3
aldilà dell’oceano. In tal caso Rorty rimarrebbe una “mosca bianca” del suo universo,
un “clone” della figura professorale “all’europea” e delle tendenze filosofiche del
Vecchio Mondo.
Rorty non è soltanto questo, però. Proprio per le ragioni “geo-filosofiche” in campo,
per le discrepanze di metodi e di interessi sulle due coste atlantiche, il suo pensiero
assume una connotazione molto originale. I suoi scritti, infatti, devono pagare il dazio a
buona parte della cultura e delle curiosità del contesto che lo circonda, cosicché la
filosofia di Rorty non può esimersi dal confronto approfondito con temi quali il
linguaggio, l’epistemologia, la logica. A ciò s’aggiunga la storia autonoma e sui generis
della società e della politica liberale degli Stati Uniti : Rorty ne fa scaturire un
ottimismo insolito in materia di critica sociale, una totale assenza di elementi marxisti o
marxiani, una profonda adesione spirituale al pragmatismo di William James e John
Dewey, una parallela avversione per tutte le intromissioni della metafisica e della teoria.
Richard Rorty, in altri termini, è certamente vicino allo stile e alle indagini di tanti
colleghi europei, i quali, anche solo per questo motivo, gli hanno dedicato ampio spazio
e garantito un buon successo. In secondo luogo, però, la sua appartenenza al clima e alla
vicenda culturale d’un paese come gli USA ne hanno fatto qualcosa di piuttosto diverso
dai suoi ammiratori continentali : sia la componente linguistica del suo pensiero che la
sua inconsueta prospettiva di riflessione etica e politica simbolizzano questo fatto.
Conseguentemente, nel presente lavoro tenterò di analizzare la speculazione di Rorty
attraverso queste due vie d’accesso che lo contraddistinguono:
(1) la concezione epistemologica
2
(2) la concezione etico-politica.
Ecco quindi un primo perché del titolo della mia tesi : “l’opzione
antirappresentazionalista e il liberalismo”.
Più dettagliatamente, mi concentrerò sui rapporti che legano (1) e (2), sui problemi
che sollevano e sulla rilevanza che hanno per capirne gli intenti. In particolar modo
cercherò di sottolineare il peso della componente etico-politica nell’intera filosofia di
Rorty.
2
Utilizzerò inizialmente il termine “epistemologia” in entrambi i suoi significati più comuni : filosofia
della scienza e gnoseologia (o teoria della conoscenza).
4
La storia della sua stessa produzione, d’altronde, invita ad una suddivisione del
genere. Una gran parte dei suoi primi scritti, infatti, concerne la teoria della conoscenza,
la teoria della verità, la filosofia della scienza, quasi esclusivamente per come queste si
sono sviluppate nell’area angloamericana. La sua penna felice e i suoi interventi nei
numerosi dibattiti dagli anni ’70 a oggi, non a caso, ne hanno fatto “il critico più
influente della ricerca epistemologica nella filosofia contemporanea di lingua inglese”
3
.
Un’altra sezione rilevante delle sue opere, invece, si è successivamente orientata verso
la congerie di discussioni che in questi anni hanno riguardato lo Stato liberale e la
ricerca d’una sua fondazione filosofica, tanto da rendere Rorty un mâitre à penser della
sinistra americana.
Ho optato per il termine "antirappresentazionalismo" come emblema di (1) per
almeno tre ragioni
4
:
(i) E’ un'espressione ricorrente nella prosa rortyana, soprattutto in quella più recente.
(ii) Con esso vengono indicate soluzioni radicali ai problemi filosofici che Rorty
prende in considerazione.
(iii) Questo vocabolo mantiene tutta la vis polemica propria dell'epistemologia
rortyana - come d’altronde sottolinea il fatto di presentarsi in chiave antagonistica,
“anti” qualcosa.
Riguardo a (2) ho scelto di parlare di liberalismo per una ragione ancora più
semplice, ovverosia perché è proprio questa la dottrina politica di cui Rorty tratta. Un
liberalismo rivisitato, ripensato alla luce delle vicende più recenti e dell’insieme di idee
che l’autore è andato raccogliendo nel corso degli anni : un liberalismo fortemente
connotato da valenze etiche ed esistenziali, riletto alla luce della sua valenza politica
odierna e della sua rilevanza nei progetti di vita individuali.
Non voglio però scendere nel dettaglio, per il momento. Desidero aggiungere,
invece, che nella mia tesi compare un’intervista concessami dal professor Rorty nel
luglio del 1997. Ho voluto inserirla a conclusione della parte introduttiva, nella speranza
che possa aiutare a focalizzare i punti più importanti del suo pensiero e che suggerisca
le linee-guida dalle critiche successive. Il presente lavoro si apre infatti con una
3
Haack, S., “Vulgar Pragmatism : An Unedifying Prospect”, in Saatkamp jr., H.J.(editor), Rorty &
Pragmatism, Vanderbilt University Press, Nashville & London, 1995, p.126.
5
introduzione a (1) e (2), binari preferenziali della filosofia di Rorty (0.2 - 0.4), continua
con il testo dell’intervista (tradotta in italiano, 0.5) e si conclude con un’ampia sezione
critica d’approfondimento (1. e seguenti).
0.2 Cenni sull’antirappresentazionalismo
Come detto in precedenza, utilizzerò il termine “antirappresentazionalismo” per
simbolizzare (1). Con esso Richard Rorty intende contrapporsi alle teorie che reputano
la conoscenza umana una raffigurazione del mondo, un insieme di quasi-immagini, una
sorta di album fotografico della storia dell’indagine sul mondo e sulle sue proprietà.
Secondo questa linea di pensiero, inoltre, proprio le varie attività di ricerca e le scienze
naturali in particolar modo, avrebbero prodotto nel corso dei secoli rappresentazioni
sempre più adeguate del reale.
Ad una concezione del genere, che con Dewey definisce "spettatoriale"
5
, Rorty
preferisce un'alternativa darwinista e pragmatista, la quale consideri la conoscenza un
insieme di pratiche adattative, ovvero :
Per teoria antirappresentazionalista intendo una teoria che concepisce la conoscenza non come una
corretta comprensione della realtà, bensì come l'acquisizione di abiti d'azione per fronteggiare la realtà
6
Dove "abito d'azione" significa prassi, comportamento, attività socialmente
riconoscibile, atta a fornire ciò che ci si è prefissi, tesa a soddisfare i nostri bisogni.
Indipendentemente dal grado di effettiva contrapposizione tra le due descrizioni (la
quale, a mio avviso, non salta con immediata evidenza agli occhi), egli intende sostituire
un vocabolario filosofico vecchio di secoli e basato fondamentalmente su metafore
visive, con uno di derivazione pragmatista le cui metafore sono perlopiù di natura
funzionale. Qualcosa di simile a quanto già era accaduto in psicologia alla fine del
4
Il perché nel titolo compaia “opzione antirappresentazionalista” verrà chiarito in seguito.
5
Rorty, R., “Antirappresentazionalismo, etnocentrismo e liberalismo”, in Scritti filosofici I, Laterza, Bari,
1994, p.4.
6
Ibid., p.4.
6
secolo scorso, proprio per opera dei padri del pragmatismo americano. Il funzionalismo
di James, Dewey e Mead, infatti, voleva evitare il lessico strutturalista di Wundt e
Titchener - antesignani della ricerca -, secondo il quale lo studio andava condotto
catalogando gli elementi atomici del pensiero che il soggetto sottoposto a esperimento
introspettivo “vedeva” con “gli occhi della mente”. A tal fine il funzionalismo
proponeva di considerare l’attività psicologica come l’espletarsi di complessi processi
adattativi. Eventi psicologici non ulteriormente scomponibili, acquisiti durante
l’evoluzione della specie, tesi a massimizzare le chance di sopravvivenza, raffinabili e
perfezionabili in virtù delle facoltà simboliche e della cultura.
In continuità spirituale con i suoi maestri, Rorty vuole fare subentrare alla
concezione della conoscenza come gioco di specchi una concezione alternativa da
cassetta degli attrezzi
7
(anche se nella cassetta uno specchio potrebbe trovare posto...).
Il perché valga la pena cambiare così radicalmente il nostro parco concettuale - o
meglio, parte di esso :quello filosofico-epistemologico - viene presto detto : il
rappresentazionalismo è una fonte inestinguibile di malintesi.
Lungo tutto il corso del XX secolo, infatti, l’epistemologia d’area angloamericana ha
recuperato una vasta serie di problemi “cartesian-lockean-kantiani” in chiave
linguistica. Molti temi tipici del fenomenismo, cioè, sono ancora ampiamente dibattuti
nel panorama filosofico contemporaneo, come ad esempio il realismo (ma si potrebbero
aggiungere, solo per citarne alcuni, il mind-body problem, l’idealismo linguistico,
l’inscrutabilità del riferimento). Costituiscono il riproporsi quasi pedissequo di analoghe
battaglie del passato (razionalisti/empiristi, kantiani/hegeliani, idealisti/positivisti), il
frutto delle aporie e dei dualismi lasciati in eredità dal soggettivismo e dall’empirismo :
Sembra che i filosofi di lingua inglese siano destinati a concludere il secolo discutendo lo stesso tema
- il realismo - che discutevano nel 1900. In quell’anno l’opposto del realismo era ancora l’idealismo. Ma
7
Una cassetta molto particolare, tuttavia, dove non c’è alcun utente (il pensiero, la cultura, lo spirito
oggettivo, il metodo o la disciplina eletta) che possa decidere che cosa fare della stessa nel suo complesso
(buttarla via, riverniciarla, sostituirla con una nuova). Chi ne faccia uso, però, può intervenire sui singoli
strumenti che vi sono contenuti, utilizzandone altri provenienti dalla medesima (l’attività d’un singolo o
d’un gruppo nella storia della sua comunità). Pensare “al di fuori” della cassetta è muovere nella direzione
dell’assurdo, del nonsense, poiché significa mettere in discussione strutture e contenuti minimali che
rendono possibile il nostro stesso tematizzarle. L’immagine è parallela, d’altro canto, alla celebre
7
oramai il linguaggio ha preso il posto della mente nel ruolo di ciò che, presumibilmente, dovrebbe
contrapporsi alla “realtà”. La discussione si è dunque spostata dal problema di stabilire se la realtà
materiale sia o meno “dipendente dalla mente” a questioni concernenti quali tipi di asserti veri, sempre
che ve ne siano, si trovino in relazioni rappresentazionali con entità non linguistiche. Attualmente la
discussione sul realismo è incentrata sul problema di determinare se alle “realtà effettive” possano
corrispondere soltanto gli asserti della fisica o anche gli asserti della matematica e dell’etica. Al giorno
d’oggi l’opposto del realismo viene chiamato, semplicemente, “antirealismo”.
Tuttavia, il termine “antirealismo” è ambiguo. Di norma lo si usa per esprimere la tesi secondo cui una
particolare classe di asserti veri non rappresenta alcun “dato di fatto”. Ma, più recentemente, si è
adoperato il termine per esprimere la tesi la tesi secondo cui nessuna entità linguistica rappresenta una
qualsiasi entità non linguistica. Nel primo senso, il termine si riferisce ad un problema interno alla
comunità dei rappresentazionalisti, quei filosofi che considerano fruttuoso pensare che la mente o l
pensiero contenga rappresentazioni della realtà. Nel secondo senso, “antirealismo” si riferisce
all’antirappresentazionalismo, cioè il tentativo di evitare la discussione sul realismo negando che le
nozioni di “rappresentazione” o di “realtà effettiva” svolgano un ruolo di qualche utilità in filosofia. Di
norma i rappresentazionalisti ritengono che le controversie tra idealisti e realisti siano state fruttuose e
interessanti, e che oggi lo siano le controversie tra scettici e antiscettici. Gli antirappresentazionalisti di
regola pensano che entrambe le controversie siano inutili. La loro diagnosi è che entrambe sono il
risultato di un’immagine che ci tiene prigionieri, un’immagine da cui ormai dovremmo esserci liberati.
8
Insomma, quelle storiche battaglie filosofiche sono destinate a concludersi senza
vincitori né vinti - giacché di vincitori non potevano né possono essercene. La vittoria di
una posizione nei confronti di un’altra, infatti, prevede che si sappia chi ha ragione e chi
no : un traguardo impossibile quando le premesse siano inadeguate.
Secondo Rorty il rappresentazionalismo implica proprio premesse del genere,
irrimediabilmente votate all’oscurità e all’insolubilità : premesse inadeguate. Le gratuite
separazioni interne al reale, i dualismi di cui tanta critica pragmatista e neopragmatista
(soggetto/oggetto, mente/corpo, analitico/sintetico, etc.), sono ferite che non si possono
risanare e che hanno segnato l’opera di molti - troppi - filosofi e intellettuali.
Vi sono posizioni, in breve, che non possono essere socraticamente abbattute per via
argomentativa, ma solo tralasciate o “sradicate” (eradicated), poiché rappresentano lo
sfondo irrinunciabile su cui prendono forma e si stagliano le varie teorie. Esse sono un
metafora del fiume che Ludwig Wittgenstein fa in Della certezza (96 - 99) . Un autore che ha fortemente
ispirato e appassionato Richard Rorty.
8
Ibid. pp. 4-5.
8
acquitrino avvelenato, dove nessuna pianta può crescere sana o abbastanza a lungo : la
sola cosa da fare è bonificarlo interamente.
Tra i casi citati da Richard Rorty c’è quello di Michael Dummett, assunto come
“rappresentativo della maggioranza dei filosofi di lingua inglese degli ultimi venti
anni”:
In questi ultimi due decenni si è assistito ad un graduale ripudio della concezione wittgensteiniana
della filosofia come terapia, e ad un graduale ritorno ai tentativi sistematici di risolvere problemi
tradizionali. Secondo Dummett quello che non va nel secondo Wittgenstein è la sua incapacità di fornirci
un fondamento per l’opera futura nel campo della filosofia del linguaggio o, in generale, in campo
filosofico”. [...]. Anzi egli ha pensato che [una teoria sistematica del significato] fosse impossibile, dal
momento che ha respinto la sua precedente concezione secondo la quale “i significati dei nostri enunciati
sono dati dalle condizioni che li rendono veri o falsi in modo determinato”, sostituendola con la
concezione secondo la quale “il significato deve essere spiegato in termini di ciò che si ritiene in grado di
giustificare un proferimento linguistico”.
Quest’ultima concezione è tipica dei filosofi antirappresentazionalisti, poiché questi si preoccupano di
eliminare quelli che giudicano pseudoproblemi del rappresentazionalismo piuttosto che impegnarsi a
erigere sistemi o risolvere problemi.
9
Problemi che nascono, in ultima analisi, dallo split tra linguaggio e mondo, pessima
conseguenza di tanto empirismo novecentesco. Un nido d’aspidi finemente criticato da
personaggi del calibro di Willard van Orman Quine, Donald Davidson e Hilary Putnam.
Una separazione che conduce alla ricerca del “punto di vista dell’occhio di Dio”, la
migliore espressione con cui si può riassumere - un po’ sardonicamente - tanta bagarre
su realismo, schemi concettuali, verità per corrispondenza, idealismo linguistico, etc. O
che ancora può portare al riduzionismo di matrice positivista e analitica. Persino il
relativismo concettuale può esserne detto un “figlio” molto particolare, in quanto
esportato in psicolinguistica (Sapir) e in storia della scienza (Kuhn). Il frutto più
controverso è però lo scetticismo, il quale accompagna inevitabilmente qualsiasi
dualismo.
10
Ancora nel caso dell’epistemologia recente, infatti, si è sempre fatalmente
permesso allo scettico di domandare : ma siete proprio certi che le vostre
9
Ibid., p. 6.
9
rappresentazioni siano davvero adeguate ? siete certi che le cose stiano effettivamente
così ? con quale grado di precisione ? con quale grado di certezza ?
Il solo modo per rispondere a quesiti del genere sarebbe l’uscire dalle nostre menti,
dalle nostre categorie concettuali, portare lo sguardo sui due blocchi contrapposti di
linguaggio e mondo, ma benché “gli antirappresentazionalisti non giudichino folli
questi sforzi” :
Pensano che la storia della filosofia mostri come si siano rivelati infruttuosi e indesiderabili. Secondo
loro, questi sforzi generano il tipo di pseudoproblemi che Wittgenstein sperava di evitare abbandonando
l’immagine che lo teneva prigioniero quando scrisse il Tractatus. Wittgenstein non era folle quando
scrisse quel libro, ma aveva ragione quando più tardi descrisse la sua situazione al tempo del Tractatus
come quella di una mosca che ronza dentro una bottiglia. La fuga dalla bottiglia non consistette [...] nel
prendere il volo in direzione dell’idealismo trascendentale, bensì nel sottrarsi alla tentazione di rispondere
a domande del tipo “la realtà è intrinsecamente determinata oppure la sua determinatezza è un risultato
della nostra attività ?”. Wittgenstein non intendeva suggerire che noi determiniamo la realtà così com’è ;
intendeva suggerire, al contrario, che non si dovrebbero porre domande per rispondere alle quali saremmo
costretti ad arrampicarci fuori dalle nostre menti, intendeva suggerire che il realismo e l’idealismo
condividono presupposizioni rappresentazionaliste che faremmo meglio ad abbandonare.
11
L’antirappresentazionalismo può quindi introdursi, guadagnando spazi e consensi,
una volta che l’avversario sia stato dipinto con tutti i suoi difetti e appaia meno
interessante o poco plausibile. Come in una buona operazione di marketing, Rorty
accompagna gli elogi del proprio prodotto alle critiche di quello altrui. Una delle
considerazioni ricorrenti, tra le tante atte a rendere più attraente (appealing) il suo
vocabolario antirappresentazionalista, concerne la rilevanza pratica, morale, insita in
esso. Un fattore determinante per valutare e scegliere tra i vocabolari epistemologici,
legati in modo decisivo all’indirizzo morale che si sviluppa entro una comunità.
D’altronde, come già fu per Dewey, anche per Rorty la morale è “la più umana di tutte
le cose”.
10
Quanto la tradizione filosofica novecentesca di lingua inglese sia erede del dualismo kantiano è stato
ben spiegato da Marsonet (v. bibliografia).
11
Ibid., p.7.
10
Analizzerò più approfonditamente questo aspetto in 0.3 e successivi, ma desidero
concludere il paragrafo con un estratto significativo, un vero e proprio “ponte” verso
quello che segue :
Vi sono due modi fondamentali in cui gli esseri umani riflessivi cercano di attribuire alle loro vite un
senso, collocandole in un contesto più ampio. Il primo modo è quello di narrare la storia del contributo
che si è dato a una comunità. Questa comunità può essere quella storica reale in cui questi esseri umani
vivono, un’altra comunità reale, remota nel tempo e nello spazio, oppure una comunità del tutto
immaginaria, forse composta da una dozzina di eroi e di eroine scelti dalla storia, dalla letteratura o da
entrambe. Il secondo modo è quello di descriversi in relazione immediata con una realtà non umana.
Questa relazione è immediata nel senso che non deriva da una relazione tra tale realtà e la tribù, la
nazione o l’immaginario gruppo di consociati di questi esseri umani. Dirò che le storie del primo tipo
esemplificano il desiderio di solidarietà e che le storie del secondo tipo esemplificano il desiderio di
oggettività.
[...]
Coloro che desiderano fondare la solidarietà sull’oggettività - chiamiamoli “realisti” - devono
interpretare la verità come corrispondenza con la realtà. Pertanto essi devono costruire una metafisica che
abbia spazio per una relazione speciale tra le credenze e gli oggetti , una relazione in grado di
discriminare tra le credenze vere e quelle false. Essi devono sostenere inoltre che vi sono procedure di
giustificazione della credenza che sono naturali e non meramente locali. Pertanto essi devono costruire
un’epistemologia che abbia spazio per un genere di giustificazione che non è semplicemente sociale,
bensì naturale, derivante dalla stessa natura umana, e resa possibile da un legame tra questa parte della
natura e la parte restante di essa.
[...]
D’altro canto, coloro che desiderano ridurre l’oggettività alla solidarietà - chiamiamoli “pragmatisti” -
non necessitano né di una metafisica né di un’epistemologia. Essi concepiscono la verità come ciò che ci
è utile credere, per utilizzare l’espressione di William James. Pertanto i pragmatisti non hanno bisogno di
una teoria di una relazione tra le credenze e gli oggetti chiamata “corrispondenza”, né di una descrizione
delle capacità cognitive umane che assicuri che la nostra specie è in grado di entrare in quella relazione.
Essi concepiscono lo scarto tra verità e giustificazione non come qualcosa che deve essere colmato
isolando un tipo naturale e transculturale di razionalità che può essere usato per criticare certe culture e
lodare altre, ma semplicemente come lo scarto tra ciò che ci è attualmente utile e quanto si potrà rivelare
maggiormente utile in futuro.
12
12
Rorty, R., “Solidarietà od oggettività ?”, in Scritti filosofici I., pp. 29 e 31.
11
0.3 Cenni sul liberalismo
Il brano appena citato in 0.2 presenta una netta divisione tra “realisti” e “pragmatisti”
(ma potremmo anche chiamare questi ultimi “antirappresentazionalisti”). Mentre i primi
ricercano una verità per corrispondenza tra gli asserti delle pratiche conoscitive umane e
il mondo, i secondi si preoccupano soltanto della rispondenza di queste attività ai nostri
bisogni. Dove i primi instaurano una epistemologia e una metafisica a sostegno dei loro
progetti, i secondi se ne dichiarano disinteressati. Non senza riconoscere, però, che
anche la ricerca dell’oggettività sia lecita, ma facendo notare che :
Il bisogno umano soddisfatto dal tentativo di ergersi in tal modo al di sopra dei bisogni umani - il
bisogno di [...] “trascendenza” - è un bisogno che, per gli antirappresentazionalisti, non è desiderabile, dal
punto di vista culturale, esacerbare. Essi pensano che questo bisogno sia eliminabile per mezzo di
un’appropriata educazione morale [...]. Una tale educazione sarà mirata a sublimare il desiderio di essere
in relazioni appropriatamente umili con realtà non umane in un desiderio di incontri liberi e aperti tra
esseri umani, incontri che culminano nell’accordo intersoggettivo o nella tolleranza reciproca.
13
Il perché non sia desiderabile perseverare nella ricerca dell’oggettività (o
trascendenza) sembra quindi affondare le sue ragioni non tanto, o non solo, nella
supposta incapacità del rappresentazionalismo di venire a capo dei suoi stessi problemi
(come osservato in 0.2). La rilevanza determinante è quella morale ed esistenziale,
rilevanza da cui scaturisce la contrapposizione tra soggettività e oggettività.
L’errore, secondo Rorty, è l’essere alla ricerca di un punto di vista neutrale da cui
poter osservare al meglio la propria comunità, o qualsiasi altra, così da poterla
giudicare. Per Rorty tentare una strada del genere, già percorsa e ripercorsa nei secoli
dalle più grandi menti filosofiche dell’Occidente, è vagare tra pie illusioni. La storia del
pensiero raccoglie infatti molteplici tentativi di dedurre principi oggettivi su cui
costruire un mondo migliore, senza che nessuno di questi abbia però avuto successo. Le
visioni sinottiche “conclusive” si sono susseguite nei secoli, ma pare proprio che
nessuna di queste abbia messo d’amore e d’accordo i colleghi. Anzi, spesso le verità più
12
luminose e indiscutibili si sono macchiate d’infamia, guadagnando il loro primato con
l’intolleranza, il settarismo, o addirittura con la violenza. Dalle cattedre dei filosofi o dei
teologi, ad esempio, poteri intransigenti hanno attinto giustificazioni teoretiche e morali
per i loro fini - qualunque essi fossero. In cambio - Schopenhauer lo denunciava nella
Germania di metà ‘800 - una certa scuola o un certo gruppo di pensatori otteneva il
predominio accademico - un’ulteriore forma di potere.
Non stupisca la fusione degli aspetti teorici e storico-filosofici con quelli politici e
storici in generale, dato che la critica rortyana taglia trasversalmente entrambi i livelli
14
.
Ciò non implica, comunque, che Rorty non abbia al suo arco frecce “solo” teoretiche :
(A) Il credere d’aver colto le “strutture soggiacenti”, gli “schemi biologicamente
determinati”, da cui nessuna civiltà può o potrà esimersi, è un ennesimo riproporsi
dell’ascesa al “punto di vista dell’occhio di Dio”.
(B) Se anche avessimo descritto la “vera natura” di qualcosa, non per questo è detto
che dovremmo comportarci in modo conforme ad essa. Insomma, dalla descrizione non
deriva alcuna prescrizione, almeno logicamente
15
.
La discussione condotta da Rorty non si preoccupa molto di questo secondo punto,
poiché ritiene del tutto improbabile che si possano conseguire descrizioni del genere.
Quando poi le si voglia fornire inerenti all’(U)omo, allora fanno la loro comparsa
“essenze” o “nature” perspicue - fari illuminanti per chi naviga alla ricerca d’una
comunità oggettivamente costruita :
Noi siamo gli eredi di questa tradizione oggettivista, imperniata sull’assunto che dobbiamo uscire
dalla nostra comunità per un periodo che si protragga abbastanza a lungo da consentirci di esaminarla alla
luce di qualcosa che la trascende, vale a dire di quel qualcosa che essa ha in comune con ogni altra
comunità reale o possibile. Questa tradizione sogna una comunità ultima che avrà trasceso la distinzione
13
Rorty, R., “Antirappresentazionalismo, etnocentrismo e liberalismo”, in Op. cit., p.12.
14
V. Rorty, R., “Professionalized Philosophy and Trascendentalist Culture” o “Philosophy in America
Today”, in Consequences of Pragmatism, University of Minnesota Press, 1982, pp. 60-71 e 211-231.
15
Pensiamo alle descrizioni della “vera natura” umana e alle morali che ne sono state dedotte. C’è chi,
come gli autori veterotestamentari e Thomas Hobbes, ha visto in essa qualcosa di maligno o bestiale, tale
cioè da meritare una rigida sottomissione all’autorità morale eteronoma. C’è chi, invece, ha visto in essa
qualcosa di puro o angelico, proponendo quindi un ritorno alla semplicità e all’originarietà nell’intimo di
ciascuno - gli autori neotestamentari e Rousseau, per esempio. Ma c’è anche chi, a differenza di questi, ha
ritenuto opportuno seguire la “vera natura” dell’uomo, benché crudele ed egoistica, come Mandeville e
Nietzsche. O c’è persino chi, osservando la ingenua freschezza della natura umana, ha lodato la capacità
della civiltà di pervertire e di traviare - Huysmans (sino alla vecchiaia) e Dalì.
13
tra il naturale e il sociale, che esibirà una solidarietà che non è provinciale perché espressione di una
natura umana astorica.
16
La tradizione liberale ha assorbito anch’essa gli elementi fondamentali di
quest’impostazione oggettivista. Rorty è piuttosto esplicito al riguardo e critica “l’idea
illuminista di <<ragione>>” :
Secondo la quale esiste una relazione tra l’essenza astorica dell’anima umana e la verità morale, una
relazione che assicura che la discussione libera e aperta produrrà <<una risposta giusta>> a questioni
morali oltre che scientifiche.
17
Rorty non confida più in “essenze” o “nature” del genere. Egli non confida nel
“metodo”, nel ricondurre a “principi primi”, come in qualcosa di disponibile che ci
aspetta impaziente di essere scoperto o messo a punto. Facendo appello a tutti i critici
antimetafisici del recente passato filosofico, Rorty non reputa più percorribile la strada
verso la determinazione del quid universale e necessario che fa dell’uomo ciò che è.
Non si può plausibilmente parlare d’un uomo indipendentemente dall’epoca, dal
consesso sociale e dalla cultura entro cui il soggetto reale si trova a vivere. Una
premessa che potrebbe far supporre che i valori pervenutici dalla speculazione
settecentesca siano inattendibili, contrariamente all’assolutizzazione a cui la filosofia
dell’epoca li aveva sottoposti. I diritti naturali e il cosmopolitismo, ad esempio,
parrebbero svanire nelle nebbie d’un pensiero falsamente “forte”. Eppure, nonostante
l’adesione alla scepsi antimetafisica otto-novecentesca, Rorty ritiene che la tradizione
liberale possa essere mantenuta. E’ infatti piuttosto difficile - così crede - produrre un
altro tipo di società dove minori siano la crudeltà, l’ignoranza del male, l’impotenza
individuale. La sua proposta è quella di mantenere quanto di buono la storia della
tradizione liberale ci ha lasciato, senza impegnarsi nelle stesse assunzioni di
trascendenza del passato. E’ davvero possibile ? Per Richard Rorty evidentemente sì :
Chiamerò “liberalismo borghese postmoderno” il tentativo ... di difendere le istituzioni e le pratiche
delle ricche democrazie del Nord Atlantico senza fare ricorso a tali capisaldi. Lo chiamo “borghese” per
16
Rorty, R., “Solidarietà od oggettività ?”, in Op. cit., p. 30.
14
porre in rilievo che la maggior parte delle persone alle quali mi riferisco non avrebbero nulla da ridire
sulla tesi marxista secondo la quale molte di quelle istituzioni e pratiche sono possibili e giustificabili solo
in certe condizioni storiche e in special modo economiche. Intendo contrapporre il liberalismo borghese,
il tentativo di realizzare le speranze della borghesia del Nord Atlantico, al liberalismo filosofico, una
collezione di principi kantiani ritenuti in grado di giustificare il fatto che si nutrano tali speranze. [...] Tali
principi sono utili per riassumere tali speranze, ma non per giustificarle. Uso “postmoderno” nel senso
attribuito al termine da Jean-François Lyotard, per il quale l’atteggiamento postmoderno è quello della
“sfiducia nelle metanarrazioni”, narrazioni che descrivono o predicono le attività di entità come l’io
noumenico, lo Spirito Assoluto o il proletariato. Queste metanarrazioni sono storie che mirano a
giustificare la lealtà nei confronti di, o la rottura con, certe comunità contemporanee, ma non sono
narrazioni storiche concernenti ciò che queste o altre comunità hanno fatto in passato né prefigurazioni di
ciò che potrebbero fare in futuro.
18
In questo brano, il più vicino ad una definizione precisa del suo liberalismo, l’autore
giunge a contrapporre quelli che talvolta chiama “principi kantiani” (imperativi
categorici e presunzioni di universalità e necessità) alle condizioni storiche (contingenti)
su cui si poggia l’universo liberale, ovvero il vocabolario etico-politico d’una certa
comunità, la sua costellazione di valori e di credenze. In altri termini Rorty sostituisce
alla fondazione filosofica la partecipazione dei membri d’una comunità al complesso di
pratiche della propria tradizione ; la quale fa sì che certe convinzioni, aspirazioni e
attività si radichino in essa, vengano interiorizzate e ritenute importanti. L’educazione,
la Bildung, è tutto ciò che serve per garantire il rispetto delle istituzioni e la loro
sopravvivenza. Un’educazione, però, non soltanto intellettuale, altrimenti si ricadrebbe
nelle aporie della morale socratico-platonica, dove il male era generato dall’ignoranza,
dall’incapacità di vedere il Bene con gli occhi del logos. Rorty immagina un’educazione
sentimentale (e l’espressione tedesca Bildung è più fedele ai suoi intenti), un processo di
persuasione e di diffusione attraverso i media culturali che introduca ai valori della
tolleranza, del rispetto della libertà altrui, dell’esercizio del dubbio critico. Un filo
apparentemente esile, ma che ha retto e regge ancora, almeno stando a quanto Rorty
osserva fiduciosamente.
17
Rorty, R., “La priorità della democrazia sulla filosofia”, in Scritti filosofici I., p. 238.
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Rorty, R., “Liberalismo borghese postmoderno”, in Scritti filosofici I., p.267.
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Un ruolo importante all’interno del suo quadro è ricoperto da chi mantiene o
arricchisce il patrimonio di concetti e concezioni liberali di cui Rorty condivide l’utilità.
Due sono gli esempi citati più spesso:
(a) lo scienziato,
(b) il romanziere.
(a) ha rappresentato un esempio per i suoi concittadini, nonostante la propensione o
l’abitudine a sposare cause realiste. L’organizzazione della comunità scientifica
internazionale, la tolleranza e l’apertura nei confronti della verifica e della falsificazione
dei propri risultati di ricerca, la generale onestà dei ricercatori sono virtù ammirevoli
(non so, però, se Feyerabend sarebbe stato d’accordo sui meriti che Rorty attribuisce
agli scienziati). E quanto abbiano colpito i loro compagni di strada lo dimostrano il
consenso sociale - la forza retorica, l’autorità in seno al proprio gruppo -, la
mitizzazione - il tentativo di altre discipline di conformarsi al “metodo”, lo scientismo -,
la rilevanza economica - gli investimenti, il ruolo della tecnologia.
(b), invece, viene presentato come un vero e proprio pedagogo. I romanzieri, infatti,
soprattutto in due secoli di filosofia scientifica e ideologica (XIX e XX), hanno svolto il
ruolo di narratori delle vicende individuali, di valorizzatori delle idiosincrasie e delle
differenze, di saggi osservatori delle ingiustizie e delle crudeltà. Sia coloro che si sono
occupati perlopiù di autorealizzazione individuale (Proust e Nabokov per esempio), sia
quelli che si sono preoccupati più direttamente di come migliorare la propria comunità
(Dickens e Orwell), hanno partecipato a forgiare un ricco vocabolario sentimentale e
morale per l’Occidente contemporaneo.
L’onestà intellettuale dello scienziato, consapevole della mutabilità delle teorie,
l’avversione alla crudeltà del romanziere, portatore di una saggezza pratica spesso
dimenticata, sono due importanti valori-guida nel mondo morale del liberalismo
borghese.
Come giustificare questi valori ?
La posizione che prende l’autore al riguardo è, nel suo complesso, circolare : le
giustificazioni per la bontà del vocabolario filosofico sostenuto provengono dal
vocabolario medesimo. In altri termini, il giudizio espresso si serve di concetti che
valgono a entrambi i livelli : quello del complesso concettuale oggetto di predicazione e
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quello del complesso concettuale con cui si predica. Da buon antifondazionalista,
tuttavia, Rorty non sembra eccessivamente turbato, poiché tale condizione è per lui
inevitabile. Se come detto in precedenza, non possiamo raggiungere alcun “punto di
vista dell’occhio di Dio”, come si può conseguire la padronanza di criteri valutativi che
non siano espressione della storia d’una comunità, della immagine che essa ha di se
stessa, delle sue aspirazioni ? Dove si potrebbe andare a pescare i criteri filosofici, se
non nell’oceano di pensiero in cui noi occidentali nuotiamo ? Con cosa difendere le tesi
liberali, se non con il vocabolario liberale appreso in una società liberale ?
L’idea di poter attingere a un’altra fonte, più alta e primigenia, è una ulteriore
esemplificazione dell’anelito all’oggettività che l’antirappresentazionalismo condanna.
Si giungesse mai a questo punto, avremmo allora trovato il metavocabolario finale,
l’approdo saldo per la navigazione della filosofia : quell’approdo che intuizione,
evidenza razionale, metodo scientifico, analisi concettuale hanno variamente
“dimostrato” in tante manifestazioni del pensiero occidentale.
Una chiara affermazione dell’antifondazionalismo radicale di Richard Rorty -
carattere tipico del suo antirappresentazionalismo - è nelle repliche a coloro che
l’accusano di relativismo :
La concezione secondo cui ogni tradizione è tanto razionale o tanto morale quanto qualsiasi altra
potrebbe essere sostenuta solo da un dio, da qualcuno che non abbia alcun bisogno di usare (ma solo di
menzionare) i termini “razionale” o “morale”, perché non ha alcun bisogno di indagare o scegliere. Un
tale essere sarebbe uscito dalla storia e dalla conversazione per immergersi nella contemplazione e nella
metanarrazione. Accusare un postmodernista di relativismo significa cercare di mettergli in bocca una
metanarrazione.
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Il vocabolario finale, il dato ultimo all’intelletto o al senso sono “vizi”
rappresentazionalisti che non hanno controparti nella prospettiva di Rorty. E se il
“nocciolo essenziale delle cose” è un concetto traviante, allora il liberalismo diventa a
fortiori un fenomeno provinciale, frutto dell’esperienza storica di una tribù.