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1 PREMESSE STORICHE
1.1 Mutamenti nell’intervento a favore delle persone con disagio
psichico (dall’ottica custodialistica a quella riabilitativa e di inclusione sociale)
Nel corso dell’ultimo secolo e mezzo molti cambiamenti sono occorsi
nella “mentalità” di chi, in qualche maniera e in qualsiasi ruolo, abbia
dovuto occuparsi dell’assistenza al paziente psichiatrico e, più in
generale, di interventi a favore del portatore di disagio psichico.
Un’analisi attendibile può solamente derivare dalla considerazione di
alcuni fattori: a) i mutamenti storico-sociali; b) l’evoluzione della
scienza ed in particolare della farmacologia; c) l’oscillazione degli
orientamenti culturali; d) l’affermarsi di alcune posizioni ideologiche;
e) l’importanza crescente delle valutazioni economiche, con il
conseguente sviluppo dell’aziendalizzazione delle strutture sanitarie.
a) Mutamenti storico-sociali: nei secoli precedenti il “folle”,
quando non escluso a priori da una visione del deviante di tipo
magico-religioso (si veda, per esempio, la demonologia), è
stato considerato soprattutto un “disturbo” da rimuovere (più
che un disturbato da curare): pertanto un “elemento” da
allontanare dal contesto sociale (più che una persona) e da
rinchiudere in apposite istituzioni (i manicomi), la storia delle
quali sembra tragicamente coincidere con la sofferenza
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dell’isolamento e della pazzia. L’ottica è stata dunque
precipuamente custiodialistica (cfr. M. Foucault, 1963) e si
possono escludere solo rare eccezioni, come le lezioni di
Charcot alla Salpetrière di Parigi, che tanta influenza hanno
avuto sulla formazione “psicodinamica” di Freud (cfr. E. Jones,
2000). Di qui derivano le due posizioni dominanti: il disturbo
da “eliminare-isolare” e/o il disturbo da “capire-comprendere”,
che ritorneranno, dialetticamente antitetiche, nell’esame di
quelle posizioni socio-culturali e ideologiche, che molto hanno
differenziato, e ancora oggi fanno divergere, le opinioni e gli
interventi rivolti al “diverso”.
b) Evoluzione della scienza e della farmacologia: la scarsa
conoscenza della follia in epoche prescientifiche ha favorito
sia la sua collocazione magica, sia la sua esclusione dal
contesto sociale. Lo sviluppo della mentalità positivistica alla
fine dell’ottocento ha invece posto le basi per un maggior
bisogno di comprensione, biologico prima ancora che
psicologico, del disagio mentale. Si sono così contrapposte, pur
storicamente integrandosi, la grande psichiatria tedesca
organicista (cfr. E. Kraepelin, 1905) e lo sviluppo successivo
dell’ottica fenomenologica (cfr. K. Jaspers, 1964) e di quella
psicologico-psicoanalitica (cfr. S. Freud, 2000). Queste due
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“interpretazioni” delle mente che si ammala hanno poi trovato
riflesso negli atteggiamenti ideologici e socioculturali che si
sono fronteggiati per tutto il novecento. L’ottica custodialistica
è continuata, ma la ricerca di “cure” si è susseguita, sia sul
versante organico (cfr. l’importanza storica dell’elettroshock)
sia su quello psicologico (cfr. l’introduzione dell’idea di gruppo
e di lavoro nei manicomi). La svolta è stata tuttavia
scientificamente rappresentata dal rapido progredire, a partire
dagli anni ’50 del secolo scorso, della psicofarmacologia.
Qualunque ne sia stata la collocazione socio-culturale (quella di
“contenzione farmacologica” al posto della “contenzione
fisica” da un lato, oppure di stimolazione e/o di rilassamento
per migliorare la qualità, l’adattamento alla vita e l’inserimento
sociale dall’altro), le due posizioni hanno finito col trovare
punti di convergenza pratica pur nella loro contrapposizione
ideologica.
c) Oscillazione degli orientamenti culturali: gli orientamenti
culturali possono essere letti in chiave longitudinale o
trasversale. Gli innegabili progressi delle conoscenze
scientifiche nell’arco del tempo (ottica longitudinale) hanno
finito in gran parte con l’essere condivisi, pur nelle diverse
premesse ideologiche. Così, per esempio, l’introduzione di
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nuovi psicofarmaci, più efficaci e maneggevoli, è stata recepita
e utilizzata anche dai più accesi sostenitori dell’etiologia (e
dell’ideologia) socio-psicodinamica. Così anche, per contro,
l’importanza di nuove branche della psicologia clinica (al di là
della stessa psicoanalisi) e l’ineludibilità delle dinamiche di
gruppo e di alcune tecniche cognitivo-comportamentali, hanno
trovato considerazione in chi lavorava prevalentemente sotto
una visuale custodial-organicista, in istituzioni chiuse come gli
Ospedali Psichiatrici. Il fatto rilevante è, tuttavia, che l’ottica
trasversale, con l’acquisizione delle nuove scoperte
psicofarmacologiche, ha finito col mettere tutti d’accordo con
la necessità di riformare-abolire il manicomio. E anche chi non
era ideologicamente dalla parte di Basaglia (cfr. F. Basaglia,
1968, 1971), ha così collaborato allo smantellamento del
vecchio modo di (non)occuparsi del disagio psichico. E’ un po’
come se l’ottica longitudinale (con i suoi dogmatismi,
radicalismi e ostracismi culturali, politici e ideologici) fosse
gradualmente confluita in quella trasversale: da ciò è nata la
necessità di collaborare e di confrontarsi nelle nuove strutture
dell’assistenza psichiatrica. Questa descrizione, che pecca
sicuramente d’incompletezza e di eccesso di semplificazione,
rende però l’idea di quanto sia accaduto dagli anni ’70 in poi.
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Ne sono un esempio la nascita dei Servizi di Salute Mentale
Ambulatoriali e dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura
negli Ospedali Civili. In queste nuove istituzioni le differenze
culturali e ideologiche (e il loro riflesso politico) non hanno più
potuto rintanarsi in istituzioni differenziate (logisticamente e/o
programmaticamente), ma sono state per così dire costrette a
convivere e a dialogare. Riflessi di questa nuova situazione
sono dunque all’origine anche del lavoro di inserimento
lavorativo della persona con problemi di salute mentale.
d) Posizioni ideologiche: alcune impostazioni ideologiche
nell’ ambito del decorso storico accennato hanno comunque
finito col divenire imprescindibili. In particolare la “apertura”
dei manicomi e, in un gioco di parole e di significati, la loro
“chiusura” sono state solamente la premessa. Ad aprirsi
all’esterno è stato il malato mentale e a chiudersi
definitivamente la struttura fisica dell’istituzione. Questo ha
posto nuove problematiche a chi aveva in carico il disagio
psichico, da qualunque punto di vista (etiologico-patogenetico,
ideologico o politico) si ponesse. Il disturbo si è infatti, volenti
o nolenti, territorializzato; la gestione del disagio è diventata
pubblica, a carico sia della famiglia (ove presente) sia degli
operatori delle varie strutture assistenziali fattesi “esterne”: di
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qui si snoda un altro collegamento con il lavoro di riabilitazione
e di reinserimento sociale. I riflessi socioculturali riferiti a
questi ultimi aspetti sono così, quasi impercettibilmente, ma
drasticamente divenuti dominanti e “territorio” di discussione e
confronto di operatori anche ideologicamente molto dissimili.
e) Importanza crescente delle valutazioni economiche:
un’ ultima considerazione merita infine il constatare che
l’evolversi in senso economico-aziendale di molte istituzioni
sanitarie, e quindi anche psichiatriche, ha aperto nuove
prospettive e problematiche. Le prime comprendono, per
esempio, lo sviluppo di nuove strutture “intermedie”, come le
comunità, spesso gestite amministrativamente da privati e solo
collateralmente convenzionate col servizio sanitario pubblico.
Le seconde concernono soprattutto la differente gestione, che la
territorializzazione dell’assistenza ha reso inevitabile, nei
confronti del portatore di disagio psichico. Non è stato facile né
privo di sofferenze, per assistiti ed operatori, il passaggio ad
un’organizzazione da sviluppare nell’ “hic et nunc” della vita
quotidiana di entrambi gli attori del lavoro di cura e
riabilitazione. Da un altro punto di vista, inoltre, la necessità di
limitare e controllare la spesa sanitaria ha paradossalmente fatto
nuovamente confluire posizioni ideologiche prima
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contrapposte. Così, nella particolarità del progetto di
inserimento al lavoro che verrà descritto nei successivi capitoli,
la possibilità di “occupare” il portatore di disagio mentale può
divenire una manovra terapeutica e contemporaneamente un
risparmio di spesa per la comunità. Il rendere potenzialmente
“attivo” un soggetto dapprima ritenuto solamente “passivo”,
avvia un’esperienza personale riabilitativa e contestualmente
un’ attività sociale spesso economicamente conveniente.
Questo ha sovente rappresentato per gli operatori del
Programma BUS un doppio stimolo nelle difficoltà di relazione
ai diversi livelli operativi, imprescindibili e inevitabili
nell’espletamento dei progetti e dell’ attività di inserimento
lavorativo.
Per concludere le considerazioni storiche alla base del cambiamento di
mentalità citato all’inizio di questo capitolo, si vuole suggerire una
modificazione avvenuta nel 1911 nella classificazione e
interpretazione diagnostica della psichiatria (cfr. F. Giberti, R. Rossi,
2007). Riguarda la nascita del concetto di schizofrenia, e può essere
letta come simbolo, come metafora, dei mutamenti ai quali si è
accennato.
Nella seconda metà dell’ottocento non si parlava di “schizofrenia”,
bensì di “demenza precoce”. L’accento non era posto sulla struttura
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del disturbo mentale, ma sul suo decorso. “Demenza” significa ancor
oggi decadimento mentale, e “precoce” indicava che avveniva, per
così dire stranamente, in età precoce. Ciò corrispondeva
all’osservazione clinica: i malati, che oggi vengono definiti
schizofrenici, andavano realmente incontro al decadimento mentale
all’interno dei manicomi dove trascorrevano la maggior parte della
loro vita, senza che fosse possibile stabilire (e allora poco interessava)
quanto dipendesse dall’internamento istituzionale e quanto dalla stessa
malattia di cui soffrivano. Su questo punto sono note, un “secolo”
dopo, le critiche di Basaglia e colleghi, che hanno avviato, dagli anni
’60 in poi, la fine dei manicomi (cfr. F. Basaglia, 1968, 1971). Nel
1911 uno psichiatra di Zurigo, Eugen Bleuler, sulla scorta e sotto
l’influenza della fenomenologia di Karl Jaspers, sposta l’accento dal
decorso della malattia alla sua struttura e conia il termine
“schizofrenia”, cioè “mente spezzata” o “mente dissociata”(cfr. E.
Bleuler,1911). Diviene così centrale la descrizione del disturbo (lo
stato di dissociazione) e non il suo progredire (paradossalmente il
regredire verso lo stato di demenza). L’ottica da longitudinale si
trasforma in trasversale e l’attenzione si focalizza sull’osservazione
(fenomeno) e sulla comprensione (comprensibilità di Jaspers) della
malattia. Per arrivare a tutto questo è stato però necessario attraversare
il positivismo, lo sviluppo della mentalità scientifica, la nascita della
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psicoanalisi: per così dire da Lombroso (cfr. C. Lombroso, 1893) alla
psichiatria moderna.
Per chiudere il cerchio della lettura metaforica proposta poco sopra, si
passa dalla “custodia” del “matto” (che include una possibile azione
patogenetica) allo studio del manifestarsi della follia e al tentativo di
“comprenderla” (che prospetta una possibile azione riabilitativo-
curativa). Non a caso custodire significa spesso rinchiudere e
comprendere sta anche per prendersi dentro.
1.2 Alcuni riferimenti alla legislazione nazionale, della regione
Liguria e del Comune di Genova.
Il percorso di riabilitazione è la ricostruzione della piena cittadinanza
del paziente psichiatrico, cioè la restituzione dei suoi diritti formali e
sostanziali, affettivi, relazionali, materiali (cfr. B. Saraceno, 1995). E’
quindi un percorso lungo e complesso che parte innanzitutto dal
riconoscimento di questi diritti per poi giungerne all’acquisizione. Il
punto focale di questo percorso è la qualità della vita del paziente ed è
fondamentale che gli interventi siano concentrati sulle sue abilità
piuttosto che sulle disabilità, per poter costruire un percorso
individualizzato che stimoli e potenzi le capacità e i desideri della
persona.