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INTRODUZIONE
E’ difficile al giorno d’oggi riuscire a parlare di Medioevo senza incorrere nel rischio di assumere
come oggetto d’analisi una creatura invero multiforme ed obliqua nel tempo, ardua da definire in
relazione a limiti e componenti ma che si presta, per sua stessa essenza, a molteplici speculazioni e
fraintendimenti.
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Tali incertezze, sovente inconsapevoli, in altri casi figlie di una lunga tradizione
storiografica che, ricca di fardelli ideologici e metodologici, si è ostinata ad osservare la storia sotto
lenti d’ingrandimento deformanti e parziali (né questo può essere motivo di biasimo d’altronde, non
avendo licenza di recriminare in storici e studiosi di epoche passate limpidezze ed imparzialità di
metodo storico plausibili solo alla luce della nostra moderna mentalità di uomini del XXI secolo)
hanno concorso alla creazione di una sorta di corollario immaginifico e culturale nel quale si ha ben
diritto di vedere un “secondo Medioevo”, quel Medioevo della cultura popolare, di certe produzioni
cinematografiche, delle favole d’infanzia e degli ibridi equivoci con le fantasie neogotiche, quel
Medioevo che fondamentalmente è il più diffuso e conosciuto, grazie anche alla complicità della
capacità di diffusione dei media.
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E pur tuttavia è plausibile chiedersi fino a che punto si spinga la
responsabilità dello studioso nell’aver dato vita a questa sovrastruttura, o se piuttosto si debba tener
conto della contraddittorietà profonda, della multiforme vitalità, della pluralità di movimenti e
fenomeni reali celati sotto il drappo dell’immaginario medievale, per rubare da Jacques Le Goff,
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di
tutto quello che rende il Medioevo vivo e pulsante come ogni epoca storica e non uno sterile
oggetto d’analisi inquadrabile in schemi di studio precostituiti e rigidi fino a poco tempo addietro
ancora in straziante e soffocante uso. Il contrasto a posteriori con il mondo classico e, in seguito,
con quello umanistico – moderno, contrasto quest’ultimo ben più vivo dal diciassettesimo secolo in
poi – volendo abusare del solito termine post quem costituito dal Cellarius e la sua Historia Medii
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In tal senso H. Pirenne, Maometto e Carlomagno, Laterza 2007. La tesi dello storico belga H. Pirenne sposta la data
d’inizio del Medioevo all’epoca delle invasioni musulmane tra il VII e l’VIII secolo d.C. . Per quanto sia stata
ampiamente confutata e criticata, la teoria dello studioso non manca di rivelare aspetti validi ed incontrovertibili sulla
parziale continuità del mondo tardo antico – alto medievale con quello dell’ultima romanità e la grande novità portata
dall’incontro – scontro dell’Islam con Bisanzio prima e con l’Occidente in seguito.
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Sul concetto di Medioevo e le sue interpretazioni nel corso dei secoli è stato scritto molto ed estensivamente; si
eviterà pertanto di citare bibliografie che risulterebbero dispersive e comunque incomplete. Si consiglia piuttosto un
piccolo saggio, essenziale ed introduttivo, per approcciarsi ai più elementari fondamenti del grande fraintendimento
medievale già fin dai tempi subito seguenti la fine dell’epoca: G. Sergi, L’idea di Medioevo, Donzelli 2005.
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J. Le Goff, L’immaginario medievale, Laterza 2003.
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Aevi, ma ricordando che il contrasto tra l’epoca di mezzo e la novità “moderna” era avvertito, con
fastidio, almeno nel campo artistico già dal Vasari – ha inevitabilmente favorito l’immagine del
Medioevo come epoca rozza, primitiva, “semplice” e neppure lontanamente paragonabile, con le
debite eccezioni, ai fasti ad esso precedenti e seguenti.
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Il motivo che potrebbe portare ad analizzare un evento storico tanto piccolo, così infinitamente
casuale e “di sostrato” quale per l’appunto il presunto scontro – ideologico prima che armato – tra i
cittadini di Messina e i soldati dell’esercito di Riccardo Cuor di Leone esula dalla mera volontà di
ordinare episodi concatenati nel tempo per collocarsi in un sistema di osservazione della storia più
ampio e completo: la capacità di contestualizzare i caratteri originali di un’età di transizione,
prendendo a prestito una felice definizione di Giovanni Vitolo,
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mediante non tanto i grandi eventi
di superstrato, oggetto di memoria per didascalie e fasti consolari, quanto più mediante piccole
schegge di storia, quasi accidentali nel vorticoso moto delle grandi rotae mundi e sovente
trascurabili (o trascurate), costituenti tuttavia, come le pagliuzze di ceramica di un vaso infranto, la
matrice di un’epoca e di un mondo, senza le quali i grandi cocci unitari rimarrebbero solitari,
incomprensibili ed insensati.
Capire e definire la storia dalle sue nervature più nascoste e quotidiane non è certo un esperimento
originale, dovendo tributare il giusto merito all’esperimento di Carl Ginzburg nel fondamentale “Il
formaggio e i vermi”, ma è certo che la strada per sganciare l’impostazione dell’insegnamento
storico da legacci di antica tradizione è ancora lunga e irta di ostacoli.
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E’ in tal senso che l’episodio
avvenuto a Messina può servire la causa della comprensione della storia e dello scardinamento di
grandi categorie di studio precostituite, piuttosto che configurarsi come un mero esercizio di ricerca
storiografica di nicchia; collocandosi, per natura dei personaggi implicati e specificità della
situazione, tra la dimensione della grande storia dei titani e la piccola storia degli infiniti Menocchi,
permette di restituire quotidianità, vitalità e complessità all’intera sfera conoscitiva del Medioevo e
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Necessario il rinvio al maestoso lavoro di E. Gibbon, History of the decline and fall f the Roman Empire, W. Strahan
and T. Cadell. 1776 – 89; seppur una delle principali cause del prolungato pregiudizio sul Medioevo il lavoro di Gibbon
si profila come il primo e più completo esempio di analisi del rapporto tra l’antichità classica e l’epoca medievale,
stabilendo un limite post quem per il computo temporale di quest’ultima.
5
G. Vitolo, Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione, Sansoni 2007.
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L’opera di Ginzburg apre la strada allo studio della microstoria, nuova corrente storiografica sorta tra le pagine della
rivista Quaderni storici (1966), e che è stata la migliore erede della lezione della Scuola degli Annali. C. Ginzburg, Il
formaggio e I vermi, Einaudi 1976, ma anche G. R. Stewart, Pickett’s Charge: a Microhistory of the final attack at
Gettysburg, July 3, 1863, Boston, Houghton Mifflin, 1959.
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della porzione di storia di specifica analisi, togliendola dall’immobilità di una rappresentazione
ormai stigmatizzata ed arroccata in immagini immutabili.
Questo studio vorrà focalizzare l’analisi della permanenza di Riccardo a Messina sulla situazione
che nella città siciliana si venne a creare nell’inverno del 1190-1191, tenendo conto del bruciante
contesto all’interno del quale si consumarono tali eventi e delle tremende pressioni ideologiche
sottese alla tradizione futura degli stessi, delle possibili esigenze di parte che i cronisti che hanno
riportato questa storia abbiano potuto voler soddisfare, che sappiamo non essere poche né
indifferenti all’esito finale del resoconto storico. Uno scontro di civiltà mascherato da conflitto in
armi, dunque, o un abile modo per giustificare comportamenti da predoni da parte di pii crociati di
Cristo in terra Cristiana ad opera di cronisti devoti ad una causa di Stato.
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***
“Chi non ha armi porta un leone”, recitava un noto motto popolare medievale, riportato da
numerose chanson de geste e trattati araldici, a render giustizia dell’intrinseca nobiltà e possanza
della creatura nobile per eccellenza: il leone, la cui supremazia sugli altri candidati al “trono” del
regno animale delle concorrenti tradizioni germaniche e celtiche non fu certo ottenuta a buon
mercato e con facilità. E a buon diritto possiamo dire che, tra la sera del 22 e la mattina del 23
Settembre del 1190, a fare il suo trionfale e roboante ingresso nel porto di Messina fu il più
esuberante dei tanti leoni che il Medioevo ebbe, Riccardo I d’Inghilterra detto Cuor di Leone,
guerriero prode e coraggioso, feroce e temuto, giusto ed imparziale, magnanimo con gli alleati e
terribile con i nemici. Riccardo il Normanno, Riccardo l’Inglese che combatteva e palpitava più per
la Francia (ed in particolare la sua materna Aquitania) che per le fredde terre di Britannia, entra
nella città siciliana in pompa e fasto tali da fare impallidire il ben più discreto ingresso del re di
Francia Filippo II l’Augusto, avvenuto il 16 settembre quasi in sordina, considerando il rango della
persona in questione, lanciando un immediato messaggio alla città sulla personalità di questo re
irruento e focoso, che conduceva la sua crociata verso Gerusalemme allo scopo di schiacciare i
nemici di Dio guidati dal condottiero Saladino. La moderna percezione dell’antichità suggerisce,
quasi automaticamente, di unire a tale evento la ormai ben collaudata espressione del “Buon re
Riccardo”, frutto di retaggi romantico-favolistici duri a morire (e validi, d’altronde, per l’intero
scibile medievale oggi inseparabile dal sostrato di sovra costruzioni in gran parte ottocentesche che
ne hanno contribuito a diffondere il mito) che hanno fatto di questo impetuoso re-cavaliere
l’emblema stesso della cortesia e della mitezza. Meno entusiasta fu la reazione della popolazione
messinese alla vista delle navi e dell’esercito del Re d’Inghilterra che entravano nel porto con il
lusso e l’arroganza di padroni-conquistatori. Il soggiorno di Riccardo nell’isola si protrasse fino al
10 aprile del 1191, ben oltre ogni previsione di ritardo; in tale lasso di tempo una serie di importanti
avvenimenti segnarono il futuro del re-cavaliere.
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CAPITOLO I
Un Leone in Sicilia
Il XII secolo vide la definitiva supremazia del leone nel mondo naturale come rex omnium
bestiarium, non già rex animalium
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per il cui appellativo si dovrà attendere il XIII secolo e le
enciclopedie di Tommaso di Cantimpré, di Bartolomeo l’Inglese e di Vincenzo di Beauvais.
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I tre
enciclopedisti insistono a lungo sulle qualità di forza, coraggio, liberalità e magnanimità del leone,
qualità che, seppur non sintetizzate nel titolo esemplificativo di “re degli animali”, erano già
ampiamente entrate a far parte del suo corredo morale dal XII secolo almeno. Basti pensare alla
figura del Re Noble nel Roman de Renart, alle sue qualità e alla balorda ridicolizzazione di Brun,
l’orso, l’altro antagonista di stirpe celtico-germanica per il titolo di rex, sconfitto dal leone dopo una
lunga battaglia di cui la Chiesa fu tra le più importanti promotrici. Il leone, da buona parte della
letteratura patristica e da Agostino designato come simbolo ed incarnazione di Satana e della sua
violenza brutale, diventa infine simbolo stesso di forza, nobiltà, coraggio, valore e, in particolar
modo, emblema di Cristo, tramite un processo di diffusione che dall’oriente greco-bizantino e
iranico approda nelle buie foreste dell’Europa nord-occidentale, dominate ancora dall’orso villoso,
diffondendo il nuovo ideale di dominatore degli animali che senz’altro deve molto alla fortuna dei
bestiari, a loro volta derivanti dal modello alessandrino del Phyisiologus.
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Il nuovo leone che si
diffonderà, soppiantando la vecchia belva biblica, sarà il leone simbolo della tribù di Giuda, la più
potente d’Israele. Simbolo di Davide, simbolo di Cristo, il grande felino percorre una strada
fortunata che ribalterà velocemente la sua fama. All’orso non rimarrà che l’impietosa strada della
demonizzazione: animale feroce, violento, ferino ma ambiguamente antropomorfo, diviene creatura
lussuriosa e peccatrice, stupratrice di donne e figura satanicamente distorta delle fattezze umane. E’
dall’inizio del pieno medioevo, grossomodo dal XII secolo in poi, che cominciano ad esser comuni
nomi propri o soprannomi che propongono riferimenti al leone, tanto in personaggi storici che in
eroi letterari (Lionel di Lancillotto, Leone di Bourges). Il leone di questi nomi è solitamente quello
7
De bestiis et aliis rebus, libro II, cap. 1; F. Unterkircher, Bestiarium. Die texte der handschrift Ms. Ashmole 1511 del
Bodleian Library Oxford, Graz 1986, p. 24.
8
Tommaso di Cantimpré, Liber de natura rerum, a cura di H. Boese, Berlino 1973;, pp. 139 – 141; Bartolomeo l’Inglese,
De proprietari bus rerum, Koln 1489, fol. 208; Vincenzo di Beauvais, Speculum Naturae, Douai, 1624, libro XIX, capp. 66
– 74.
9
Si veda N. Henkel, Studien zum “Physiologus”, Tubingen 1976.
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dell’intrepido coraggio cavalleresco, della ferocia e dell’ardore in battaglia (è il caso di Enrico il
Leone, duca di Sassonia e cognato di Riccardo); tuttavia il leone dei bestiari o delle raffigurazioni
ecclesiastiche è anche quello che cancella con la coda le proprie orme, come Cristo nasconde la
propria origine divina facendosi uomo; è il leone che dorme ad occhi aperti, come Cristo che nella
tomba addormenta la sua natura umana, ma veglia con quella divina.
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Quest’esplosione di leoni a
metà tra il profilo cristologico e quello cavalleresco (e tali due aspetti non di rado, nel mondo
medievale, tendono a confondersi almeno iconograficamente) nell’arco di tempo compreso tra il
XII ed il XIV secolo non poté non sortire, come effetto, l’attribuzione ad un personaggio come
Riccardo di un soprannome che avesse a che fare con il leone.
Una tradizione del XIV secolo spiega la romanzata origine dell’attributo “cuor di Leone”: durante la
sua prigionia nel castello del re di Germania Riccardo godette delle grazie della giovane e bella
figlia del re, che passava con lui molte notti d’amore. Venutolo a sapere, il Re volle togliere di
mezzo Riccardo facendo entrare nella sua cella un leone affamato. Riccardo lottò a mani nude
contro la fiera, la sconfisse, ne strappò il cuore che mangiò davanti all’esterrefatta corte tedesca.
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Il
tema del cuore mangiato, per nulla inusitato nella letteratura amorosa del XIII-XIV secolo, si sposa
mirabilmente col tema di matrice biblica dell’eroe che uccide a mani nude un leone (topos
dell’antichità, da Sansone a Davide, ma anche Ercole). La storia, piuttosto ingenua nella
ricostruzione della prigionia di Riccardo sotto l’imperatore Enrico VI, si colloca in un’epoca di
crescita e differenziazione dei simboli nelle arme, con relativa diminuzione dello strapotere del
grande felino nei blasoni, che rimaneva tuttavia il re dell’araldica. Il soprannome “Cuor di Leone” è
in verità ben più antico, coevo allo stesso Riccardo. La cronaca di Bernardo Itier, redatta tra la fine
del XII secolo e l’inizio del XIII riporta:
Scripsit B. Iterii feria sexta vigilia S[anct]i Johannis Baptistae quod ipso anno obiit Ricardus
cognominatus Cor Leonis…
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Ibidem, pp. 164 – 167.
11
Der mittelenglische Versroman uber Richard Lowenherz, a cura di K. Brunner, Wien 1913, vv. 880-1100.
12
Jean Flori, Riccardo Cuor di Leone, il Re Cavaliere, Einaudi 2004, p. 222.