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1.CONTESTUALIZZAZIONE STORICA DEL FENOMENO
CULTURALE DELLA PARTECIPANZA EMILIANA DI SAN
GIOVANNI IN PERSICETO.
Il contesto storico entro cui si troverà a prendere forma suddetto
fenomeno metterà in luce possibili linee evolutive ed evidenzierà con
chiarezza il ruolo determinante giocato dal suolo in quanto tale nelle sue
caratteristiche geologiche originarie e di come l‟uomo sia riuscito a
trasformare sapientemente nel tempo la sua potenzialità agraria
ricavandone il massimo profitto.
La prima grande civiltà, che con il suo agire, riuscì a modificare il
rapporto con queste plaghe fertili lasciandone traccia evidente ancor oggi,
fu senz‟altro quella romana – già nel I sec. d.c. Tacito come già prima di
lui Cicerone, a proposito della Provincia Galliae, poteva parlare delle
campagne e delle città fra il Po e le Alpi come della parte più fiorente
d’Italia.
Quest‟ultima infatti riuscì attraverso l‟opera instancabile della
centuriazione ad espandere i confini del suo Ager romanus a
suddividerlo e plasmarlo poi in un reticolo regolare che prendeva
appunto il nome di centuratio. Questo era costituito dai suoi limites –
fasce di terreno parallele ed intersecantisi ad angolo retto eventualmente
affiancate da fossi di scolo ( fossae limitaneae ) che definivano i quattro
lati di una centuria ed assicuravano la viabilità interna dell‟ Ager
centuriatus.
I due limites principali, il cui punto d‟incrocio costituiva il punto di
partenza di tutta l‟opera della limitatio, prendevano il nome di cardo e
di decumanus. I limites erano tracciati rispettivamente in senso nord-sud
e ovest-est – con i suoi cardines ed i suoi decumani che ne assicuravano
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la sistemazione idraulica fondamentale e ne articolavano la viabilità
vicinale e regionale all‟interno di tutto l‟impero.
Durante la colonizzazione romana questo reticolato rappresentò il
substrato ideale sul quale impiantare vere e proprie unità produttive e di
aggregazione sociale la cosiddetta Familia romana.
Questa comprendeva oltre ai componenti della famiglia monogamica un
certo numero di schiavi; al suo capo veniva generalmente assegnata a
sorte una parcella – sors – costituita da una porzione più o meno grande
della centuria. La capacità produttiva di questa unità produttiva
elementare era garantita si dall‟assegnazione della sors, ma anche dalla
disponibilità delle zone marginali e aree prossime ai fiumi – subseciva –
le selve le paludi e le aree montane; le quali potevano essere destinate
all‟uso comune di tutti con diritto di pascolo e di taglio della legna –
pascua et silva publica – o ancora venire concesse in uso comune ed
esclusivo ai proprietari confinanti – ager compascuus - .
Figura 1 Conpascua (in alto) e subsesiva (in basso) all'interno di un territorio
centuriato.
L‟efficienza di questo sistema produttivo venne compromessa a causa di
una vera e propria destrutturazione verificatasi a partire dalla fine del V
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sec. d.c. Le forze che determinarono questa risultante furono sicuramente
molteplici e di differente natura; tra queste possiamo per importanza
citare la forza migratoria che sospinse e guidò nell‟arco temporale di
quasi un secolo tra il 476 d.c. e il 568 d.c. numerose popolazioni di
origine germanica in Italia, fenomeno noto come Invasioni barbariche;
certo è che l‟influenza esercitata sull‟ Ager romanus si diversificò
passando attraverso il primo capo barbaro Odoacre con il suo regno – 476
d.c. 493 d.c. – continuando poi con gli ostrogoti che dominarono per
mano di Teodorico e del suo omonimo regno – 493 d.c. 526 d.c. – con
una parentesi rappresentata dalla cruenta e lunga guerra Bizantino-Gotica
- 535 d.c. 553 d.c. – ed infine giungendo ai longobardi che ancor oggi
vengono ricordati per essere stati un popolo dalla grande ferocia. Inoltre
quasi a voler amplificare l‟effetto di queste trasmigrazioni si attestano
significativi mutamenti climatici che proprio in questa età segnarono un
momento culminante del loro ciclo. Infatti i cento anni tra il 450 d.c. ed il
550 d.c. sembrano essere stati per l‟Italia e per l‟Europa il periodo di una
oscillazione del clima in senso caldo- umido. Si verificarono delle grandi
alluvioni che come quella del 589 d.c. sconvolsero il paesaggio naturale
della stessa val padana dislocando addirittura il corso di grandi fiumi
come l‟Adige ed il Piave; provocando il rapido allargarsi del bosco o
rispettivamente della palude sui terreni centuriati abbandonati ed incolti.
L‟evoluzione del paesaggio naturale di questo periodo venne messa in
luce attraverso due famosi editti uno noto come Edictum Theodorici oggi
attribuito a Teodorico II re dei visigoti che regnò in Gallia tra il 453 d.c.
ed il 466 d.c. l‟altro invece ricordato come Edictum Rothari del 643 d.c.
re dei longobardi dalla medesima data di questo fino al 652 d.c.
Attraverso questi scritti si può evincere come nel primo a fronte dei suoi
154 articoli il paesaggio sia ancora quello dell‟ultima età romana con i
suoi – boschi – si menzionati ma una sola volta con i suoi – pascoli –
citati per due sole volte ma anche e soprattutto con i suoi - fondi rustici,
campi e colture – menzionati ben 40 volte; nel secondo documento
invece a fronte dei suoi complessivi 388 articoli quello che ormai
nettamente predomina sono i – boschi – nominati per ben 44 volte.
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Tra le righe di questi due importanti scritti emerge con grande chiarezza
una fondamentale differenza culturale fra la civiltà romana e quella
longobarda. Infatti se la prima aveva plasmato il territorio naturale
sfruttando il sistema le centuriazioni e aveva saputo adottare attraverso la
familia romana un sistema agronomico alquanto evoluto, il maggese
biennale – che prevedeva l‟alternarsi, su un intervallo di due anni, di un
primo anno di coltura aratoria aperto da lavorazioni più accurate seguito,
dopo il raccolto, da un secondo anno di riposo durante il quale il terreno
restava abbandonato all‟incolto e al pascolo – che aveva rappresentato un
decisivo progresso rispetto ai sistemi agronomici del debbio ed in
particolare a quello dei campi d‟erba prevalenti questi in età preromana e
romana arcaica; con l‟avvento di questa popolazione di guerrieri e di
allevatori seminomadi, si ebbe una involuzione riconducibile alle
modalità di vita adottate da questa – infatti la forma d‟insediamento tipica
di questo primo periodo - 568 d.c. anno del loro avvento in Italia
attraverso le Alpi Giulie dalla Pannonia fino a tutto il 584 d.c. noto come
epoca dei Duchi – fu rappresentata dalle cosiddette fare cioè gruppi
gentilizi già costituitisi in unità militari durante la trasmigrazione le
quali poi, una volta che la posizione conquistata all‟interno dell‟Ager
centuriatus fosse stata valutata come strategica vennero sostituite dalle
arimannie forme d‟insediamento di militari-agricoltori – le quali
collimavano perfettamente con un sistema agro-silvo-pastorale dunque ,
ritornarono in auge i metodi a campi d‟erba e debbio. Il primo
prevedeva dopo uno/pochi anni di coltura aratoria un abbandono per
periodi più o meno lunghi alla vegetazione spontanea ed al pascolo; il
secondo invece comportava che il suolo venisse liberato dal mantello
vegetale spontaneo arboreo/arbustivo (debbio su foresta) od erbaceo
(debbio su prato ) poi che fosse preparato alla coltura e fertilizzato con
l‟impiego del fuoco e delle ceneri che questo lasciava sul terreno. La
semina o la piantagione avvenivano sul suolo così preparato nelle ceneri
o previa lavorazione superficiale a mano (debbio a zappa) o con aratro
rudimentale (debbio aratorio) dopo uno/pochi anni di coltivazione il
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terreno veniva abbandonato alla vegetazione spontanea finche il bosco, la
macchia o il prato si fosse ricostituito.
Attraverso questi proto nuclei di aggregazione sociale si venne a delineare
la prima società longobarda, la quale riuscì nell‟arco di due secoli, dalla
fine del VI sec d.c. alla fine del VIII sec d.c., a creare sovrastrutture
sociali a complessità crescente che permisero poi in età carolingia,
all‟inizio del IX sec. d.c., la formazione di un nuovo modello di gestione
della terra: il sistema curtense. Infatti anche se la penuria di documenti
condanna all‟ impressionismo qualsiasi studio sulle caratteristiche di base
della proprietà fondiaria dell‟alto medioevo non c‟è dubbio che
nell‟ultimo secolo della monarchia longobarda e precisamente dopo il 730
d.c. le informazioni diventano sufficientemente numerose da permettere
di evidenziare una decisa tendenza alla concentrazione. Si possono
individuare alcuni caratteri generali sia per quanto concerne il patrimonio
fondiario che per quello immobiliare:
1. I patrimoni laici o ecclesiastici più solidi avevano tutti come
componente principale grandi proprietà curtes.
2. Accanto a queste vi erano comprese molte piccole aziende
contadine casae sottoposte ad un regime di gestione diretta
basate su una manodopera di schiavi domestici.
3. Presenza costante di aree silvo-pastorali che permettevano
l‟allevamento diversificato di greggi di ovini, mandrie di bovini
, suini e cavalli custoditi da pastores di origine servile.
4. Infine zone coltivate dove anche in questo caso la
diversificazione era la regola e si assisteva ad una ripartizione
attenta fra terre arabili, vigne, prati da taglio, oliveti, castagneti
e boschi cedui.
La struttura generale dei patrimoni e soprattutto le tendenze gestionali di
questi, dopo il 730- 40 d.c. conferma perfettamente l‟opinione di Cinzio
Violante secondo il quale:
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“il sistema curtense non fu trapiantato in Italia; dopo la conquista franca,
in un terreno impreparato, ma veniva a coronare un processo di
evoluzione secolare “
2
Questo sistema in termini generali presentava una struttura fisica ben
definita la quale si articolava sulla grande proprietà fondiaria – curtes – e
comprendeva un settore a conduzione diretta rappresentato dalla pars
dominica , dove si evidenziava la presenza di una casa dominica , ed un
settore a conduzione indiretta , la pars massaricia , costituita da piccole
aziende contadine come sortes , mansi , casae massariciae ecc. .
Queste ultime, il più delle volte secondo l‟ampiezza territoriale dei
possedimenti signorili, potevano anche non essere contigue, ma esisteva
sempre un centro curtense di riferimento che emergeva per importanza.
Inoltre erano presenti delle sinergie fondamentali tra il signore ed i vari
concessionari formalizzate da differenti tipologie di statuti che
prevedevano un certo numero di censi consuetudinari in moneta e o in
natura i quali si andavano ad aggiungere a prestazioni di lavoro – corvèe
- che rafforzavano il legame di vincolo giustificando le concessioni
stesse.
Per fotografare meglio il paesaggio rurale e rendere ancor più descrittivo
il quadro risultante della grande – media – piccola proprietà fondiaria di
età carolingia si può affermare che la popolazione non viveva in case
coloniche isolate bensì in villaggi dove il gruppo di case di abitazione e
di orti si poneva al centro di un agro, cioè di un territorio coltivato che era
la somma dei campi di cereali, delle vigne e dei prati, i quali erano
raggruppati per la conduzione contadina in parecchi poderi che in ultimo
si trovavano ad essere circondati da pascoli e boschi cioè dall‟incolto che
prevedeva, come in età tardo romana, l‟utilizzo comune a tutte le famiglie
del villaggio. Ciascuna corte signorile non coincideva con il territorio di
uno o più villaggi, ma penetrava in settori di villaggi diversi che il più
delle volte non erano prossimi tra loro formando tutte una sorta di
mosaico. Il sistema curtense col finire del IX sec. e per tutto il X sec.
2
VIOLANTE, La società milanese cit., p. 74
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dovette adattarsi ad una condizione di crisi di manodopera servile che
portò ad una lottizzazione della pars dominica a favore della pars
massaricia, la quale acquisirà col tempo un grado di complessità sempre
maggiore; determinando un evoluzione di consuetudini varie e quindi di
statuti differenti che poterono garantirne una miglior gestione .
Al di là del sistema curtense classico bipartito, a seconda dell‟area
geografica in cui questo veniva a strutturarsi, si potevano distinguere
differenti tipologie le quali si adattavano alle più svariate condizioni di
paesaggio naturale locale per far si che il signore potesse sfruttare al
meglio le risorse del territorio. Ad esempio, nelle regioni di montagna e di
collina del Piemonte, ma anche nell‟Appennino centrale come pure nelle
basse pianure alluvionali ,scarsamente canalizzate, si trovavano complessi
curtensi caratterizzati da una pars dominica formata da aree boschive, di
pascolo, di alpeggi , di prati da taglio, paludi ecc.; all‟interno della quale
non era presente la tipica casa dominica, mancavano grandi settori di terra
arativa – culturae - e dove continuavano a permanere spesso tratti arcaici
: in particolar modo le terre alluvionali della bassa pianura padana
presentavano una condizione estremamente complessa di difficile
governabilità dove le terre e le acque interne di valli o paludi costituivano
il così detto “equilibrio padano”.
Questo status altamente dinamico influenzato dalla ciclicità degli eventi
atmosferici ed in generale dai cambiamenti climatici induceva le grandi
proprietà fondiarie, soprattutto a carattere ecclesiastico
3
ad adottare già
nell‟alto medioevo “soluzioni ibride”. I complessi curtensi erano veri e
propri centri poli- produttivi dove una parte cospicua dell‟ entrate
venivano divise fra i diritti di sfruttamento esercitati sulla rete fluviale
navigabile, la quale era mantenuta funzionante dai coloni residenti sul
territorio
4
ed il pesce che rappresentava una fondamentale risorsa. La
pesca d‟acqua dolce costituiva infatti, una attività di larga diffusione
3
Si pensi ad esempio che tra VIII e XII sec. d.c. il Monastero di S. Silvestro di
Nonantola aveva saputo costruirsi e mantenere l‟egemonia su una vasta area territoriale
che si poteva far coincidere con l‟Italia del Nord e del centro .
4
Infatti la manutenzione e la pulizia periodica degli alvei come delle sponde rientravano
negli obblighi contrattuali.
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garantita dalla funzionalità delle peschiere curtensi a conduzione diretta
localizzate sulla pars dominica .
Durante tutto questo periodo permarrà in questa area planiziaria di
grande estensione, dall‟Emilia occidentale al Delta del Po, un paesaggio
dominato da associazioni boschive miste del tipo Querco-carpinetum
boreoitalicum integrate a specie igrofile dove l‟incolto modificherà i
suoi confini a seconda del variare della portata dei numerosi corsi
d‟acqua che si articoleranno dal principale, il Po e che andranno a
formare una fitta rete idrica naturale.
Infine, lasciando l‟alto per il basso medioevo, in pieno XII sec. d. c.,
inizieranno ad emergere forze di varia natura a carattere economico-
sociale che permetteranno la riduzione dell‟incolto e quindi un inversione
di tendenza produttiva verso la piena agricoltura.
L‟approccio adottato fu storicamente di carattere collettivo e comporterà
un impegno in termini umani duraturo nel tempo soprattutto per quello
che concernerà il controllo delle acque interne che acquisterà valenza
crescente e che si completerà con le imponenti bonifiche ottocentesche.
Nella gestione della pars massaricia dei numerosi complessi curtensi
troverà sempre maggiore spazio la classe contadina medioevale di recente
formazione la quale ricoprirà un ruolo della massima importanza e che
verrà investita formalmente dal signore, nel suo interesse, attraverso la
stipula di differenti tipologie di contratti agrari di durata pluriennale –
invero già esistenti nell‟alto medioevo come l‟enfiteusi la precaria e il
livello ma a carattere meno impositivo- con i quali quest‟ultimo imporrà
l‟obbligo al coltivatore dell‟ ad meliorandum e che si andrà a sommare
all‟ ingiunzione del non peiorandum la quale avrà finalità essenzialmente
cautelative e talora obbligherà l‟allargamento del coltivo.
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In questo contesto in via di definizione attraverso tempistiche
estremamente dilatate si troverà ad essere plasmato e forgiato dall‟acqua
e dalla terra l’Istituto delle partecipanze agrarie che come ricordava Vito
Fumagalli:
“rappresenta l’ultima forma di solidarietà notevole che vede ancora
strettamente collegati gruppi fra di loro e con precisi ambiti territoriali.
E’quanto resta, ostinatamente, animato da grande vivacità e forte spirito
autonomistico, di antiche libertà, sempre insidiate ma comunque pur
sempre sopravvissute nei secoli”
5
Questo attualmente, è costituito da sei partecipanze , situate nella bassa
pianura emiliana compresa tra i fiumi Panaro e Sillaro, nei comuni di
Nonantola, Sant‟Agata Bolognese, San Giovanni in Persiceto, Cento,
Pieve di Cento e Villa Fontana. In passato se ne potevano annoverare altre
tre, nelle località di Crevalcore, Budrio e Medicina.
Durante il XIII sec. d. c. la situazione patrimoniale di suddetta zona
geografica era ben definita sicuramente a connotazione ecclesiastica, dove
il cenobio nonantolano di San Silvestro ne controllava la quasi totalità.
In particolar modo si può affermare che l‟odierno corpus fondiario gestito
collettivamente dalla partecipanza di San Giovanni in Persiceto sia
derivabile da due importanti concessioni enfiteutiche, perpetue e
rinnovabili ogni 100 anni, una da parte del Vescovo di Bologna l‟ altra da
parte dell‟Abate di Nonantola
5
FUMAGALLI, Le Partecipanze Agrarie Emiliane. La storia ,le fonti , il rapporto col
territorio Cit., pp. 11-13
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Figura 2 La presenza del bosco fra Reno e Panaro nel XIII secolo
Bosco della Saliceta, proprietà del Monastero di Nonantola,
attestata dal VIII secolo.
Bosco di Lovoleto, proprietà del Monastero di Nonantola,
attestata dal IX secolo.
Corte del Secco, proprietà del Monastero di Nonantola grazie
ad una donazione dei duchi longobardi Mechi e Rotari ( sec. IX
).La presente ubicazione è documentata tra i secoli XIII e XIV,
quando l’originaria unità si era frammentata in vari settori: la
“Salliceta” – sfruttata dalla comunità di Crevalcore, il Podere del Secco
– sfruttato dagli uomini del secco nel XIII secolo, la “Pallata”- affittata a
privati dal Monastero di Nonantola nel XIII e XIV sec., attrasse
l’attenzione delle comunità limitrofe, di San Giovanni in Persiceto,
Crevalcore e Cento.
Bosco “Nemora di Silvabella”, attestato nel XIV secolo e
probabilmente sfruttati dagli uomini di Finale Emilia. Un
particolare privilegio godeva su tale area la comunità di
Crevalcore.
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Varie proprietà ( “Nemus de Bocacanale“, “Guardata vie de
Marinis“, “Guardata Malacompra”,“Tomba
Ricardi”,”Ramatello Malaffitto”) del vescovo di Bologna.
Furono assegnate in enfiteusi alla comunità di Cento.
Corte Gena o Zena , proprietà del Monastero di Nonantola,
attestata dal VIII secolo. Dono del re longobardo Astolfo al
cognato Anselmo (duca del Friuli) nonché primo abate di
Nonantola, che fondò attorno all’anno 750 l’abbazia di Nonantola
all’interno di suddetta corte.
Bosco di Castelvecchio, forse antica proprietà della comunità
di San Giovanni in Persiceto, oggetto di lite tra il Monastero di
Nonantola e la comunità persicetana.
“Morafosca et Villa Gotigha”,proprietà del vescovo di
Bologna. Il settore più settentrionale era occupato dal “Nemus
Litis”, il bosco della lite tra persicetani e centesi, in cui il
vescovo dovette ritagliare per sé un appezzamento per separare le aree
boschive sfruttate dai due contendenti.
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Quella vescovile si può far risalire, al 4 ottobre 1170 ed era riferibile ad
una zona di notevole estensione denominata Morafosca e Villa Gotigha ,
che era posta a nord-est del castello persicetano mentre quella abaziale fu
certamente più difficile da ottenere e una datazione certa compare
attraverso un documento che sancì un faticoso compromesso tra la
comunità persicetana e l‟ importante monastero negli anni 1258-60
riferibile invece all‟estese terre boschive ed incolte di Castris Veteris
situate a nord- ovest dell‟abitato persicetano.
Queste plaghe inselvatichite essendo altimetricamente depresse
mantennero per lungo tempo la loro connotazione originaria di nemus
paluster; venendo sfruttate collettivamente dagli uomini della comunità
persicetana la quale , nonostante le difficoltà ambientali e soprattutto per
la clausola enfiteutica dell‟ad incolandum ,che imponeva ai concessionari
di risiedere stabilmente nel luogo dato in concessione , si era insediata al
proprio interno imparando a muoversi con dimestichezza ed a vivere
accettandone l‟estrema precarietà ma anche sapendone apprezzare i
risvolti positivi.
Infatti questi boschi fornivano molteplici risorse: selvaggina, pesce,
prodotti spontanei ma anche possibilità di allevare bestiame allo stato
brado non ultimo il legname
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allora indispensabile per la cottura degli
alimenti per il riscaldamento per l‟edilizia povera come pure per la
costruzione di attrezzi agricoli ed utensili.
Fu, soltanto sul finire del XV sec. d.c., quando venne eseguita l‟
importante escavazione del cavamento foscaglia detto anche Amola e
Palata
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, che si verificò la ben nota serrata delle famiglie dei veri
6
Lo stesso Piero De Crescenzi nel suo Trattato della agricoltura considerando le
qualità delle singole piante ne consigliava un utilizzo diversificato Es. le querce (Farnia
/Quercus peduncolata ), che si distinguono per “sodezza e durezza, de‟ loro legni”
risultavano adatte per le costruzioni, in particolare per le strutture che restavano a
contatto con il terreno, in quanto “i predetti arbori durano lungamente in lavorii fatti
sotterra”.Oppure gli aceri (Acer campestre) era suggerito per ricavarne coppe scodelle ,
taglieri e per tutti i “delicati lavorii”.
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Grande collettore di scolo mediante il quale le acque dei terreni bassi di Crevalcore ,
Sant‟Agata e San Giovanni in P. furono convogliate nel Panaro a Santa Bianca .Le
spese di suddetta opera furono a carico di Giovanni II Bentivoglio che ne fu remunerato