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Un altro argomento, anche se non strettamente economico, è quello basato sulla
funzione della cultura nella diffusione e lo sviluppo dell’identità e dell’orgoglio
nazionali.
Una giustificazione frequente e non priva di valore, è individuata da Throsby e Withers
che riguarda il ruolo formativo ed educativo dei servizi culturali ed artistici: essi
consentono ai consumatori una più completa capacità di valutazione e di giudizio
critico, allargandone l’orizzonte culturale e contribuendo anche al miglioramento dei
talenti artistici.
Peacock argomenta che, provvedendo ad avvicinare le giovani generazioni a teatri e
musei, se ne stimola la curiosità e, di conseguenza, viene stimolato il desiderio di
consumarne regolarmente, con la predisposizione e la disponibilità a pagare –
direttamente o tramite imposte – per il consumo culturale.
Inoltre la diffusione di produzioni culturali ed artistiche svolge una funzione non
secondaria nel fornire uno stimolo consistente allo sviluppo turistico, con evidenti punte
registrate in alcune località nelle quali è quasi esclusivo l’interesse dei turisti per le
manifestazioni culturali ed artistiche che vi si svolgono.
Da quanto esposto precedentemente, possiamo attribuire al servizio e al bene culturale
ed artistico qualità di “bene pubblico”, che assume anche il carattere di bene “misto” ,
cioè a consumo non rivale ma escludibile. Tale connotazione può essere attribuita ad
ogni singolo evento culturale (spettacolo, mostra, esposizione).
Invece, in riferimento al complesso della produzione culturale e artistica – come è più
corretto ai fini della giustificazione dell’intervento statale nel settore – appare evidente
che una non trascurabile parte dei benefici da esso generati mostra le caratteristiche
della indivisibilità e della non-escludibilità, e pertanto risultano rilevanti per l’intera
società. Questo significa che la produzione culturale nel suo complesso ha le stesse
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caratteristiche dei beni pubblici “puri”, con la conseguenza che il mercato non potrà
esistere se lasciato a se stesso.
L’economia ha cominciato ad occuparsi del settore artistico culturale soprattutto dopo la
metà degli anni Sessanta. L’avvicinarsi degli economisti a questo settore è stato lento,
per certi versi casuale e dettato da interessi esclusivamente personali.
I primi economisti ad occuparsi di economia e cultura sono i “soliti noti”: Smith,
Ricardo, Keynes, anche prima degli anni Sessanta, ma la svolta è rappresentata da
Baumol e Bowen i quali per primi evidenziano le difficoltà finanziarie in cui si
dibattono le istituzioni culturali. Hanno elaborato la teoria della “legge di crescita
sbilanciata”, spesso indicata come il “morbo di Baumol”, secondo la quale l’attività
produttiva è divisa in due settori, uno stagnante, l’altro progressivo.
La differenza è data dalla diversa opportunità che ciascuno dei due settori ha ad
incorporare il progresso tecnologico nella propria funzione di produzione.
Le istituzioni artistiche e culturali, rientrano nel settore stagnante, in quanto bassa è la
sostituibilità del fattore lavoro con il capitale, dunque, l’introduzione della tecnologia
nei loro processi produttivi.
Nel settore progressivo, che produce solitamente beni standardizzati, le innovazioni
tecnologiche sono facilmente incorporabili, questo permette di ottenere economie di
scala, costi di produzione che incidono sempre meno nella funzione di produzione e
livelli salariali per gli addetti sempre maggiori. Ma i salari nei due settori si evolvono in
modo parallelo, per cause anche non strettamente economiche e dunque anche nel
settore stagnante si registreranno incrementi nel livello redistributivo, ai quali non
corrisponderanno aumenti di produttività per la bassa incorporabilità della tecnologia in
questo settore.
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La conseguenza è che i costi per unità di prodotto nel settore stagnante saranno
progressivamente crescenti a differenza del settore progressivo in cui saranno costanti,
così che il produttore di servizi culturali ed artistici si vedrà costretto a praticare prezzi
sempre più alti per non incorrere in perdite.
Ciò comporterà una contrazione della domanda, della produzione, per finire poi in una
estinzione del settore, se non interverrà a supporto un finanziatore esterno che ne
sostenga il fabbisogno finanziario con contributi, il cui ammontare dovrà essere sempre
più elevato, eliminando il crescente divario fra costi e ricavi.
Lo Stato dunque è il principale attore per il sostentamento del settore artistico culturale,
che avverrà attraverso una pressione tributaria verso la collettività, anche se a questo
punto si presentano problemi di equità ed efficienza dei tributi imposti.
Il problema deve essere considerato anche in termini di offerta culturale, ma, quando
questa non è soddisfacente, sia a livello qualitativo che quantitativo, quando dunque i
benefici ottenuti dal sostenimento di tale settore sono percepiti dalla collettività in modo
minore, rispetto alla pressione esercitata dallo Stato per effettuare tale offerta, si verifica
il “fallimento dello Stato”.
Questo, insieme al “fallimento del contratto”, giustifica la nascita del settore non profit.
Nel fallimento del contratto, o del mercato, lo Stato non entra nel merito dell’offerta
culturale, poiché questa è fornita in modo privato, e cioè da imprese che ricercano il
profitto, con la conseguenza che, non vi è un’efficiente allocazione delle risorse dovuta
alle asimmetrie informative tra produttore (profit oriented) e clienti e alle caratteristiche
pubbliche dei beni artistici e culturali.
Di conseguenza il modello del non profit, che rappresenta il “terzo settore” (oltre al
pubblico e al privato), si sviluppa come risposta ai fallimenti dello Stato e del mercato,
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data la carenza di fornitura pubblica e di imprese che operano in tale settore, con
l’obiettivo di coprire la domanda insoddisfatta.
In tal senso le non profit possono essere considerate come integrazione importante e
determinante dell’offerta pubblica in ambito artistico e culturale.
Per quanto riguarda il fallimento del mercato, le imprese non profit si affermano allo
scopo di superare i problemi derivanti da asimmetria informativa.
Il vincolo per le non profit della non distribuzione dei profitti, determina un
comportamento non massimizzante i profitti stessi, ed ha come conseguenza un fine di
prevalente utilità sociale e culturale. Questo fa sì che le non profit offrano maggiori
garanzie alla collettività poiché hanno minori incentivi a sfruttare l’ignoranza dei
consumatori, aspetto caratteristico, questo, dell’asimmetria informativa che si produce
quando l’informazione è distribuita non in modo omogeneo, come nel caso di un
produttore che detiene le informazioni sul prodotto e il consumatore è invece costretto a
cercarle tramite fonti esterne.
E’ l’impossibilità informativa, che più dell’asimmetria e dell’incompletezza caratterizza
tuttavia, il settore culturale, implicando l’impossibilità ad avere delle informazioni
complete e, quelle a disposizione, hanno la capacità di cambiare nel tempo e a seconda
dei soggetti.
A questo punto rimane da esaminare la problematica dei finanziamenti al settore
artistico e culturale, da parte dei soggetti coinvolti: lo Stato, le imprese, i privati.
I soggetti pubblici e quelli privati possono essere distinti in base alle prevalenti
funzioni svolte: il finanziamento di attività culturali oppure la produzione di servizi
culturali e la loro offerta diretta ai consumatori, raccogliendo, evidentemente, in
quest’ultima categoria le istituzioni operative, quali musei, biblioteche, gallerie d’arte,
teatri, accademie.
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La prevalenza di finanziamenti di fonte pubblica o di fonte privata (nonché di forme
dirette o indirette di sostegno) influisce perciò sulle caratteristiche dell’offerta culturale
e, nel settore pubblico, sono espressione di corrispondenti politiche culturali da parte
delle autorità di governo.
Possiamo delineare vari tipi di finanziamento dell’offerta culturale, in base alle relazioni
che intercorrono tra enti finanziatori e enti produttori, siano essi pubblici o privati.
In Italia i soggetti appartenenti al settore pubblico sono: lo Stato, come finanziatore sia
diretto che indiretto; gli enti locali (Regioni, Province, Comuni), che sono destinatari di
fondi statali e che, negli ultimi anni, svolgono sia funzioni operative che, a loro volta, di
finanziamento; gli enti pubblici che fanno parte della produzione culturale come
biblioteche, musei, gallerie d’arte.
Si giunge così a delineare il modello di finanziamento a “rete” pubblico-privato, che è
quello che più si avvicina allo schema che caratterizza i nostri tempi, specialmente in
Italia, con una forte commistione e co-presenza tra pubblico e privato. Questo si
realizza nelle forme di collaborazione, sia nel sussidio, che nella realizzazione di
iniziative culturali, ma anche nel finanziamento di istituzioni pubbliche da parte di enti
privati. Inoltre attraverso gli affitti che il pubblico fa verso il privato e la formazione di
addetti che viene lasciata ad iniziative private, il pubblico delega attività
tradizionalmente svolte dai propri enti.
Che il sistema sia orientato a privilegiare un sistema pubblico di finanziamenti, in cui
principale artefice del sostegno alla cultura è lo Stato con le sue Amministrazioni
decentrate, o che il sistema sia orientato ad un mecenatismo privato, difficilmente si ha
uno degli estremi, ma ci si trova in un sistema integrato che ha come scopo quello di
massimizzare l’offerta culturale.
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Ruolo importante, dalla parte dei privati, (famiglie, imprese, ed organizzazioni senza
scopo di lucro) è svolto dalle Fondazioni di origine bancaria. Istituite a partire dal 1990,
allorché la legge impose alle Casse di Risparmio di separare l’attività creditizia da
quella di beneficenza, le Fondazioni di origine bancaria, persone giuridiche private
dotate di un patrimonio devoluto a determinati scopi, senza fine di lucro e connotate da
piena autonomia statutaria e gestionale, si distinguono in: fondazioni di erogazione o
garant making che distribuiscono risorse finanziarie ad altri soggetti (altre non profit
come quelle culturali) e fondazioni operative o operating che esercitano direttamente
attività non profit culturale (ad esempio gli enti lirici trasformati in Fondazioni nel
1996).
In particolar modo, oltre alle Fondazioni, nel complesso delle organizzazioni senza
scopo di lucro, troviamo le Associazioni le quali perseguono scopi di carattere culturale,
assistenziale, sportivo, filantropico, ricreativo, diretti verso la collettività o una
particolare categoria e svolgono spesso anche compiti di realizzazione di iniziative.
La politica culturale degli Stati moderni si basa su alcuni fondamentali principi che
trovano piena corrispondenza nella politica culturale europea, quali il pluralismo delle
fonti, il decentramento, la sussidiarietà, l’integrazione.
Cosi, l’Unione Europea sostiene in tutti i suoi atti normativi la pluralità delle fonti di
finanziamento nel selezionare ed erogare fondi alle imprese culturali, premettendo che
le imprese che partecipano alla selezione per uno stanziamento debbano assicurare la
copertura parziale del progetto (matching grant).
In Italia allo stato attuale, assieme ad altre normative ed in particolare alla Legge n.
80/2005, il riferimento più importante è dato dal D. lgs. n. 460 del 4 dicembre 1997,
sugli enti non commerciali e le Onlus. Esso istituisce le organizzazioni non lucrative di
utilità sociale e ridefinisce il trattamento tributario delle organizzazioni senza scopo di
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lucro. Le finalità sono quelle di offrire al settore della cultura e dell’arte un pacchetto di
agevolazioni e incentivi per l’ottenimento di una maggiore autonomia finanziaria.
Gli incentivi possono essere di tipo interno, che interessano direttamente l’impresa
culturale come la detassazione e la decommercializzazione, la quale riguarda l’ipotesi
di poter svolgere attività accessorie, allo scopo di disporre di fonti di finanziamento
aggiuntive, con attività tipicamente commerciali come il merchandising (legge
Ronchey).
Altra categoria è rappresentata dagli incentivi di tipo esterno, che riguardano l’impresa
culturale in quanto beneficiaria di sovvenzioni o da parte dello Stato, se sono assolti
alcuni requisiti, o da parte di contribuenti privati, propensi alla donazione, sia in denaro
che in natura, per l’esistenza di agevolazioni fiscali ai fini della determinazione del
reddito.
Lo scopo è quello di spianare la strada ad uno sviluppo delle non profit, attraverso una
maggiore possibilità di finanziamento interno ed esterno, ma esiste anche un insieme di
problemi legati all’elusione fiscale e allo snaturamento della funzione di organizzazione
non profit.
Attualmente, nell’intento di modernizzare il settore si assiste ad un progressivo ritirarsi
dell’impegno pubblico a favore del coinvolgimento dei privati, con conseguente spinta
alla managerializzazione delle imprese culturali, che sempre più si trovano di fronte
problematiche tipiche delle imprese private orientate al profitto.
Comportamento tipico è quello delle imprese culturali italiane, mutuato dalla realtà
statunitense, che si adoperano per il Fundraising, un’insieme di tecniche di raccolta
fondi, che attraggono e fidelizzano i sovventori. Dall’altra parte vi sono naturalmente
sovventori, donatori, che operano strategie di Fundgiving , attraverso sponsorizzazioni e
/o partnership, al fine di ottenere un ritorno reputazionale.
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Con l’intento di offrire un quadro completo, nella trattazione a seguire, verranno
esaminate e analizzate le problematiche inerenti gli aspetti economici del settore della
cultura, dell’arte e dello spettacolo, in Italia, con riferimenti alle realtà europee ed
extraeuropee, entrando in merito al quadro normativo attuale.
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Parte prima
ECONOMIA E CULTURA
1 NASCITA DELL’ECONOMIA DELLA CULTURA
1.1 Premessa storica
Il legame tra cultura ed economia è sempre stato molto forte. Fino alla metà degli anni
’60, tuttavia, la scienza economica non si è occupata in maniera sistematica del mondo
artistico-culturale – che, può essere suddiviso in due categorie principali: le Visual Arts
e le Performing Arts, nella tradizionale terminologia anglosassone.
Le Visual Arts sono : la fotografia, le installazioni (video musicali), la Video Art, la
Plastic Art, i quadri e le sculture.
Il comparto delle Performing Arts comprende mostre, convegni, itinerari culturali. In
tale campo l’esempio per definizione è dato dagli gli spettacoli dal vivo, dalle
rappresentazioni teatrali, dai balletti, dalla lirica, dall’opera, dalla musica, dal teatro di
strada e dal circo.
Le basi per l’analisi economica del complesso mondo dell’arte e della cultura si sono
sviluppate insieme all’interessamento di alcuni grandi economisti, i quali, mossi da
proprie inclinazioni personali, hanno avvicinato, con osservazioni ed intuizioni, il
mondo dell’arte e della cultura al mondo economico.
I primi suggerimenti arrivano nel XVIII° secolo da Adam Smith e David Ricardo. I due
grandi economisti classici partono dalla constatazione che l’arte produce delle
17
esternalità positive
2
. “Le rappresentazioni teatrali”, scrive Adam Smith ne La Ricchezza
delle Nazioni, “riescono a dissipare nella maggior parte della gente la disposizione della
malinconia”.
Smith e Ricardo mettono inoltre l’accento sul livello di remunerazione in campo
culturale: poiché la formazione nelle arti che richiedono grande abilità è molto lunga e
dispendiosa, gli artisti dovrebbero essere pagati molto di più.
Un secolo dopo, Alfred Marshall
3
nota un’interessante peculiarità dell’economia della
cultura. “Mentre nel consumo dei beni industriali, oltre un certo livello, la soddisfazione
degli individui tende a decrescere, nella fruizione della musica vale il principio inverso:
più la si ascolta, più la si apprezza”. Per la musica e, più in generale, per i beni e servizi
culturali, vale dunque il principio dell’utilità marginale crescente.
Durante gli anni ‘20 e ‘30 l’economista John Maynard Keynes caldeggia l’intervento
pubblico a sostegno dell’arte. Keynes, appassionato collezionista e finanziatore di
spettacoli dal vivo, attira l’attenzione sulla condizione “disastrosa” in cui sono costretti
a vivere gli artisti nel XX° secolo.
Secondo Keynes, “l’arte rappresenta uno dei principi civilizzanti della società e in
quanto tale, deve essere sostenuta e incoraggiata dallo Stato”. Dietro l’insistenza di
Keynes, il ministro delle finanze inglese partecipa ad alcune aste private acquistando
prestigiose collezioni d’arte. In seguito, viene creata l’Arts Council, un’istituzione
pubblica di assistenza finanziaria agli artisti, con l’obbiettivo di sviluppare una
maggiore conoscenza, comprensione, accessibilità all’arte, di cui Keynes è il primo
Presidente. Egli dichiara con orgoglio che “finalmente il settore pubblico ha
2
Si hanno esternalità quando l’attività di produzione o consumo di un soggetto influenza, negativamente
o positivamente, il benessere di un altro soggetto, senza che questo riceva una compensazione da chi
provoca la diseconomia, o paghi un indennizzo a chi arreca il beneficio
3
L’economia della cultura, Euromeridiana secondo quadrimestre 2004.
18
riconosciuto tra i suoi compiti, anche quello di sostenere le arti, che contribuiscono a
civilizzare la vita.”
Nel secondo dopoguerra, l’interesse britannico per il mondo dell’arte e della cultura
contagia gli Stati Uniti. Nel 1957, la Ford Foundation inaugura un programma per le
arti e, in soli dieci anni, diviene uno dei principali finanziatori di orchestre sinfoniche e
compagnie di balletto. Nel 1961 viene istituito il New York Council on the Arts, e nel
1965 viene fondato il National Endowment for the Arts, il primo organismo per le arti a
livello federale. Nello stesso periodo, il Rockfeller Brothers Found ed il Twentieth
Century Fuond iniziano a studiare il settore degli spettacoli dal vivo.
L’ interesse della scienza economica per il mondo dell’arte raggiunge un punto di svolta
con la pubblicazione di Performing Arts: The Economic Dilemma (Le arti dal vivo: il
dilemma economico) dei due economisti William Baumol e William Bowen.
Si può quindi ritenere, che a partire dal 1966, comincia ad affermarsi il concetto di
“economia della cultura”.
19
2 IL MORBO DI BAUMOL
2.1 La teoria di Baumol e Bowen: la legge di crescita sbilanciata
I primi che hanno cercato di analizzare i problemi economici del settore culturale sono
stati nel 1965, Baumol e Bowen.
Il fulcro dell’analisi sono gli spettacoli dal vivo – concerti, balletto, opera, teatro, le
Performing Arts in generale – caratterizzati dall’interazione tra gli artisti e il loro
pubblico.
Il risultato principale dell’analisi è che gli spettacoli dal vivo sono afflitti da una
“malattia”: la tendenza all’aumento inarrestabile dei costi, che solo raramente sono
coperti dai ricavi.
Secondo i due studiosi la spiegazione si può esprimere come segue: partendo dalla
distinzione fra settori progressivi e stagnanti, possiamo asserire che il primo comprende
la maggior parte dei settori economici, dunque quello agricolo, e l’industriale, anche se
Baumol e Bowen prendono come esempio quello manifatturiero. In questi settori
l’adozione di nuove tecnologie consente rendimenti di scala crescenti: all’aumentare dei
fattori produttivi impiegati la quantità prodotta aumenta più che proporzionalmente. Il
costo medio di lungo periodo decresce al crescere della quantità prodotta (economie di
scala); un ruolo importante é dunque ricoperto dalla tecnologia.
Il settore stagnante invece non presenta tali caratteristiche; è un settore dove è difficile
sostituire il fattore lavoro con il capitale, proprio per le caratteristiche che esso presenta.
Ne fanno parte di questo, l’istruzione, le attività governative e lo spettacolo dal vivo.
Lo spettacolo dal vivo è poco sensibile al progresso tecnologico e agli aumenti di
produttività che questo comporta. Mettere in scena un balletto, uno spettacolo in
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generale, richiede oggi gli stessi input di quattro secoli fa: un teatro, le scenografie, i
tecnici e gli attori. Nel fissare la remunerazione degli artisti, gli impresari teatrali si
trovano dunque di fronte a un dilemma: pagarli in base allo stipendio degli altri settori,
sul modello di quello progressivo dove forte è l’incidenza della tecnologia, o in base
alla loro produttività?
Nel primo caso, il prezzo dei biglietti teatrali aumenterebbe molto più del prezzo degli
altri beni o servizi – che beneficiano di una produttività crescente – col rischio che si
riduca la domanda, quindi gli incassi. Nel secondo caso, gli attori di oggi,
percepirebbero la stessa remunerazione dei loro colleghi dei tempi di Shakespeare fino a
divenire una delle classi più povere della società.
Le conclusioni di Baumol e Bowen sono abbastanza nette: nel settore manifatturiero,
grazie all’impiego di tecnologia, si realizza un incremento della produttività con
conseguente crescita dei salari. Questa induce i lavoratori del settore stagnante a
chiedere un adeguamento del proprio salario, cosa che viene loro senza giustificazioni
economiche, ma per effetto della pressione sociale
4
. Pertanto i salari dello spettacolo
crescono alla stessa velocità del divario di produttività tra i due settori.
Ciò implica che nel settore manifatturiero, il costo per unità di prodotto rimane costante,
mentre cresce nel settore dello spettacolo dal vivo.
Tutto questo, potenzialmente innesca una catena di effetti: la crescita dei prezzi di
vendita, la riduzione della domanda, la contrazione del settore dello spettacolo con
l’espulsione crescente di una quota consistente di lavoratori, fino all’estinzione del
settore stesso.
L’unico modo per evitare tale problema, sostengono i due economisti, è che i costi degli
spettacoli dal vivo vengano, almeno in parte, sostenuti dallo Stato.
4
Baumol H. e Baumol W.J. “The Future of the Theater and the Cost Disesase of the Arts, in the Bach and
the Box: The impact of Television on the Performing Arts”, a cura di M.A. Hendon, J.F. Richardson e
W.S. Hendon, Akron, Association for Cultural Economics
21
Anche nel settore delle arti visuali (Visual Arts) il lavoro appare poco facilmente
sostituibile con il capitale, e dunque le innovazioni tecnologiche poco assorbibili.
Tuttavia, si deve sottolineare la particolare ricettività dello stesso settore delle arti
visuali nei confronti del progresso tecnico, in termini di sviluppo di nuove forme
espressive, di nuove “arti”, come il video d’autore o la computer art.
Infine è da evidenziare che nelle Visual Arts il costo delle materie prime è senz’altro
minore che nelle Performing Arts e dunque gli effetti del “morbo di Baumol” saranno
senz’altro minori.