Introduzione
Sicuramente Caino non poteva immaginare che il suo sarebbe stato il primo di un'infinita serie di atti a cui ego, nel corso dei secoli, avrebbe sempre pi ù frequentemente fatto ricorso per eliminare alter, considerato ora come una minaccia, ora come un pericolo, ora come un nemico.
Il termine omicidio deriva dal latino homicidium, composto da homo uomo e dal suffisso cidium – dal verbo caedo che significa tagliare, recidere e, appunto, uccidere – e indica l'atto di sopprimere una o pi ù vite umane, espressione della pi ù grave forma di violenza interpersonale.
Il Codice Penale italiano lo annovera tra i delitti contro la persona (Titolo XII, Capo I) e, all'articolo 575, ne sancisce la pena: minimo ventuno anni di reclusione, convertibili in ergastolo qualora si concretizzi una delle aggravanti previste dagli articoli 576 e 577, in relazione con quelle disciplinate dall'articolo 61. Queste possono essere correlate con:
– l'elemento soggettivo del reato, come la premeditazione o l'aver agito per futili motivi;
– le modalit à di esecuzione dello stesso, come aver compiuto sevizie, aver agito con crudeltà o aver impiegato sostanze venefiche o altri mezzi insidiosi;
– le finalit à del delitto, come aver commesso il fatto per occultarne un altro o per trarne beneficio o guadagno economico;
– la relazione fra omicida e vittima: la parentela costituisce infatti una condizione aggravante di per s é;
– lo status dell'autore, qualora questi sia latitante e commetta il reato per sottrarsi all'arresto, alla cattura, alla carcerazione o per procurarsi i mezzi necessari per rendersi irreperibile.
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Tuttavia il nostro Codice Penale, accanto all'omicidio doloso disciplinato dall'articolo 575, prevede altre fattispecie delittuose come quello colposo e quello preterintenzionale: nel primo caso, se la morte della vittima è dovuta a imprudenza, negligenza o imperizia oppure all'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, l'articolo 589 prevede una punizione sostanzialmente inferiore rispetto a quella prevista per le fattispecie dolose. Analogamente, ai sensi dell'articolo 584, colui che, in seguito a percosse o dopo aver causato a terzi lesioni particolarmente gravi ne provoca, involontariamente, il decesso, sar à punito con la reclusione da dieci a diciotto anni, salvo aggravanti o attenuanti.
Per poter meglio contestualizzare la correlazione fra dinamiche omicidiarie e variabili politiche e socioeconomiche nel nostro paese, è necessario ampliare il campo d'indagine analizzando, tramite i dati rilevati dall' United Nation Office on Drugs and Crime Centre for International Crime Prevention , la diffusione del pi ù grave dei delitti in alcuni paesi del mondo. Appare subito evidente una relazione di inversa proporzionalit à fra numero di casi rilevati e sviluppo economico e sociale della nazione considerata: gli indici di rischio omicidiario sono infatti maggiori in alcuni stati dell'America Latina quali El Salvador, Ecuador, Repubblica Dominicana, Nicaragua e Argentina che in quelli europei, tra cui spiccano Svezia, Finlandia, Romania e Portogallo, rispetto ai quali l'Italia si assesta ad un livello significativamente inferiore. Nel nostro paese, infatti, considerando il range temporale compreso fra il 2000 e il 2008, si registra una lenta, ma costante, riduzione degli episodi omicidiari che, nell'ultimo anno censito, nonostante la sensibile diminuzione rispetto ai dodici mesi precedenti (2007, nda), si concentrano maggiormente al Sud che presenta tuttavia, rispetto al Nord e al Centro in cui i dati tendono ad una sostanziale stabilit à, una sensibile riduzione della percentuale di omicidi. Flessione che risulta ancora pi ù significativa se ampliamo il range sopra considerato fino a ricomprendere il 1991, in cui si raggiunse l' acme dei delitti in esame. Possiamo quindi dedurre come tale riduzione conduca ad una progressiva attenuazione del divario tra le tre diverse macroaree del paese che stanno progressivamente perdendo quei tratti tipicamente “campanilistici” che fino a poco tempo prima ne connotavano i rispettivi indici di rischio omicidiario.
Analizzando il dato a livello regionale, la flessione del numero degli omicidi registrati nel Meridione risulta prevalentemente legata ai dati provenienti dalla Campania. Nel 2008, quest'ultima non è tuttavia riuscita a liberarsi dall'etichetta di regione pi ù violenta, a causa degli oltre cento episodi verificatisi, seguita da Lombardia e Calabria la quale, insieme a Liguria, Toscana, Sardegna e Umbria, presenta, rispetto al 2007, un controtendenziale incremento degli omicidi, il cui valore percentuale totale si mantiene, tuttavia, su livelli negativi, grazie alla scarsissima incidenza del fenomeno in territori come il Triveneto, il Molise e la Valle d'Aosta.
Focalizzando la nostra attenzione sulla dimensione provinciale, le statistiche confermano i dati rilevati a livello regionale: Nuoro, Crotone e Reggio Calabria, Caserta e Napoli, Foggia, Grosseto e Pistoia sono infatti le province in cui si è registrato il maggior numero di omicidi, relativamente al solo 2008; al contrario, fra quelle meno interessate, sempre in 7
riferimento al medesimo range temporale, compaiono Trieste, Aosta, CarboniaIglesias, Rieti, Sondrio e Forl ìCesena.
Infine, in funzione della capacit à demografica dei singoli comuni, si rileva che in quelli con una popolazione compresa fra i quindicimila e i cinquantamila abitanti si raggiunge l'acme del numero dei casi, staccando di alcuni punti percentuale le grandi citt à metropolitane con oltre duecentocinquantamila unit à, mentre il nadir, confermando le nostre aspettative, si registra nei piccoli centri con una popolazione inferiore ai cinquemila abitanti, dove le strette maglie della rete di relazioni interpersonali spesso, ma non sempre, costituiscono un valido deterrente verso coloro che sono intenzionati a farsi giustizia autonomamente e in maniera piuttosto sommaria. In tali realt à, estranee a quelle dinamiche relazionali tipicamente metropolitane scandite dal frenetico scorrere dei minuti, è tramite la prossimit à, il vivere a stretto contatto gli uni con gli altri, che prende forma il noto luogo comune del “tutti sanno dei fatti di tutti”, grazie al quale molto spesso personaggi di spicco della comunit à, come il parroco e il sindaco ad esempio, possono adoperarsi, autonomamente o su richiesta di altri cittadini, per evitare che un componente del gruppo si macchi di crimini efferati per risolvere una questione personale.
Paradossalmente, tuttavia, in certi contesti è proprio la prossimit à il fattore precipitante di una condizione dominata da relazioni altamente conflittuali, responsabili di un costante clima di tensione che spesso culmina in un episodio delittuoso.
Proprio per questo motivo, un fenomeno a cui i media danno sempre maggior risalto, spesso andando oltre i dogmi etici e deontologici che dovrebbero costituire l'essenza del loro ruolo, è quello degli omicidi che avvengono fra le mura domestiche, sublimazione del delitto di prossimit à.
Da sempre la famiglia rappresenta l'embrione della societ à, tanto che anche il nostro testo costituzionale, all'articolo 29 del Titolo II, afferma che “ La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come societ à naturale fondata sul matrimonio” . Essa è, quindi, un microcosmo relazionale dalle dinamiche instabili e complesse, attraverso le quali i suoi componenti si strutturano culturalmente e psicologicamente, acquisendo allo stesso tempo funzioni e ruoli sociali.
Come tutte le societ à, inoltre, la famiglia si è evoluta rispetto al passato: la classica immagine di genitori e figli riuniti intorno al medesimo tavolo in un'atmosfera armoniosa e rilassata è svanita, come pure l'austera figura del pater familias quale primus inter pares e unico depositario del potere decisionale.
La famiglia contemporanea è pi ù simile ad un patchwork(Magni 2005) , un sistema caratterizzato da una costante instabilit à affettiva, da dinamiche sempre pi ù inquiete e conflittuali che costringono i vari componenti a ricercare altrove nuove forme relazionali e nuovi modelli di riferimento. E' un sistema di segmenti che tendono al parallelismo, ognuno portatore di un narrato che non solo non converge, ma addirittura entra in conflitto con quello degli altri familiari, creando un' escalation di tensione che sempre pi ù spesso culmina nella violenza.
La famiglia è venuta dunque a perdere la propria dimensione storica, la propria profondità temporale, potendo offrire solo una moltitudine di istantanee della propria esistenza, privilegiando esclusivamente la contingenza, l' hic et nunc di ogni suo 8
componente, la propria tragica autoreferenzialit à. In quanto relazione sociale, il nucleo familiare non pu ò trascendere il macrocosmo contestuale di riferimento, la cui costante trasformazione ne mette fortemente in discussione i ruoli stabiliti, ponendoli tutti sullo stesso piano: nessuno prevale, nessuno comanda. O meglio: tutti prevalgono e tutti comandano. Si generano quindi uno scadimento delle relazioni affettive e uno sconvolgimento delle identit à di ruolo tali da porre in essere dinamiche interpersonali sempre pi ù alterate e sulle quali ogni membro familiare riversa le proprie frustrazioni e delusioni, dovute alla impossibilit à di realizzare un soddisfacente progetto di vita.
In questa prospettiva, rappresentando la famiglia l'interlocutore dialetticamente pi ù vicino, il soggetto individua in essa la causa primaria delle proprie insoddisfazioni, della incapacità di affrontare e superare ostacoli ritenuti insormontabili. E' a questo punto che, disattivati quei freni inibitori che all'esterno sono costantemente in funzione, pu ò scattare l'aggressione, che i media troppo spesso attribuiscono erroneamente ad un raptus, verso i componenti del proprio nucleo d' origine.
Senza scomodare la psicopatologia forense o la psichiatria, possiamo etichettare la violenza domestica come un fenomeno sostanzialmente relazionale, quindi sociologico, espressione dell'evoluzione della famiglia e con un significato mai assoluto, ma contingente e relativo al contesto sociale di riferimento. Analizzando i dati relativi all'andamento del fenomeno nel range temporale compreso fra il 2000 e il 2008 si registra, in analogia a quanto gi à rilevato per la totalit à degli omicidi dolosi, una graduale flessione del numero dei casi, pur rimanendo la famiglia un contesto altamente sensibile alle dinamiche omicidiarie, soprattutto al CentroNord. Sono infatti le due maggiori aree metropolitane italiane, ovvero Milano e Roma, a registrare il pi ù elevato numero di eventi, a differenza di grandi citt à meridionali come Napoli e Bari. La conferma dei dati forniti pu ò inoltre essere desunta dall'analisi della variazione del gi à citato indice di rischio omicidiario , un parametro statistico che indica le probabilit à che ha un individuo di rimanere vittima di un omicidio, nella fattispecie di quello consumatosi fra le mura domestiche. Tale coefficiente si rivela infatti particolarmente elevato nelle regioni centrosettentrionali e, pi ù precisamente, nelle citt à con popolazione compresa fra i cinquantamila e i duecentocinquantamila abitanti.
A livello regionale, relativamente al 2008, la Lombardia si conferma, analogamente ai dodici mesi precedenti, la prima regione per numero di omicidi familiari con ben 27 casi, seguita da Veneto(15) ed Emilia Romagna(14).
“Genere” e “et à” sono le variabili pi ù importanti in funzione delle quali è possibile delineare le caratteristiche delle vittime della fattispecie criminosa in analisi che, a differenza di quelle relative a omicidi commessi in altri contesti, sono prevalentemente rappresentate da donne tra i venticinque e i cinquantaquattro anni o di et à superiore ai sessantaquattro.
In termini pi ù analitici, solo nel 2008, quelle uccise in famiglia sono centoquattro, cinque in pi ù rispetto all'anno precedente, soprattutto al Nord. Da ci ò si deduce facilmente come l'indice di rischio omicidiario sia notevolmente superiore fra le donne, particolarmente fra quelle di et à compresa tra i diciotto e i trentaquattro anni.
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Oltre al genere e all'et à, anche la variabile “professione della vittima” ha un ruolo di primo piano nel definirne il profilo: le categorie maggiormente interessate sono i pensionati, gli operai e i braccianti, gli impiegati, le casalinghe e gli studenti, senza trascurare i disoccupati che, a prescindere dal genere, costituiscono, relativamente al 2008, quasi la met à del totale delle vittime di omicidio domestico che si realizza prevalentemente lungo due dimensioni. All'interno della prima,“orizzontale”, riguardante la relazione fra coniugi o conviventi, si verifica un numero di casi pari a circa un terzo del totale; nella seconda, “verticale”, relativa alle dinamiche fra genitori e figli, si consuma invece un quarto di tutti gli omicidi familiari censiti nell'anno di riferimento, ossia il 2008.
Analizzando tali dati in maniera pi ù approfondita e in funzione della variabile di genere, si rileva, tra le vittime degli eventi verificatisi all'interno della dimensione “orizzontale”, una prevalente presenza femminile, pari a circa l'80% del totale, escludendo il fratricidio che riguarda, sia in termini di vittime che di autori, soprattutto soggetti di sesso maschile.
Poiché la maggior parte delle indagini relative agli omicidi familiari si conclude con l'identificazione e la cattura del responsabile, è stato possibile, grazie ai dati contenuti nel Rapporto EuresAnsa 2009, stilare un profilo socioanagrafico particolarmente accurato dell'autore che, in circa l'80% dei casi registrati nel 2008, è di sesso maschile e di et à compresa fra i venticinque e i trentaquattro anni.
Tra le sue vittime, quasi totalmente donne, le pi ù numerose sono le mogli, le conviventi e le amanti, a cui seguono i genitori, i figli e i parenti di grado superiore al primo.
Similmente, le donne autrici di omicidio familiare, concentrate maggiormente nella fascia di et à compresa tra i trentacinque e i quarantaquattro anni, tendono a colpire soprattutto individui del sesso opposto, in primis mariti o compagni: questa analogia non fa che confermare la centralit à del conflitto di genere nell'analisi delle dinamiche alla base delle violenze che hanno luogo nell'ambiente domestico.
Considerando la variabile “professione degli autori”, si nota un'importante similitudine con i dati ottenuti precedentemente dall'analisi del profilo della vittima: le prime posizioni sono occupate da pensionati e lavoratori manuali, evidenziando cos ì l'importanza nella fisiologia di un simile delitto tanto della variabile “et à” quanto della variabile “istruzione”.
Al contrario, relativamente al parametro “stato civile”, tra gli autori di sesso maschile si registra un'alta percentuale di celibi e di separati, mentre la maggior parte delle donne responsabili di omicidio familiare sono coniugate o conviventi.
Se la maggior parte dei delitti consumatisi fra le mura domestiche si conclude con l'arresto dell'autore che, resosi conto della gravit à del gesto compiuto, rimane sul luogo dell'accaduto in attesa dell'intervento delle Forze dell'Ordine, al contrario, nel 20% dei casi in cui l'origine dell'evento si individua nel contesto delle relazioni affettive principali (marito/moglie, genitore/figlio), l'omicida decide di togliersi la vita, di solito con la medesima arma e negli istanti immediatamente successivi, confermando la spiccata connotazione impulsiva e irrazionale dell'atto posto in essere.
Per quanto riguarda il movente, quello di natura passionale risulta essere prevalente. In questi casi, infatti, la violenza ed il conseguente omicidio scaturiscono dalla volont à di un membro della coppia di interrompere la relazione, lasciando l'altro nella totale incapacit à di 10
gestire il dolore e la frustrazione derivanti. Se poi quest'ultimo presenta un tratto di personalit à passivodipendente, per il quale sviluppa una patologica idolatria del partner, è altamente probabile che, a causa della perdita dell'unico punto di riferimento della sua esistenza, la disperazione si trasformi in rabbia, armandone cos ì la mano.
Tuttavia, molti altri sono i motivi alla base dei delitti che avvengono fra le “mura amiche”: dissapori legati alla contesa di un'eredit à o scaturiti in un clima di quotidiana tensione possono degenerare nel cosiddetto delitto d'impeto, espressione di un vero e proprio cortocircuito emozionale che porta un soggetto a scagliarsi, come una fiera sulla preda, contro colui, o colei, che identifica come la causa del proprio malessere. Non dobbiamo infine dimenticare quei delitti scaturiti in un contesto familiare influenzato dal disagio psicofisico di uno dei suoi componenti: si parla di omicidio altruistico o pietatis causa quando un parente, solitamente di primo grado, decide di porre fine alle sofferenze del proprio caro colpito da una patologia gravissima, nei confronti della quale la scienza medica si è arresa.
Secondo le statistiche pi ù recenti questa fattispecie criminosa, completata nella maggioranza dei casi dal suicidio dell'autore, risulta essere pi ù frequente nel Nord Italia, dove la maggior atomizzazione della struttura familiare, responsabile dell'incapacit à di gestire situazioni di difficolt à, tende a isolare i due attori in un rapporto diadico, in cui possono svilupparsi dinamiche interazionali facilmente evolventi in gesti estremi, tra cui l'omicidiosuicidio.
Per rendere esaustivo il quadro fin qui delineato, non possiamo non soffermarci, anche se brevemente, sull'aspetto criminodinamico dell'omicidio familiare, focalizzando la nostra attenzione sul tipo di arma utilizzata.
Analizzando le statistiche fornite dal Rapporto Eures 2009, possiamo notare come gli strumenti maggiormente utilizzati siano le armi da fuoco e quelle da taglio. Se, valutando il dato in funzione dell'area geografica in cui si è verificato il delitto, le prime risultano essere utilizzate soprattutto al Nord e le seconde al CentroSud, le differenze pi ù significative si desumono incrociando la variabile “tipo di arma” con quella “identit à di genere”, relativa alla vittima prima e all'autore poi.
Considerando il sesso della vittima, notiamo come le donne cadano pi ù frequentemente sotto i colpi inferti con armi bianche e, in percentuali decisamente inferiori, a causa della sola forza fisica dell'aggressore. Al contrario, il decesso degli uomini vittime di omicidio familiare è dovuto tanto ai proiettili di armi da fuoco quanto ai fendenti di lame di varie dimensioni, generalmente gi à presenti sul luogo del delitto.
Focalizzando, invece, la nostra attenzione sul sesso degli autori, quelli di genere maschile prediligono le armi da fuoco per le quali, in circa la met à dei casi, detengono il regolare permesso rilasciato dalla prefettura; tra le donne, al contrario, spicca l'utilizzo di armi da taglio, soprattutto qualora l'omicidio rappresenti l'unica soluzione per liberarsi dal giogo di un partner violento.
Premesse metodologiche della ricerca e inquadramento dell'omicidiosuicidio 11