INTRODUZIONE
Il titolo di questo lavoro è indicativo del percorso che si è voluto tracciare nelle pagine
che seguono, le quali si pongono come spazio di riflessione sul tema non solo della
mediazione penale, che rappresenta il fulcro tematico attorno al quale ruota tutta la
trattazione, ma anche della giustizia in generale, con tutti i pregi e inevitabilmente i
difetti, che ha dimostrato e dimostra di possedere a seconda degli Stati che si
osservano.
A dirla tutta il bisogno di pensare ad uno strumento di supporto a quello propriamente
giuridico nasce nel momento in cui ci si ferma a constatare gli insuccessi che la legge
e le sue procedure determinano in ambito penale, tra lungaggini processuali e pene
inadeguate, e l’incapacità oggettiva di provvedere a quell’ordine e a quella tutela
sociale che pretende di disciplinare. Così anche in Italia, che noteremo essere uno dei
Paesi più diffidenti verso i sistemi di giustizia alternativa, comincia a fermentare l’idea
di affidare la trattazione di certi reati ad un istituto nuovo e di già sperimentata
funzionalità in altri Stati, di modo che si possa alleggerire il clima di insoddisfazione
che la popolazione non ha timore a denunciare e che è stato causato dall’atteggiamento
di difesa della logica processuale e da una prassi legislativa statocentrica.
All’approfondimento di questi aspetti è dedicato il primo capitolo, nel quale si è voluto
tracciare un percorso che palesasse le origini della mediazione penale, andando a
scavare in certe tradizioni antropologiche tipiche di società meno complesse di quelle
occidentali e, proprio per questo, più paragonabili a comunità, riferendoci alla
diversificazione posta in essere da Tonnies. Qui la modalità di trattazione del reato non
viene rimessa nelle mani del giudice supremo ma viene stabilita tra la gente, nello
spazio in cui il reato si è consumato con i soggetti che lo hanno a vario titolo vissuto e
con l’insieme delle persone esterne ad esso ma interne al contesto comunitario, quindi
colpite indirettamente dall’evento.
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Una prassi semplice questa che è diventata modello di riferimento per successive
rielaborazioni in contesti propriamente evoluti, come quelli occidentali, primariamente
americani, in cui non si sono avute remore nell’accettare che anche il crimine potesse
essere discusso efficacemente fuori dalle aule di giustizia. In ragione di ciò si è voluto
ricostruire i percorsi che certi Stati hanno seguito per introdurre e rendere operativo
l’istituto della mediazione penale, comparandoli con quello che l’Italia ha iniziato,
senza ancora averlo completato, concedendogli micro dosi di fiducia nel permettergli
di affrontare la gestione di reati imputabili ai minori.
Nel secondo capitolo, invece, si è posta l’attenzione sugli ambiti civili, nei quali la
mediazione è riuscita ad affermarsi con meno ostacoli e ha mostrato l’efficacia di
interventi cha prendono le mosse da una concettualizzazione del conflitto che sfugge
all’attenzione di chi si trova in esso coinvolto, ossia il concepirlo come uno dei tanti e
inevitabili eventi che si avvicendano nella vita di un essere umano e che può essere
superato attraverso un approccio comunicativo che ponga come priorità la sincerità, lo
sviluppo di competenze dialoganti, il giusto rispetto dell’altro e la disposizione ad
ascoltare le ragioni intime che non sempre sono ravvisabili a primo acchito. È alla luce
di questi meccanismi che si sono osservati miglioramenti nei rapporti familiari, i quali
frequentemente vengono vessati dalla sordità dei componenti e dall’istinto a prevalere
sul prossimo, o all’interno delle istituzioni scolastiche, fertile terreno di dissidi tra
studenti, che non di rado sfociano in episodi di bullismo e maltrattamenti, tra studenti
e insegnanti e tra tutti coloro che ci lavorano, a causa della moltitudine di persone e
ruoli che si trovano a coabitare uno spazio forse troppo piccolo per accogliere la
diversità che caratterizza ogni singolo soggetto, oppure nelle aziende, che riproducono
il problema appena rilevato per la scuola con l’aggravante della corsa e della lotta al
successo, all’avanzamento di carriera e alla conquista del prestigio. Sono questi alcuni
dei contesti civili che hanno aperto le porte alla mediazione, anche se i lavori sono
ancora in corso, soprattutto nell’azienda, e alle tecniche che essa sfrutta per
raggiungere l’obiettivo riparatorio, la rielaborazione del conflitto e la conseguente
riconciliazione.
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Ed è proprio alle tecniche di mediazione che rivolge l’attenzione il terzo capitolo, dove
abbiamo avuto occasione di soffermarci sul concetto e sulla funzione della
comunicazione, della discomunicazione, della comunicazione narrativa e del dialogo,
quale strumento di indiscutibile valore nel recupero e nella condivisione della propria
intimità. L’originalità di questo capitolo, comunque, è inerente all’ultimo paragrafo
dedicato alla spiegazione del modello gruppoanalitico di Jane Abercrombie, il quale
ben contribuisce, a nostro parere, a perseguire quei fini che la mediazione, anche nella
sua declinazione penale, si fissa.
L’ultimo capitolo, infine, esce dal campo unicamente mediatorio e propone l’analisi di
un testo riguardante un’esemplare e innovativa modalità di trattamento degli autori di
reati sessuali. Come spiegato nella premessa al capitolo, la scelta di questa analisi è
stata dettata dalla volontà di offrire una testimonianza di come non si possa giudicare
un reo fondandosi esclusivamente sul fatto commesso, né si può impedire che lo stesso
torni a commettere il crimine soltanto aggravando la pena e questo perché
intervengono nel comportamento aspetti più reconditi, legati al vissuto, agli schemi
cognitivi che ha introiettato, all’apparato emotivo che ha sviluppato. Partendo, allora,
dalla convinzione che non si riesca a ridurre la recidiva senza operare direttamente
sulla mente del reo né si possa garantire la tutela sociale soltanto col prolungamento
degli anni di reclusione, perché tanto prima o poi il criminale uscirà, un’équipe di
specialisti ha approntato e messo in atto un programma che ha sortito effetti positivi, di
cui si dirà più approfonditamente. Questo argomento finale, dunque, ci permette di
avvalorare l’ipotesi secondo cui si possono migliorare gli esiti della giustizia
tradizionale attraverso il ricorso a strumenti innovativi e alternativi che dimostrano
grande validità in termini di cambiamento della persona-reo e che consentono, in virtù
di questo cambiamento, di mediare nel conflitto con la vittima offrendole la possibilità
di riparare a quella ferita che nessuna pena riuscirà mai a compensare, attraverso un
ripensamento del conflitto stesso che inauguri un percorso di comprensione e, perché
no, di perdono.
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CAPITOLO PRIMO
SULL'ORIGINE DELLA MEDIAZIONE PENALE
Tra radici antropologiche e indicazioni giuridiche
1. Le “società semplici” ispirano l'arte della riconciliazione
La riflessione su un fenomeno di grande interesse e crescente rilevanza quale quello
della mediazione penale, procedimento di risoluzione conflittuale che sgomita tra i
“custodi giuridici” per appropriarsi di uno spazio di azione in cui testimoniare la
propria efficacia, richiede una ricognizione storica che, poco votata ad individuare con
precisione data, ora e luogo di nascita, permetta di capire le condizioni che hanno
determinato l'insorgere del fenomeno e di verificare la validità o meno dello stesso.
Dalla rassegna degli autori che si sono interessati all'analisi dell'istituto della
mediazione penale pare evidente la concordanza sul congiungere l'atteggiamento
positivo verso essa con una sorta di sfiducia e insoddisfazione verso il sistema
processuale che, con impareggiabile vigoria, autorità e convincimento ha difeso
l'egemonia del proprio ruolo di risolutore occludendo l'ingresso ad ogni metodo
alternativo, soprattutto nel contesto italiano. Metaforizzando, sembrerebbe di assistere
all'eterno scontro uomo-donna: da una parte lui, il diritto, geloso del proprio potere,
coercitore, convinto della propria ineludibile ed insostituibile capacità ed efficienza nel
gestire le situazioni complesse che richiedono determinazione, dall'altra parte lei, la
mediazione, l'ultima arrivata, la più giovane, quella con scarsa autorità, che non può e
non sa ricoprire ruoli impegnativi, che non sa far valere le proprie motivazioni in un
contesto androcentrico.
Non che se ne voglia fare un discorso di disparità di genere, ma è solo un'immagine
evocata dal mettere accanto i due termini di paragone e che, a nostro parere, può
rendere l'idea di contesa che si disputa sul palcoscenico che vede esibirsi la vittima e il
reo.
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Che poi non è tanto vero che la mediazione sia così giovane: forse ultima arrivata sì,
ma la più giovane no! A calarsi nella storia di civiltà e popoli cresciuti negli
incontaminati territori dell'Africa, dell'Asia e dell'Oceania si trovano esempi di
conflitti risolti senza il ricorso all'emissione di una sentenza che, applicando una legge
astratta, concretizzi una pena che punisce l'autore del conflitto.
Ne La giustizia senza spada Grazia Mannozzi, citando lo studio di James L. Gibbs
The Kpelle moot del 1963, porta come esempio di metodo alternativo di gestione del
conflitto il “moot”: definito anche “house palaver”, ossia discussione che avviene
all'interno della casa, esso rappresenta una procedura informale attraverso la quale si
analizza e si risolve ogni disputa che sorge tra coloro che appartengono a questa
comunità della Liberia. Dato il carattere informale la trattazione del caso avviene
all'interno della casa del denunciante dove si riuniscono i soggetti interessati, i parenti
dei litiganti e un gruppo di persone che vivono nel luogo in cui il conflitto è sorto,
assemblato proprio per l'occasione. Lo “spettacolo” domestico vede la partecipazione
di un mediatore, generalmente un parente del denunciante che, dopo aver ascoltato la
benedizione d'apertura pronunciata dal più anziano del gruppo, lascia che il
denunciante esponga le sue ragioni e ponga le sue domande all'altro soggetto della
disputa il quale, a sua volta, manifesterà il proprio punto di vista. Il mediatore e gli
altri partecipanti hanno un ruolo attivo in questa fase di ricostruzione dei fatti e
possono intervenire facendo domande o apportando testimonianze dirette.
Alla fine la persona ritenuta maggiormente colpevole porgerà le sue scuse all'offeso
offrendogli doni simbolici come capi d'abbigliamento, riso o monete. In questo
esempio, come nella maggior parte delle mediazioni che si realizzano in comunità più
libere dalla logica processuale, gli elementi che colpiscono e che sottolineano la
differenza con l'attività degli operatori della giustizia in aula sono l'informalità del
luogo in cui la discussione avviene, la libertà che i litiganti hanno nell'esporre le
opinioni in merito al contenzioso che li coinvolge, dunque l'importanza data alla
comunicazione e al dialogo, la partecipazione e il garantito intervento dei membri
della comunità in cui si è consumato il conflitto, cosa questa che permette di sedare gli
asti, di ostacolare la formazione del pregiudizio nel vicinato e di muoversi verso la
ricostruzione dell'armonia sociale, e infine la partecipazione del mediatore che, a
differenza del giudice, non fa della mediazione una professione, non stabilisce chi ha
torto e chi ha ragione e, dettaglio rilevantissimo, non è imposto ai litiganti ma scelto
da loro.
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Ecco, dunque, come viene a cadere il monopolio del potere repressivo detenuto dalla
stato sociale e come acquista efficacia e credibilità una procedura che può definirsi
alternativa nella misura in cui “risponde ad una logica del tutto diversa da quella
sottesa al modello processuale”
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e non perché abbia la pretesa di sostituirsi
definitivamente a questo; di conseguenza la mediazione può essere intesa come
parallela al processo perché con questo coesiste e ad esso gli interessati possono
accedervi prima o dopo aver percorso la strada della riconciliazione.
E se qualcuno volesse obiettare che tale procedimento possa garantire esiti positivi in
relazioni a reati di grave entità mentre mostrerebbe la propria debolezza facendo il suo
ingresso in circostanze che richiamano responsabilità penali, allora si potrebbe
contestare la posizione portando come esempio quello della Nuova Zelanda, dove la
tradizione di risoluzione conflittuale propria dei Maori, quella improntata alla
composizione, cioè alla rielaborazione del conflitto sulla base del confronto diretto e
del dialogo, ha ispirato l'istituzione, a metà degli anni Ottanta, del FGC (Familt Group
Conferencing), come strumento di prevenzione e, in generale, di gestione della
criminalità minorile che né un approccio tradizionale e rigoristico di giustizia né un
approccio orientato alla rieducazione riuscivano a disciplinare. Come riporta Maria
Grazia Mannozzi nella sua citata opera, dopo un momento di sperimentazione del
modello applicato maxime ai giovani criminali della comunità Maori e, più
diffusamente, ai minori legati a contesti socio-economici e culturali rischiosi e
vacillanti, nel 1989 il Children and Young Persons and Their Family Act insieme con
il precedente Criminal Justice Act del 1985 hanno normalizzato il FGC come
strumento alternativo di risoluzione dei conflitti. Per l'attuazione del modello è stato
preposto un ufficio competente che valuta l'applicabilità o meno del modello stesso per
i reati commessi da minori di età compresa tra i 14 e i 16 anni, che abbiano attestato la
propria responsabilità. La legge dispone che l'Ufficio per il FGC possa gestire
controversie relative a reati di qualunque natura, fatta eccezione per l'omicidio, doloso
o colposo che sia. Qualora, a seguito della prima valutazione, il caso risulti inidoneo
alla procedura esso viene deferito alla Corte ordinaria.
1 Grazia Mannozzi, La giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e
mediazione penale, Milano, Giuffrè Editore, 2003, p. 32.
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Questa conserva un ruolo eminente anche in presenza dello strumento di giustizia
alternativa: infatti ad essa spetta il compito di valutare l'accordo del FGC sottoscritto
dai confliggenti, verificando che sia adeguato agli interessi lesi della vittima e che non
sia eccessivamente lesivo per il reo, e procedendo alla successiva ratifica.
La legge prevede, inoltre, che il FGC possa essere usato, in sede processuale ordinaria,
come attenuante la pena del reo qualora si sia concluso in modo positivo.
Anche l'Australia, ispirata dall'esempio neozelandese, ha accolto e istituzionalizzato
un proprio modello di FGC facendo un passo in avanti rispetto alla Nuova Zelanda
nella misura in cui lo ha adottato per casi di controversie animatesi tra adulti, con
particolare riferimento a circostanze di mobbing e di guida in stato di ebbrezza. In
questo Stato, comunque, il FGC trova applicazione in un ventaglio di reati meno
esteso perché è previsto solo per reati di modesta gravità e, altro elemento
diversificante, esso è condotto dalla polizia e non dai servizi sociali, acuendo in tal
modo il rischio di accrescimento del potere di questa, investita di competenze
accessorie quali, ad esempio, la definizione dell'accordo di riparazione e il controllo
del rispetto del programma di riparazione.
2. Uno sguardo sull'America del Nord: tra Canada e Stati Uniti
La comunità scientifica che si occupa di forme e origini di giustizia riparativa è
concorde nell'indicare come primo caso di mediazione in territorio canadese quello
che si manifestò nel 1974, a Kitchener, allorché due autori di atti di vandalismo,
commessi in stato d'ebbrezza, nei confronti di ventidue vittime diverse, dopo aver
confessato la propria colpevolezza, in attesa della commisurazione della pena, furono
indotti, su trovata del funzionario del Probation Office, Mark Yantzi, di religione
mennonita, ad incontrare de visu le proprie vittime.
Questa originale strategia aveva come obiettivo il tentativo di una negoziazione della
pena e di una soluzione pacifica della controversia e fu accolta di buon grado dal
giudice della commisurazione che autorizzò i rei a rapportarsi alle vittime con la
presenza di Yantzi e del Coordinatore del Volontariato per i servizi sociali. Insieme si
recarono presso le abitazioni di tutte le vittime e in pochi mesi fu raggiunto l'accordo
sull'entità della pena da infliggere e la riparazione fu completata.
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Da quel momento ha avuto inizio un iter evolutivo di quella primordiale forma
mediatoria che ha portato in essere i Sentencing Circles, a partire dal 1980, oltre che
scelte di gestione conflittuale che limitassero l'ingresso del reo nel circuito penale-
processuale e in tal senso orientate a potenziare l'intervento della polizia e la strategia
di confronto dialogato tra autore e vittima. Riguardo ai Sentencing Circles, noti anche
come Peacemaking Circles, vale la pena sottolineare che si pongono come processi
aperti al pubblico in cui presenziano il giudice, reo e vittima, famiglie di entrambi e
anziani della comunità, secondo una composizione simile a quella vista per la
comunità dei Kpelle, e ognuno può esprimere il proprio punto di vista funzionale alla
redazione del programma di riparazione ma l'aspetto specifico di questo strumento è il
ruolo assegnato alla comunità nel supervisionare la esecuzione del programma stesso
affinché non ci siano violazioni, cosa questa che sottolinea la dimensione realmente
comunitaria delle scelte canadesi.
Si rinviene la stessa prerogativa di inclusione e partecipazione della comunità nel
Riparation Probation Program che nel 1994 ha visto i natali nello Stato del Vermont.
Si tratta di un modello che guarda ad azioni criminose di gravità medio-bassa messe in
atto da minori e adulti ed è molto simile a quello che prevede la sospensione di
condanna con messa alla prova: infatti accade che, dopo l'emissione della condanna,
l'autore di reato presenzia ad una serie di incontri presso il Community Riparative
Board (Ufficio della Comunità per la Riparazione), dove un gruppo di cinque o sei
cittadini appartenenti alla comunità in cui si è consumato il reato elabora un accordo
che definisce il programma di riparazione del danno, obbligatorio per il reo, e il tempo
in cui realizzarlo. Se il programma viene rispettato in toto lo stesso Ufficio si rivolge
alla Corte penale per l'estinzione del reato, in caso contrario il reo sarà nuovamente
rimesso al giudizio di questa che comminerà la sanzione.
In ordine ad aspettative più ampie di riparazione e completa difesa e sostegno della
vittima agisce il modello di mediazione attuato negli Stati Uniti che ricalca fedelmente
quello messo a punto dal Centro di Mediazione del Minnesota: questo è diventato, a
ben vedere, il programma di riconciliazione autore-vittima per antonomasia negli
USA.
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Il programma ripone la propria peculiarità nello stile di conduzione della mediazione
che, rispondendo al “modello umanistico” definito da Umbreit, Bradshaw e Coates,
come ricorda Grazia Mannozzi
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, rifiuta la direttività, ossia la pedante osservanza di un
regolamento precostituito in vista di un asettico sigillo di riparazione, promuovendo
un'autentica comunicazione tra i partecipanti, la reale condivisione delle ragioni
personali e dei punti di vista legati all'episodio.
A questo aspetto ne va aggiunto un secondo, ancora più caratterizzante, che è legato
all'assenza del limite di gravità: in altre parole il programma del Minnesota non
ammette che ci siano reati tanto gravi da non poter essere gestiti e, infatti, prende in
carico l'impegno di attuare processi di mediazione tra soggetti coinvolti in episodi di
consistente gravità, quali abuso sessuale, violenze, lesioni gravissime e persino
l'omicidio, trasformando così gli incontri tra reo e vittima in occasioni di
rielaborazione dei vissuti e dei sentimenti laceranti che seguono all'esperienza di
vittimizzazione. Per questa ragione diventa necessaria la presenza di figure
professionali esperte quali psicologi e psicoterapeuti che accompagnino la vittima, in
modo particolare, in questo cammino di ricostruzione.
Ecco, dunque, come gli esempi citati testimonino della realizzabile possibilità di
approcciare al crimine in un modo nuovo che, senza pregiudicare l'attività legiferante
di uno Stato né la sua eclissi in materia di giustizia, apra alla considerazione, alla
valutazione e al rispetto degli interessi di tutti quelli che entrano in ballo in occasione
di un reato con una riguardevole attenzione per la vittima che, come l'esperienza
americana dimostra, deve avere un ruolo partecipativo nel processo di definizione
della punizione da infliggere al reo e nel processo di restituzione e reintegro dello
stesso nella società, iter che ha maggiori occasioni di riuscita se inizia con la
disponibilità all'incontro e all'ascolto.
2 Grazia Mannozzi, op.cit., p. 169.
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