VI
INTRODUZIONE
La storia delle imprese è quasi sempre un‟alternanza di successi e di
insuccessi. Questo fenomeno va ben aldilà della ciclicità, cioè del
susseguirsi di fasi positive e negative, che interessa alcuni settori. Vi
sono problemi di declino originati da fenomeni strutturali; che esigono
l‟attenzione continua all‟adeguamento ed al rinnovamento. Poiché
l‟efficienza, la posizione concorrenziale, la redditività, la capacità di
produrre flussi finanziari, di generare nuovo valore, ecc., anche quando
appaiono saldamente raggiunti, vanno continuamente controllati e
confermati. Non occorre molto perché simili condizioni, nell‟arco di
pochi anni ed anche in tempi più brevi, possano essere modificate da
eventi esterni ed interni, che gradualmente le deteriorano. Gli equilibri,
anche i più solidi, sono, in un certo senso, sempre precari. Chi non sa
via via adattarsi al mutare dell‟ambiente e della concorrenza, o non si
rende conto di alcuni processi interni di deterioramento, va incontro al
declino; e dal declino si può passare a profonde crisi.
Ne deriva la necessità di un processo continuo di ristrutturazione
dell‟impresa, concetto questo che, sebbene abbia importanza
storicamente confermata, non è ancora entrato a pieno titolo nella
cultura aziendale. In altre parole la “cultura della crisi” è
profondamente carente. Esiste addirittura un rigetto di questa pur
essenziale preoccupazione, spesso una sostanziale difficoltà ad
ammettere il declino anche da parte di chi ne è già coinvolto, almeno
fin tanto che esso assume dimensioni accentuate e di palese patologia.
Inoltre, e soprattutto, le imprese non preparano per tempo gli strumenti
adatti alla segnalazione dei sintomi di decadenza e degli squilibri (come
vedremo nel primo capitolo) che possono essere efficaci campanelli
d‟allarme. Ci si rende conto troppo spesso del declino incipiente solo
quando esso ha già provocato seri guasti, talvolta irreparabili.
L‟insufficiente creazione ed ancora più, ovviamente, la distruzione
di valore, a ben vedere, sono gli indicatori sostanziali di squilibrio.
VII
Quando la distruzione di valore supera certe dimensioni è l‟espressione
del declino e, nel contempo, la più attendibile misura della sua intensità.
Per tali ragioni, un controllo periodico del valore, diventa il rivelatore
essenziale di squilibri in atto; il principale indicatore del declino che si
sta preparando e che prima o poi esploderà. E con ciò si dimostra anche
strumento di prevenzione di situazioni negative che volgono al declino
ed alla crisi: la ripetizione sistematica del controllo può infatti
assicurare tempestività degli interventi eventualmente possibili.
Il tema della crisi d‟impresa è molto importante e al tempo stesso
estremamente elaborato. E‟ noto come la crisi di un‟impresa non generi
solo effetti negativi diretti per l‟imprenditore, per i creditori e per i
lavoratori coinvolti, ma coinvolga, attraverso un processo sincronico
indotto, tutta la società civile.
In tale contesto dunque si inserisce il Turnaround, la cui espressione
deriva da un termine anglo-sassone letteralmente non traducibile e che è
stato assunto per rappresentare tutti i processi di risanamento e rilancio
delle imprese in crisi
1
.
A tal proposito vedremo (nel quarto capitolo) come superando gli
aspetti strettamente materiali della gestione dell'impresa, un‟azienda
che presenta un calo di profitti oppure perdite dovuti alla minore
competitività, può attivare tramite il turnaround un processo di
ridiscussione dell'impresa in tutti i suoi aspetti, dalla strategia alla
struttura organizzativa, dalle risorse umane alla cultura aziendale. Un
processo di cambiamento profondo che non si limita soltanto ad agire,
ma che ne modifica le prospettive, gli obiettivi, i valori che guidano
ogni visione all'interno del complesso aziendale, contribuendo per tale
via, alla ricostituzione ed al rafforzamento di quella coesione fra le
componenti dell'azienda che ogni crisi tende, inevitabilmente, a
dissolvere. Tutto questo attingendo a capitale di rischio paziente per
finanziare gli investimenti che sono alla base del programmato recupero
della competitività stessa.
1
L. Guatri, Turnaround: declino, crisi e ritorno al valore, 1995.
VIII
In Italia, tuttavia, come ha sottolineato nel marzo 2006 Giampio
Bracchi, presidente dell‟associazione italiana del Private Equity e
Venture Capital (AIFI) (nel: “Libro Bianco: progetto per lo sviluppo del
Private Equity e Venture Capital in Italia”), il numero di operatori
specializzati su questo specifico segmento è ancora molto limitato. La
legge fallimentare del 1942, infatti, ha sempre rappresentato un vero
deterrente allo sviluppo del turnaround in Italia.
Oggi però il tema del turnaround sembra suscitare grande interesse
grazie soprattutto alla recente riforma fallimentare (D.Lgs n. 5 del 9
gennaio 2006) che permette agli investitori di godere di una protezione
ben maggiore di una volta quando si preparano a effettuare operazioni
per salvare imprese in “crisi”
2
(pur non recependo ancora
completamente alcune istanze presentate dagli operatori specializzati).
Lo sviluppo delle operazioni di turnaround rappresenta oggi un
obiettivo di primaria importanza inserito anche, tra le prerogative, nel
“piano di azione
3
” dell‟AIFI.
Con tale intervento riformativo il governo ha provveduto a dare
attuazione alla delega di riforma delle procedure concorsuali, contenuta
nella L. 80/2005, di conversione del D.L. 35/2005. In ossequio ai
principi e criteri direttivi dettati da tale legge delega, l‟intervento è stato
volto, da un lato, all‟accellerazione ed alla semplificazione delle
procedure e, dall‟altro, al possibile recupero dell’impresa ed alla
conservazione delle sue componenti positive, garantendo, al contempo,
l‟eliminazione della valenza sanzionatoria-afflittiva del fallimento per il
debitore
4
.
Nel terzo capitolo verranno illustrati i principali cambiamenti che
potrebbero rappresentare delle opportunità per migliorare performance
e competitività dell‟azienda italiana alla luce di queste novità: così dopo
una panoramica su quello che è stato l‟iter di approvazione della
2
Da:”MILANO FINANZA” del 16 dicembre 2005 – articolo di Stefania Peveraro:“Aziende in crisi? E’ un business”.
3
Come indicato nel già citato “Libro Bianco: progetto per lo sviluppo del Private Equity e Venture Capital in Italia”, a
cura del presidente dell‟Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital (AIFI).
4
G. Perugini, U. Mssei, La riforma dela legge fallimentare, come cambia la crisi d’impresa dopo il D.Lgs 9 gennaio
2006, n.5.
IX
riforma, verranno approfonditi gli aspetti che più strettamente
interessano gli operatori di turnaround. Ci riferiamo in particolar modo
ai cambiamenti introdotti in tema di: revocatoria fallimentare, accordi
di ristrutturazione e concordato preventivo.
Successivamente la mia dissertazione entrerà nel vivo con l‟analisi
di un caso di successo che ha interessato una storica realtà italiana: sto
parlando dell‟operazione di turnaround del “gruppo Piaggio” messa in
atto da Immsi, gruppo guidato dall‟imprenditore mantovano Roberto
Colaninno che ha preso per mano l‟azienda di Pontedera nel settembre
2003 e l‟ha condotta al rilancio. Piaggio, così come diverse altre case
costruttrici, e in particolar modo quelle che hanno basato la maggior
parte delle speranze di successo sul segmento dei ciclomotori con
cilindrata fino ai 50 cc (i cosiddetti “cinquantini”), è stata bruscamente
risvegliata all‟inizio del nuovo millennio dopo essersi addormentata a
metà degli anni ‟90 tra i sogni che vedevano il mercato dei ciclomotori
crescere a ritmo esponenziale. Dal 2000, la crescita si è arrestata (fino a
sfociare in una vera e propria crisi) come vedremo nel capitolo VI, nel
quale viene ricostruita la cronologia della grave situazione venutasi a
creare tra il 2000 e il 2003. Il resto della storia continua invece nel
settimo capitolo parallelamente all‟evolversi dell‟operazione di
turnaround che verrà analizzata nel dettaglio. Si comincerà con le prime
difficili trattative messe in atto da Colaninno con le banche, nelle cui
mani si trovava il destino del gruppo Piaggio, schiacciato dai debiti che
aveva nei confronti degli istituti creditizi; passando per
l‟implementazione del piano finanziario e industriale e quindi per
l‟acquisizione di Aprilia che ha fatto certamente fare il salto di qualità
al gruppo toscano (insieme alla quotazione in borsa tanto richiesta dagli
istituti creditizi). In tal modo, arriveremo alle conclusioni (capitolo
VIII) che metteranno l‟accento sugli spunti di maggior interesse che il
caso ha fornito, e, soprattutto, sui punti di forza che Immsi e soprattutto
Colaninno hanno saputo sfruttare al meglio invertendo il trend negativo
del gruppo che già nel primo semestre 2004, contro le più rosee
X
aspettative, ha rivisto l‟utile dopo ben quattro anni di perdite.
Concluderò infine con una breve analisi su come Piaggio si è presentato
a “Piazza Affari”, come sta andando il titolo e quali sono le prospettive
di crescita.
1
CAPITOLO I:
LA CRISI D’IMPRESA
1.1 Declino e crisi d’impresa.
La letteratura non ha, fino a tempi recenti, offerto una compiuta
definizione del concetto di “crisi”, preoccupandosi soprattutto di
esaminarne le componenti, le cause, le conseguenze e i possibili rimedi.
In questa sede, aderendo alla “teoria del valore”
5
(Guatri, 1995),
possiamo dire che: quando, a seguito di un'adeguata misurazione, si
palesano accrescimenti nulli o negativi di una grandezza presa come
riferimento, significa che l‟impresa non realizza adeguatamente la
propria finalità di autogenerazione nel tempo
6
. Su tale base risulta
possibile distinguere, nella più generale categoria della patologia
aziendale, momenti di diversa gravità: il declino e la vera e propria
crisi.
Il concetto di “declino” può essere collegato all‟ottenimento di una
performance negativa in termini di variazione di valore, ossia alla
distruzione di valore, e misurato nella sua intensità dall‟entità di tale
distruzione in un definito arco temporale. Deriva da ciò l‟idea che
un’impresa è in declino quando perde valore nel tempo. Da tale assunto
discendono alcune conseguenze:
il declino non è solo identificabile in relazione a perdite
economiche, ma più in generale al sensibile decrescimento dei
flussi economici (pur nella permanenza della loro positività);
5
La “teoria del valore” individua nell‟accrescimento del valore del capitale economico il fondamentale obiettivo
aziendale. La variazione della dimensione del capitale economico, a sua volta, può essere misurata con appropriate
formule valutative prendendo in considerazione una o più grandezze ritenute rilevanti.
6
Come scrivono Guatri e Vicari (1994, pp. 79, 80): “La finalità che possiamo attribuire all‟impresa, l‟unica finalità
che abbia senso, è la continuazione dell‟esistenza attraverso la capacità di autogenerazione nel tempo, che avviene
mediante la continua creazione di valore economico.
Solo in questo senso si può parlare di finalità dell‟impresa. (…) Ciò che caratterizza e qualifica l‟impresa è (…) la
qualità di potere esistere solo in virtù della sua capacità di creare valore economico. Il senso stesso dell‟esistenza
dell‟impresa è dato unicamente dalla creazione di valore”
2
per definire compiutamente il concetto di declino, occorre che
la perdita di flussi sia sistematica e irreversibile (qualora non
siano posti in atto appropriati interventi risanatori);
la misura dei flussi non è legata solamente al passato, ma
anche e soprattutto alle attese; è cioè la perdita di capacità
reddituale dell‟impresa – e non solo la diminuzione degli utili
sul piano storico – a causare il declino (sempre che il
fenomeno superi una certa soglia di intensità);
non sono solo i flussi, ma anche i rischi, possono causare
perdite di valore e, quindi, il declino dell‟impresa.
La crisi, strictu sensu intesa, rappresenta un‟ulteriore degenerazione
rispetto alle condizioni di declino. Tecnicamente, si tratta di uno stato di
grave instabilità originato da rilevanti perdite economiche (e di valore
del capitale), da conseguenti forti squilibri nei flussi finanziari, dalla
caduta della capacità di credito per perdita di fiducia (da parte dei
clienti, dei fornitori, del personale, della comunità finanziaria in
genere), dall‟insolvenza – ossia dall‟incapacità di far fronte
regolarmente ai pagamenti in scadenza – e, quindi, dal dissesto.
Quest‟ultimo è inteso come condizione permanente di squilibrio
patrimoniale (incapacità dell‟attivo di fronteggiare il passivo), il cui
rimedio è impossibile senza interventi dei creditori che acconsentono a
tagli delle loro esposizioni.
Mentre l‟insolvenza è misurata in termini di flussi ed evidenzia
pertanto una situazione di tensione finanziaria (i flussi di cassa generati
nell‟unità di tempo sono cioè insufficienti a far fronte alle obbligazioni
comportate dai contratti in essere), il dissesto è misurato in termini di
stock, e palesa dunque una situazione di patologia aziendale tale per cui
il valore delle attività è insufficiente a garantire il rimborso dei debiti.
La crisi è una manifestazione di tipo patologico che può svilupparsi
su più stadi rappresentabili nel seguente modo:
3
I primi segnali si hanno in seguito all‟emersione di fenomeni di
squilibrio e inefficienza (i primi di prevalente, anche se non esclusivo,
tipo qualitativo; i secondi tipicamente di carattere quantitativo e talvolta
perciò misurabili) che possono avere natura ed origine molto diverse
(1° stadio). Se tali condizioni perdurano, si ha come conseguenza la
produzione di perdite di varia gravità (2° stadio). Col ripetersi e col
crescere d‟intensità delle perdite, la crisi entra nel 3° stadio,
caratterizzato dall‟insolvenza, che, come detto, è rappresentata
dall‟incapacità manifesta di fronteggiare gli impegni assunti; oltre il
quale si apre lo stadio finale del dissesto.
Da quanto detto fin qui emerge come sia importante distinguere tra
due condizioni d‟insolvenza: “temporanea”, caratterizzata da
reversibilità; e “definitiva” (dissesto).
Affinché l‟insolvenza sia giudicata temporanea, occorre che lo
squilibrio finanziario sia attenuato da due essenziali condizioni: la
permanenza di un residuo equilibrio patrimoniale della azienda
(capitale netto positivo); la presenza di prospettive economiche
favorevoli, anche a seguito di interventi di ristrutturazione e di rilancio.
La prima condizione indica che l‟azienda è ancora in grado di
sopportare il rischio del tentativo di recupero, mettendo a repentaglio la
parte rimanente del capitale, senza gravare sui creditori. Inizialmente,
infatti, è richiesto ai creditori solo il rinvio dei termini d‟incasso dei
loro crediti. La seconda condizione ha un duplice significato.
4
Innanzitutto, senza il recupero dell‟equilibrio economico, è da escludere
la possibilità di recupero dell‟equilibrio finanziario. In secondo luogo,
l‟attesa ragionevole di un futuro equilibrio economico è spesso
elemento necessario per affermare un residuo valore del capitale netto
7
.
Quando l‟insolvenza non è rimediabile, nel senso ora indicato, e
diventa definitiva (dissesto), i creditori hanno la certezza pratica che i
loro crediti sono in parte già compromessi
8
e che ogni tentativo di
recupero o di risanamento, in alternativa all‟ipotesi liquidatoria, è
compiuto a loro rischio ed a loro spese.
In ambedue le situazioni di insolvenza, temporanea e definitiva, si
presenta l‟alternativa tra la continuazione dell‟attività aziendale (in
tutto, od almeno in parte) e la cessazione, con conseguente liquidazione
dell‟azienda
9
.
La continuazione dell‟attività ha come fine precipuo il risanamento
dell‟azienda o di sue parti definite (divisioni, settori, singole unità
produttive) ed ha come premessa la definizione di un adeguato piano di
risanamento. Quest‟ultimo è la risposta, tradotta in termini operativi, al
problema del fronteggiamento dell‟insolvenza
10
(Cardascia G.).
L‟insolvenza è, dunque, la manifestazione appariscente e clamorosa
della crisi. A questo punto essa cessa di essere solo un fatto interno
dell‟azienda e genera una serie di effetti palesi che, oltre all‟incapacità a
fronteggiare le scadenze alla perdita di fiducia e di credito, vanno dallo
sfaldamento della struttura organizzativa alla perdita progressiva della
clientela. Tutto l‟organismo aziendale ne viene profondamente
sconvolto, a tal punto che qualsiasi intervento riparatore appare
problematico e con probabilità di successo assai ridotte. In ogni caso
7
Alcuni rilevanti valori dell‟attivo, infatti, non possono essere stimati sul piano puramente patrimoniale (in funzione
dei costi di ricostruzione o di riacquisto); occorre dimostrare la possibilità del loro successivo conveniente utilizzo in
senso economico (capacità di sopportare i futuri ammortamenti, di realizzare i valori senza perdite, ecc.);
diversamente, dai valori di funzionamento si passa ai valori di liquidazione.
8
salvo la graduatoria in funzione dei privilegi.
9
Sul tema riguardante l‟alternativa tra intervento e cessione/liquidazione si ritornerà nel secondo capitolo.
10
Vedi capitolo II.
5
sono necessari interventi profondi che investano innanzitutto la struttura
del capitale ed il management
11
.
Come è facilmente intuibile, una crisi affrontata al primo stadio,
quando non ha ancora generato perdite, è più facilmente rimediabile. La
difficoltà in proposito è spesso l‟individuazione della crisi, cioè dei
sintomi (squilibri ed inefficienze) che la caratterizzano e che preparano
la seconda fase, quella delle perdite. In questa fase si erodono
gradualmente, e con varia velocità, le risorse aziendali. Si ha cioè un
processo di depauperamento le cui manifestazioni formali sono
l‟assorbimento delle risorse di bilancio e di quote del capitale e le cui
manifestazioni sostanziali sono l‟erosione della liquidità,
l‟appesantimento dei debiti, l‟impossibilità di distribuire dividendi e la
riduzione delle risorse destinate a funzioni essenziali (R&D, marketing,
formazione, comunicazione). L‟arresto della crisi in questo secondo
stadio è sicuramente più difficile e dipende dal quadro di
deterioramento cui il sistema è pervenuto.
La manifestazione di uno stato di tensione finanziaria è sovente
utilizzata dai finanziatori esterni (attuali o potenziali) come un segnale
di possibile dissesto. Il segnale è ovviamente imperfetto, giacché tra
tensione finanziaria e dissesto non esiste un legame necessario: da un
lato, l‟insufficienza dei flussi finanziari di gestione corrente può essere
destinata a non permanere anche in futuro; dall‟altro, può darsi che
l‟impresa in difficoltà (anche se insolvente in termini di stock) possa
temporaneamente far fronte ai debiti in scadenza attingendo a riserve di
liquidità o “facendo cassa” attraverso la dismissione dei propri cespiti.
Benché il segnale sia imperfetto, nella pratica, la formalizzazione dello
stato di dissesto ha sovente luogo a séguito del manifestarsi di uno stato
di grave tensione finanziaria
12
.
La crisi, propriamente intesa, è dunque la fase conclamata del
declino, cioè a dire la continuazione di una traiettoria negativa delle
11
L. Guatri, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffrè – [Milano] 1986
12
BERTOLI G., Crisi d‟impresa, ristrutturazione e ritorno al valore. Egea – [Milano] - 2000
6
vicende dell‟impresa in cui l‟aggravamento degli squilibri economici e
finanziari è pienamente percepito all‟esterno: il deficit finanziario della
gestione è aggravato dalla perdita di fiducia da parte del mercato, la
situazione di insolvenza è generalmente irrimediabile senza consistenti
interventi di ristrutturazione industriale e finanziaria
13
.
La distinzione tra declino e crisi – il cui confine può essere anche
molto sottile
14
– è importante per spiegare come, in generale, il declino
può rappresentare un passaggio relativamente fisiologico della vita di
un'impresa, la quale può dunque essere vista come “una continua
dialettica tra momenti di declino e fasi di ristrutturazione volontaria per
ricostruire pienamente i vantaggi competitivi”
15
.
1.2 Decadenza e squilibri come sintomi premonitori:
un’analisi superficiale
La storia dei dissesti aziendali è spesso contrassegnata da tardivi
riconoscimenti di decadenza e squilibri quali sintomi premonitori (vedi
tabella 1) di declino e crisi, dall‟illusione che spinge ad escludere lo
stato di crisi o a minimizzarne la portata, dal timore di adottare misure
idonee perché inevitabilmente dolorose.
13
GOPINATH C., Turnaround: recognizing decline and initialing intervention, “Long Range Planning”, n. 6. - 1991
14
Come scrive Guatri (1995): “non è sempre agevole separare declino dalla crisi. Almeno nelle fasi iniziali, vere
situazioni di crisi appaiono semplici forme di reversibile declino. (…) Ciò accade ad esempio quando il flusso di
cassa, a motivo degli scarsi o nulli investimenti dell‟impresa in beni materiali o immateriali, o dalla contrazione dei
volumi d‟attività con conseguente riduzione del capitale circolante, consente di rinviare nel tempo (spesso anche a
lungo) l‟esplosione delle difficoltà finanziarie; oppure quando imprenditori ed i manager interessati sono
particolarmente abili nel dissimulare lo stato progredente di declino, od addirittura forniscono informazioni artefatte
per arginare e rinviare la perdita di credibilità. Ma, a parte queste situazioni particolari (seppur tutt‟altro che rare),
appare concettualmente arbitrario fissare un limite all‟erosione prodotta dalle perdite (in termini di reddito e di
valore) per stabilire quando comincia la crisi”.
15
FORESTIERI G., Aspetti aziendali e finanziari della crisi d’Impresa, in D. Masciandaro e F.Riolo (a cura di) -
1997
7
Tabella 1.1
A tal proposito è possibile citare gli studi di Bibeault, che, in
“Corporate Turnaround: How managers turn Losers into Winners”,
indica tra i principali “segnalatori di pericolo” per l‟impresa quelli di
natura finanziaria come: il declino dei margini di profitto, il declino
delle quote di mercato, l‟incremento del debito e la diminuzione del
capitale circolante
16
L‟incubazione del declino viene di rado individuata con
tempestività. Ciò si deve al fatto che tali sintomi premonitori non sono
letti correttamente; o addirittura sono inconsciamente ignorati, quasi
rimossi dalla coscienza di chi dovrebbe assumere le decisioni del caso
(vedi tabella 2).
16
Lo studio di Bibeault è stato condotto sulla base di ottantuno interviste a capi d‟azienda che hanno gestito processi
di turnaround.