire! Se tu rifiuti di lasciarlo
partire e lo trattieni ancora, ecco, la mano del Signore viene
sopra il tuo bestiame che è nella campagna, sopra i cavalli,
gli asini, i cammelli, sopra gli armenti e le greggi, con una
peste gravissima! Ma il Signore farà distinzione tra il
bestiame di Israele e quello degli Egiziani, così che niente
muoia di quanto appartiene agli Israeliti”. Il Signore fissò la
data, dicendo: “Domani il Signore compirà questa cosa nel
paese!”. Appunto il giorno dopo, il Signore compì questa
cosa: morì tutto il bestiame degli Egiziani, ma del bestiame
degli Israeliti non morì neppure un capo. Il faraone mandò a
vedere ed ecco neppur un capo era morto del bestiame
d’Israele. Ma il cuore del faraone rimase ostinato e non
lasciò partire il popolo.
(Esodo 9,1)
Tuttavia, almeno inizialmente l’utilizzazione degli animali non è
così esasperata come si potrebbe pensare: Longo (2001) ci ricorda il
vincolo di “lealtà” e “giustizia” tra l’allevatore-agricoltore e l’azienda, un
vincolo ben noto nell’antica Grecia. Ne parlano due autori greci,
Filemone (fine sec. IV a.C) e Senofonte (430-455 a.C.), che esaltavano il
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cibo che veniva offerto loro dalla natura, dalla terra, dai campi coltivati a
cereali e ad ortaggi, dai vigneti, dai frutteti, … Il rispetto per la terra e gli
altri organismi che la abitavano era tale che, in un giuramento, le truppe
militari si impegnavano a sacrificare la loro vita per proteggerli dagli
invasori.
In quest’epoca l’allevamento era praticato prevalentemente per
ottenere del latte: infatti, il consumo medio annuale di carne raramente
raggiungeva i 2 kg. I buoi, ad esempio, venivano utilizzati
esclusivamente per il lavoro nei campi: la loro macellazione era
considerata un sacrilegio; presso gli Egiziani ed i Fenici, invece,
venivano macellati i buoi, perché l’aratura era scarsamente praticata, e
venivano allevate le vacche.
Col tempo, però, il consumo di carne ricavata dalla macellazione
aumentò; giustificazioni a riguardo possono essere dedotte da una teoria
epicureista: “l’allevamento per la macellazione consente di mantenere il
numero degli animali in rapporto a quelle che sono le risorse ambientali
disponibili”. Erodoto, invece, confutò tale tesi sostenendo che è la natura
ad intervenire negli equilibri naturali: ad esempio, la popolazione di
specie molto prolifiche come i conigli è controllata dai predatori, i quali
sono, a loro volta, meno prolifici. Pertanto, la popolazione animale tende
a mantenersi costante. Sappiamo che fu la teoria epicureista ad avere la
meglio …
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Si è giunti così alla fase industriale dell’allevamento,
caratterizzata dal confinamento stabulato e continuo degli animali in
capannoni cosiddetti razionali, con allevamento intensivo basato su un
tipo di alimentazione costituita prevalentemente da mangimi: l’allevatore
diviene così imprenditore e l’allevamento animale diviene scienza delle
produzioni animali. Tutto ciò ha prodotto una progressiva riduzione del
numero di persone impiegate nel settore primario, oltre che uno
sconvolgimento della definizione di “figura animale” nell’immaginario
collettivo: cent’anni fa, scrive Rollin (2001), il termine “animale”
richiamava alla mente dei più “vacche”, “maiali”, “cavalli”, “cibo”,
“lavoro”, …; oggi, la stessa parola richiama alla mente “cane”, “gatto”,
“cucciolo”.
Webster (1999) ha evidenziato le principali forze economiche che
hanno portato ad intensificare la produzione degli animali:
• la migliore meccanizzazione dell’agricoltura, che ha permesso un
maggiore accumulo di nutrimenti per gli animali;
• l’aumento del profitto dell’allevamento dovuto alle sovvenzioni,
che ha permesso di investire in attrezzature ed edifici;
• la crescita del reddito dei consumatori, che ha portato ad un
aumento della richiesta di carne, uova e prodotti caseari e ad un
aumento dei costi variabili di produzione;