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1. Il value based management e il
valore economico
1.1 Il concetto di “valore economico”
Perché il valore è un elemento fondamentale? Perché esso pervade la vita delle
imprese e, di conseguenza quella di tutti coloro che fruiscono della loro attività.
L’imprenditorialità finalizzata al conseguimento del lucro è il principio su
cui si fonda il capitalismo moderno, principio peraltro istituzionalizzato dalla
normativa civilistica di tutti i paesi democratici a economia di mercato. Per lucrare
sull’insieme dei capitali fisici, monetari, intellettuali e umani investiti,
l’imprenditore deve perseguire azioni e politiche che, in modo coerente e
strutturato, massimizzino nel tempo il valore di quei capitali.
Se al termine “imprenditore” si sostituisce poi il più generale riferimento al
concetto di proprietà, vista ormai la generale tendenza delle imprese
all’azionariato diffuso, appare chiaro come il perseguimento dell’obiettivo di
massimizzare la ricchezza dei fornitori di capitali (gli azionisti in primis) sia il
fine principale e incontestabilmente istituzionale.
Una classica misura di sintesi per valutare l’andamento delle imprese è
costituita dal reddito di esercizio (utile o perdita di gestione). Questa grandezza,
calcolata applicando il modello del bilancio di esercizio, possiede una serie di
vantaggi, tra cui:
• il fatto che si tratta di una misura di sintesi, nella quale si riflettono,
presto o tardi, tutti i fatti interni ed esterni alla gestione, nel loro
impatto sui ricavi (cui corrispondono entrate finanziarie) e sui costi
(cui corrispondono uscite finanziarie);
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• la possibilità di articolare questo risultato di sintesi nelle sue
componenti economiche (le varie categorie di ricavi e di costi),
evidenziando una serie di risultati intermedi (dal margine di
contribuzione, al margine operativo lordo, al reddito operativo),
particolarmente utili per evidenziare le aree di criticità;
• la possibilità di collegare le componenti economiche – risultati
intermedi e singole categorie di ricavo e di costo – alle determinanti
operative del valore, tra cui: volumi, mix e prezzi di vendita; volumi,
mix e prezzi di acquisto dei prodotti e dei servizi; costi ed efficienza
del personale interno; costi ed efficienza degli impianti e così via;
• la possibilità connaturata alla natura sistemica del modello economico-
finanziario di collegare il risultato economico di esercizio (utile o
perdita) alla dinamica finanziaria (illustrata nel rendiconto finanziario)
e alla struttura patrimoniale (attività, passività e netto) dell’azienda,
evidenziando, quindi, l’impatto della gestione sui flussi finanziari e
sulla solidità e liquidità dell’azienda.
Quindi grazie al “linguaggio del bilancio”, che costituisce un bagaglio culturale
ormai consolidato, è possibile dialogare sulle performance aziendali, all’interno e
all’esterno dell’azienda.
Se si condividono questi elementi positivi delle misure di valore che
scaturiscono dal bilancio d’esercizio, opportunamente inseriti nel contesto di fini
e obiettivi multidimensionali, non se ne possono, però, tacere alcuni limiti proprio
sul fronte della misurazione del valore generato dalla gestione in un determinato
esercizio. Tra i limiti più rilevanti si evidenziano tre aspetti, che è bene precisare
non si riferiscono al modello contabile in sé, ma alle sue applicazioni distorte che
spesso si realizzano nell’operatività aziendale.
• Nelle loro applicazioni più “banali” (ma frequentemente presenti) le
misure di redditività contabile, assolute (quali il reddito netto) e
soprattutto relative (quali il ROE o il ROI), possono condurre il
governo dell’impresa a focalizzarsi sul breve periodo, sui risultati da
conseguire nell’esercizio in corso o, al massimo, nel budget
dell’esercizio successivo. Non è detto che la tensione sui risultati di
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breve sia coerente con l’obiettivo di sviluppare il potenziale futuro
dell’impresa. Se la direzione è, per esempio, responsabilizzata solo sul
ROI realizzabile nell’esercizio successivo, essa potrebbe ottenere
buone performance riducendo gli investimenti
1
(e per tale via
aumentando la rotazione del capitale) o “stressando” i clienti più fedeli
(con prezzi elevati e servizio scadente), il personale (con
remunerazioni limitate e condizioni di lavoro insoddisfacenti), i
fornitori e partner (con tensioni irragionevoli sui prezzi e
declassamento della qualità relazionale). Queste e altre azioni, pur
producendo effetti positivi sul ROI dell’esercizio, potrebbero rivelarsi
deleterie per il ROI degli esercizi successivi.
• Un importante fattore da cui dipende il futuro dell’impresa è dato dalla
sua dotazione di risorse intangibili o di capitale intellettuale. Con
questo si intende il capitale umano (conoscenze e capacità che le
persone trasferiscono all’impresa), il capitale relazionale (reputazione,
immagine e fiducia di cui gode l’impresa presso i clienti, i fornitori e
tutti gli altri stakeholders), il capitale strutturale (procedure, sistemi e
competenze riferibili all’azienda nel suo complesso). Le logiche di
prudenza e di attendibilità dei valori nei confronti degli interlocutori
esterni (creditori in primis) che ispirano la redazione del bilancio
conducono a valutazioni limitate (a volte inesistenti) del capitale
intangibile accumulato dall’impresa. I costi di sviluppo interno del
capitale intellettuale (costi di formazione, comunicazione, ricerca)
sono, per la gran parte, “spesati” nell’esercizio. I costi di sviluppo per
via esterna (accordi e acquisizioni) possono essere, in parte,
capitalizzati, ma sono poi imputati all’esercizio in periodi di
ammortamento sovente limitati rispetto alla vita utile di tali
componenti, che, in alcuni casi, non perdono di valore, ma
l’aumentano, attraverso l’utilizzo. Si pensi all’avviamento o al marchio
di un’impresa ben funzionante. Se non si compiono gravi errori e se si
1
Si consideri ad esempio una riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo: tale riduzione
libererà sicuramente liquidità nel breve periodo, ma allo stesso tempo potrà risultare nociva per la
competitività futura dell’impresa.
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continua a sostenere i costi per il loro mantenimento e sviluppo, è
possibile che i valori di avviamento e marchio acquisito aumentino di
valore nel tempo. Il modello contabile tende, invece, ad annullare
progressivamente tale valore, tramite il processo d’ammortamento: il
bilancio, ricordiamolo, si basa essenzialmente su stime prudenziali.
Tutto ciò accade anche a causa delle “interferenze” fiscali del bilancio,
che fanno sì che le imprese che producono redditi elevati abbiano
convenienza a “spesare” tali costi.
• Se per alcuni costi – quelli relativi all’accumulazione di capitale
intellettuale – il modello contabile è, da un certo punto di vista, troppo
prudente, per un particolare costo opportunità – quello del capitale
investito dagli azionisti – esso non ne fa menzione. Questo per una
ragione molto chiara: l’impossibilità di tenere conto in modo
attendibile di un costo figurativo (un costo opportunità che non si
manifesta in termini monetari diretti), qual è il costo del capitale
proprio. E’ indubbio, però, che gli azionisti, nel momento in cui
investono il loro capitale nell’azienda, si attendono una certa
remunerazione, tendenzialmente più elevata di quella degli altri
finanziatori, a causa del maggior rischio che essi corrono nel legare le
vicende di una parte della loro ricchezza alle dinamiche future
dell’impresa. Nel modello contabile non si tiene conto di questo, se
non attraverso l’apprezzamento della redditività del capitale proprio
(ROE), che deve essere però valutata alla luce del livello di rischio
d’impresa. Un conto è realizzare un ROE del 15% da parte di una
grande impresa consolidata (si pensi all’ENI), un altro da parte di una
nuova, piccola impresa il cui futuro è tutto da costruire. Il “valore” del
primo ROE è probabilmente più “elevato”. Di questo è
sostanzialmente difficile tenere conto nel modello contabile.
A partire dall’evidenziazione di tali limiti e dalla proposta di rinnovati principi e
strumenti di misurazione è sorto recentemente un filone, operativo e tecnico, che
propone di utilizzare il concetto di valore economico creato dall’azienda, a
1. Il value based management e il valore economico
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integrazione della “classica” misura di performance costituita dal reddito
d’esercizio.
L’idea ispiratrice di tale approccio è quella di porre tra le finalità e gli
obiettivi dell’azienda la “massimizzazione” del valore del capitale, ritenuta una
variabile in grado di orientare in modo più ampio, in senso spaziale e temporale, il
governo aziendale, rispetto ai tradizionali obiettivi di “massimizzazione” del
reddito d’esercizio. Abbiamo utilizzato il termine “massimizzazione” tra
virgolette per evidenziare il fatto che, nelle condizioni di incertezza dettata dal
rischio specifico e di mercato cui ogni azienda è sottoposta, sarebbe più giusto
citare la soddisfacente valorizzazione del capitale aziendale come obiettivo
primario, rispetto alla valorizzazione del reddito d’esercizio.
1.2 Basi teoriche
A questo punto, visto il crescente interesse che ha riportato tale argomento a
livello mondiale, sorge spontanea una domanda: il valore è un concetto nuovo? La
risposta non può che essere negativa. Dal punto di vista metodologico tutto ciò
che attualmente viene predicato come la nuova visione basata sul valore, il suo
studio, la sua determinazione, trova le sue radici teoriche nel metodo del valore
attuale della pianificazione degli investimenti e nell’approccio metodologico
sviluppato dai premi nobel Merton Miller e Franco Modigliani nel loro articolo
“Dividend Policy, Growth and the Valuation of Shares”, pubblicato nel 1961 sul
Journal of Business. Il debito intellettuale perciò va sentito in primis nei loro
confronti. Non possiamo dimenticare però di nominare coloro i quali hanno fatto
molto per diffondere tale impostazione: il professor Alfred Rappaport della
Northwestern University e Joel Stern, i quali sono stati i primi ad applicare a casi
concreti la formula per la valutazione delle entità economiche di Modigliani e
Miller e a sviluppare e commercializzare applicazioni software per semplificare
l’applicazione pratica di questa metodologia.
Il debito intellettuale va sicuramente condiviso anche con l’economista
Michael Porter che nel suo lavoro, ”Competitive advantage”- 1985 - , analizza
come le specifiche attività dell’impresa che creano un vantaggio competitivo
1. Il value based management e il valore economico
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debbano essere inserite in un’ottica di “chain of value-creating”, ovvero in un
unico percorso definito “catena del valore”.
1.3 Il valore per gli azionisti
L’attenzione al tema del valore economico per gli azionisti, insita nel moderno
concetto d’impresa da tempo considerato nella teoria economica e finanziaria,
trova origini distinte se consideriamo i due principali poli economici mondiali:
quello anglosassone e quello continentale.
Nella realtà statunitense, caratterizzata dalla presenza di un elevato numero
di società quotate a base azionaria diffusa e non concentrata (public company), le
motivazioni che hanno favorito l’affermarsi della “scuola del valore” possono
essere riferite a un insieme di fenomeni tra loro positivamente collegati:
• la crescente rilevanza, all’interno della compagine azionaria, di
investitori istituzionali, detentori di elevati investimenti nel capitale
azionario, che giudicano la performance dell’impresa in base a misure
di creazione di valore, e quindi puntando molto sulle aspettative che
non a misure come l’earning per share, troppo spesso prodotte con
artifizi contabili;
• il timore da parte dell’alta direzione (top manager) di subire scalate
ostili, che si possono realizzare quando azionisti esterni percepiscono
che una società “contendibile” (il cui assetto proprietario può essere
posto in discussione) potrebbe essere meglio valorizzata con un
diverso assetto di governo (che implica, in genere, la sostituzione
dell’alta direzione);
• la necessità di disporre di strumenti di misurazione e di governo in
grado di ridurre i conflitti (di agenzia), di cui si spiegherà nei prossimi
paragrafi, e le asimmetrie valutative tra azionisti (esterni) e
management, allineandone i diversi interessi. L’adozione di tali
strumenti è stata favorita dalla disponibilità di strumenti teorici e
operativi in grado di rendere applicabili le teorie del valore;
1. Il value based management e il valore economico
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• la sempre più diffusa utilizzazione di logiche di remunerazione del
management ispirate alla generazione di valore per gli azionisti e la
diffusione di azioni e opzioni sulle azioni (stock options) come
componenti importanti della remunerazione del personale (non solo
manageriale).
Nel contesto europeo e in Italia in particolare, le motivazioni della graduale
affermazione della scuola del valore trovano invece origine in:
• l’apertura degli assetti proprietari e di governo, in alcune imprese di
medie e grandi dimensioni, che si verifica nel passaggio da aziende
familiari ad aziende a gestione manageriale, e quindi legate
all’azionariato diffuso;
• il processo di privatizzazione delle imprese a partecipazione statale,
delle aziende che fanno capo agli enti pubblici territoriali e del sistema
bancario con la diffusione al pubblico di un’ampia quota del capitale
azionario;
• la crescente rilevanza del mercato borsistico, sia in termini di
numerosità di imprese quotate, sia di porzione di risparmio destinata a
tale investimento;
• la conseguente pressione degli investitori istituzionali sulla
generazione di valore economico, e non più solo di quello contabile;
• la necessità delle imprese di aprirsi al capitale esterno, e quindi al
capitale azionario, per realizzare ambiziosi piani di investimento
(anche verso l’internazionalizzazione) e per disporre di capitale umano
di alto livello (manager attuali o potenziali che manifestano esigenze di
partecipare al capitale aziendale, con azioni od opzioni sulle azioni).
La prospettiva del valore economico si caratterizza per assumere come misura di
sintesi della performance dell’impresa il valore generato per gli azionisti. Questo
si qualifica, in prima analisi, come il rendimento che l’azionista ricava
dall’investimento di capitale nell’impresa.
Il vero rendimento per l’azionista pertanto non può che essere misurato
dall’andamento dei prezzi di mercato delle azioni al quale verranno aggiunti i
dividendi. In realtà vi sono altre componenti fondamentali che operano nel dare
1. Il value based management e il valore economico
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un peso all’azione e tra queste citiamo l’aspettativa di dividendi futuri, le
dinamiche del settore di appartenenza e del sistema economico in generale
2
.
A questo punto si rende necessaria una precisazione riguardo le diverse
finalità della figura dell’azionista. Principalmente gli azionisti possono essere
divisi in due categorie: gli speculatori e i cassettisti
3
.
Nel caso di azionisti speculatori tutto il discorso fin qui effettuato riguardo
alla creazione di valore nel lungo periodo come visione della politica aziendale
avrà un peso molto limitato. In questo caso, infatti, l’unico interesse dello
speculatore sarà quello di avere un ritorno economico nel più breve tempo
possibile. La sua analisi sarà basata essenzialmente sul trend positivo borsistico
dell’azione, sulla capacità dell’azienda di massimizzare l’utile nel breve periodo
per far salire nel breve tempo il valore dell’azione stessa: in sostanza non si
sentirà proprietario di un’impresa ma semplice sfruttatore della sua ricchezza
prodotta, e tale ricchezza sarà evidente quanto più il prezzo dell’azione tenderà a
salire nel breve periodo.
Nel caso invece di un cassettista il valore economico realizzato non potrà
prescindere dall’analisi più specifica dei rischi connessi ad esso. In particolare ci
riferiamo al rendimento minimo atteso, ovvero il costo del capitale azionario (k
e
)
che viene definito come il tasso di redditività che il mercato si attende per gli
investimenti in capitale di rischio. Il costo del capitale proprio nasce come somma
del risk free rate e del market risk premium. L’investitore quindi avrà
convenienza a mantenere nel suo portafoglio di lungo periodo quell’azione il cui
rendimento sarà maggiore del costo del capitale impiegato.
2
Il prezzo dell’azione incorpora quindi non solo il valore intrinseco attuale dell’impresa, ma anche
l’aspettativa di crescita futura, i dividendi attuali e l’aspettativa sui dividendi futuri.
3
Il termine “cassettista” indica chi opera in Borsa al fine di un durevole investimento.
1. Il value based management e il valore economico
16
1.4 Il Value based Management
1.4.1 Introduzione al Value Based Management nel confronto tra
shareholders e stakeholders
Assumere la prospettiva degli azionisti nel calcolo del valore economico fa
nascere dei problemi nel momento in cui tale logica fosse concepita come
esclusiva, anche a scapito degli interessi degli altri stakeholders aziendali. In
realtà, il valore per gli azionisti – in una prospettiva di breve e di medio-lungo
periodo – deve coniugarsi con il soddisfacimento delle attese dei clienti, del
personale, dei partners, delle comunità locali e di tutti gli altri eventuali portatori
di interessi (o stakeholders), dal cui consenso e dai cui contributi dipende il
funzionamento aziendale e, quindi, la produzione di valore economico. Il compito
del management diventa quindi principalmente quello di coniugare due principali
tipologie di interessi in gioco: in primis la contrapposizione shareholder-
stakeholder, inoltre vi sarà il problema di una crescita sostenibile dell’impresa nel
tentativo che questa non distrugga valore sociale.
Questo deriva essenzialmente dal naturale deficit definito dalla agency
theory, ovvero la “teoria dell’agente”. All’interno di un’impresa si è sempre
assistito ad uno scontro tra i vari interessi che risultano coinvolti nell’ambiente
dell’organizzazione, e proprio per tale principio è stata (e lo è tuttora)
fondamentale la divisione organizzativa, ed in particolare la divisione tra gestione
e proprietà: questo è sempre stato visto come un principio cardine di forma
efficiente di organizzazione (FAMA, 1980). E’ innegabile che tale situazione
comporti però dei conflitti interni e lotte di potere spesso nocivi all’intera azienda.
La agency theory focalizza il suo studio sulla relazione tra l’agente
(manager) e il principale, che a seconda degli interessi che vogliamo analizzare
assumerà la forma di shareholder, stakeholder, crescita sociale… Tale relazione
nasce dall’obbligo di soddisfare interessi reciproci legati a rapporti di tipo
economico. Ma proprio perché sono soggetti diversi, con diverse aspettative e
vedute, si crea una sovrapposizione di interessi e questo risulta da due cause
distinte: l’agency problem appunto, e il problema di risk sharing, ovvero il rischio
1. Il value based management e il valore economico
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di partecipazione. Nel primo caso diventa così una corsa al controllo reciproco,
allo studio degli interessi della controparte, alla diffidenza data dalla naturale
disposizione delle cose (EISENHARDT, 1989); mentre nel secondo caso il
problema è legato alla diversa avversione al rischio
4
(SHANKMAN, 1999).
Come si può intuire entrambi i problemi non sono altro che un corollario del
lack of goal congruence, ovvero una mancanza di fini comuni, tra l’agente, il cui
fine è quello di soddisfare gli interessi dell’azienda e quindi anche gli interessi
degli stakeholders e dell’ambiente dove opera l’impresa, e l’organizzazione, intesa
come insieme degli azionisti, il cui fine sarà quello di massimizzare i propri
interessi. In pratica il management si trova di fronte ad un problema di
“massimizzazione vincolata”, la cui soluzione sarà di conseguenza un ottimo
relativo. E’ impensabile, comunque, riuscire a massimizzare il valore degli
azionisti trascurando tutti gli stakeholders, di cui l’impresa non può fare a meno
per continuare ad operare, e trascurare la crescita sostenibile, in quanto i “costi
sociali” sarebbero troppo alti da sopportare.
Il Value Based Management guarda in primis al problema tra shareholders e
stakeholders, che viene ricondotto ad un lack of goal congruence, ovvero un
divario tra i diversi fini, e cerca attraverso i suoi strumenti di ridurlo al minimo,
perseverando nella ricerca di far convogliare tutti gli interessi in gioco all’interno
dell’impresa verso un unico fine: creare ricchezza economica da dividere tra tutte
le componenti interessate.
L’efficiente uso di risorse dovrebbe assicurare un ritorno economico
superiore al costo del capitale utilizzato, e questo eccesso di ricchezza, che non è
altro che la base della creazione di valore, dovrebbe essere distribuito in primis
agli azionisti ma allo stesso tempo anche a tutti i portatori di interesse interni ed
esterni. (MILLS and WEINSTEIN, 2000).
4
Basti pensare alla differenza tra azionista e amministratore nel caso l’azienda sia in dissesto, il
primo perderà la sua ricchezza, il secondo potrà sempre cambiare lavoro.