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delle gabbie salariali, ormai abolite dal 1969, che cons is tevano in salari
differenziati per territorio aventi come parametro il costo della vita.
In questo ambito si svolgerà la mia ricerca: tenterò di ricostruire
l’evoluzione giuridica della sufficienza della retribuzione e l’applicazione
dell’art . 36 Cos t. e di analizzare la compatibilità di ques t’ult imo con le
nuove proposte avanzate, alla luce degli interventi del Legislatore in
ma t e ria .
Struttura della ricerca
L’influenza delle condizioni territoriali sulla retribuzione, nel rapporto
di lavoro subordinato, può essere analizzata sotto due aspetti: quello della
contrattazione collettiva soggettivamente vincolante e quello della
determinazione giudiziale.
Punto di partenza per la determinazione della misura della retribuzione
è il primo comma dell’art . 36 Cos t., il quale garantis ce al lavoratore il
diritto ad una retribuzione, oltre che proporzionata alla quantità e qualità
del suo lavoro, in ogni caso sufficiente a consentire un’esistenza libera e
dignitosa a lui e alla sua famiglia.
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La sufficienza è tra i parametri inderogabili a cui rifars i nel
determinare la retribuzione; non essendoci mai stato da parte del
Legislatore un intervento che fissasse i minimi salariali
1
, questo concetto
ha assunto nel tempo un carattere immediatamente “precettivo”.
La questione è come misurare la sufficienza della retribuzione:
bisogna rifarsi soltanto a criteri oggettivi, che facciano riferimento alle
regole del mercato e alla natura della prestazione del lavoro, o anche a
criteri soggettivi, rischiando eventualmente la non obbiettiva adeguatezza
dello scambio tra la prestazione di lavoro e la retribuzione? La seconda
ipotesi, che richiama ai fini della sufficienza anche le esigenze della
famiglia del lavoratore, è inadeguatamente ris olta dall’intervento dello
Stato, che ha nel tempo provveduto in merito attraverso l’istituto
previdenziale degli assegni familiari e la leva degli sgravi fiscali in
ragione del carico familiare.
Ora, tornando ai due profili prospettati all’inizio: per il primo, ovvero
la contrattazione collettiva, il problema che si pone è quale ruolo possano
svolgere, al fine della realizzazione dell’oggettiva adeguatezza dello
scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione, le condizioni ambientali
e territoriali.
1
Cosa avvenuta nella maggior parte degli Stati moderni.
9
Ovvero, se pos s ano es s ere ammis s ibili, per volontà delle parti
collettive, salari differenziati secondo zone territoriali e, in particolare,
s alari inferiori ai minimi contrattuali s tabilit i dai contratt i collett ivi
nazionali, al fine di ottenere maggiore occupazione ed incentivare gli
investimenti ad opera delle imprese, che portino ad ulteriori offerte di
lavoro nelle aree a forte disoccupazione.
La risposta di alcuni è positiva, in considerazione del fatto che spetta
alle parti sindacali – e quindi alla contrattazione collettiva – il compito
istituzionale di determinare la retribuzione conforme al precetto
costituzionale in rapporto alle regole del mercato, tenendo anche conto
delle condizioni locali. Secondo altri, date le garanzie previste dalla
Costituzione, la parità della retribuzione è, in ogni caso inderogabile, a
prescindere dalla situazione contingente ed indipendentemente dalla zona
di appartenenza.
La situazione si è modificata, anche se solo parte della dottrina è
concorde, da quando la giurisprudenza ha riconosciuto ai contratti
aziendali, provinciali e regionali natura e dignità di veri e propri contratti
collett ivi
2
, escludendo qualsiasi criterio di gerarchia tra le fonti collettive
ed ammettendo, sempre nel rispetto dell’art. 36 Cost., la validità di
2
Protocollo del 23/7/1993.
10
clausole peggiorative rispetto alla regolamentazione nazionale
3
.
Precedentemente l’unico riferimento veniva fatto ai contratti collettivi
nazionali ed i contratti aziendali venivano considerati subordinati ai primi
e, quindi, non suscettibili di contenere clausole derogatorie in pejus, ma,
eventualmente, solo in melius, così come enunciato dall’art. 2077 c.c. In
ques ta maniera prima erano inammis s ibili trat tamenti retributivi a livello
aziendale concordati in misura inferiore a quelli s tabilit i a livello
nazionale, anche se giustificati dalle condizioni economico-socio-
ambientali delle zone in cui si dovevano applicare.
Sfruttando la dinamicità inserita dall’Accordo del ’93 nel contratto
collettivo, si è da più parti ritenuto che il contratto collettivo di livello
decentrato possa assumere il ruolo di flessibilizzatore salariale,
consentendo l’abbassamento dei minimi salariali, anche se concordati su
base nazionale, a causa delle difficoltà locali sul piano occupazionale
4
.
Chi si oppone a questa visione, invece, sostiene che, nell’accordo del
23 luglio 1993, a proposito dei contratti decentrati, si è usato il termine
“erogazioni” volendo intendere “aggiunte”, “integrazioni” del salario
3
Potrandolfi P., Influenza delle condizioni territoriali sui minimi salariali della
contrattazione collettiva e sulla determinazione giudiziale della retribuzione,
intervento all’incontro studio Nuove forme di retribuzione e attualità dei principi
costituzionali, Roma , 3 febbraio 1997
4
Potrandolfi P., op. cit., 1997, p.3.
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definito nel livello nazionale di contrattazione, e ricordando, comunque,
che le “erogazioni” sono ammesse solo in relazione alla produttività
5
e
non al territorio.
Il Legislatore, per ovviare alla situazione di crisi occupazionale, si è
mosso con varie iniziative fondate su situazioni socio-economiche locali.
In principio con il contratto di allineamento ( l. 440 del 1986; da
ultimo regolato dall’art. 5 della legge n. 608 del 28/11/1996), con il quale
vengono attribuite alle imprese operanti nel Mezzogiorno, o, comunque,
in aree a forte tasso di disoccupazione, effettive agevolazioni
contributive, a condizione che le imprese stesse si impegnino a rispettare i
livelli retributivi previs ti dagli s tes s i accordi provinciali di
riallineamento, ovvero a livelli inferiori a quelli dei contratt i collett ivi
nazionali, ma a condizione di un programma di riallineamento graduale
ai livelli minimi di tali contratt i.
E ancora, con lo scopo di sviluppare la politica occupazionale, anche
se non direttamente riferito alla situazione del Sud, si può citare il salario
d’ingresso, che, nell’ambito di una fles s ibilità s alariale concordata tra
governo e parti sociali, è un salario corrisposto in forma ridotta per
incentivare l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori iscritti da più
anni al collocamento o determinati per specifiche aree territoriali. Si è
5
Longo A., Salari in gabbia, Roma 1995, p.25 s..
12
voluto, quindi, esortare ad iniziare nuovi insediamenti aziendali e ad
incrementare quelli es is tenti; nella pratica il s alario s arebbe ridotto per
una durata temporanea (due o tre anni) in una determinata percentuale
rispetto ai minimi della contrattazione collettiva nazionale.
Al centro del rilancio della politica di sviluppo occupazionale per il
Sud c’è il cosiddetto patto di nuova impresa, cioè un accordo a tre da
stipularsi a cura del Governo e delle parti sociali, per la definizione di una
fles s ibilità salariale nel Mezzogiorno accompagnata da misure di
sostegno statale – anche di tipo infrastrutturale – necessarie per dare una
spinta allo sviluppo di investimenti industriali al Sud, alla creazione
quindi di nuova impresa. Questa figura è diversa dalle gabbie salariali
perché prevede per i nuovi assunti forme di salario differenziate, limitate
nel tempo, e per le aziende l’espansione o il nuovo insediamento nell’area
del Mezzogiorno.
In relazione al precedente va ricordato anche il contratto d’area,
diretto a creare un ambiente favorevole alle nuove iniziative
imprenditoriali ed alla creazione di nuova occupazione; questo tipo di
accordo ha riguardato, tra l’altro, nella sua formulazione originale,
l’adozione di politiche salariali finalizzate a favorire l’avvio delle nuove
attività produttive massimizzandone gli effetti occupazionali.
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Questi interventi legislativi, che praticamente flessibilizzano il salario,
non cozzano con nessun principio giuridico o costituzionale, anzi sono
giustificati dagli artt.1 e 35 Cost. e prevedono tutti un progressivo
adeguamento della retribuzione ai parametri nazionali.
Ma sappiamo che è stata la giurisprudenza a completare l’attuale
portata del concetto di retribuzione nel nostro ordinamento, per questo
fondamentale è l’influenza delle condizioni socio-economiche-territoriali
sulla determinazione giudiziale della giusta retribuzione in ipotesi di
contrattazione collettiva non soggettivamente vincolante, partendo
dall’art. 36, 1° comma , Cos t. e dall’art. 2099, 2° comma, c.c..
Nella giurisprudenza troviamo pareri opposti: alcune decisioni della
Cassazione sono contrarie all’adozione di livelli retributivi inferiori ai
minimi collettivi nazionali quando il giudice di merito richiami, come
fattori determinanti, condizioni ambientali e territoriali, o ancora peculiari
del mercato del lavoro nell’ambito di riferimento, o le paghe in uso in una
determinata zona (Cass . n. 1903/94 e Cass . n. 1255/91); in ques to caso la
motivazione del rifiuto di tali deroghe, ai minimi fissati dai contratti
collettivi nazionali, è dovuta al fatto che queste potrebbero costituire una
forma di sfruttamento dei lavoratori, e, quindi, essere contrarie alla
Costituzione. Altri giudici sono stati favorevoli: ad es empio, s econdo la
sentenza della Cassazione n. 349/81, il s is tema delle zone salariali è
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conforme al precetto dell’art. 36 Cost., dato che è tale da assicurare una
più rigorosa proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del
lavoro prestato, tenendo in considerazione le variazioni effettive del
potere di acquisto della moneta nelle varie zone; o ancora, la sentenza
della Cassazione n. 4503/87 ammette che il giudice del merito possa
applicare al rapporto tariffe sindacali previste da un contratto collettivo di
diritto comune non soggettivamente vincolante, ma adattandole secondo
equità al caso di specie mediante riduzione in una misura percentuale;
infine, la sentenza della Cassazione n. 7383/96 consente al giudice di
apportare un correttivo in diminuzione ai minimi salariali di una
contrattazione collettiva non vincolante tenendo conto, tra l’altro, delle
paghe praticate nella zona.
Il problema è che, nell’orientamento giurisprudenziale più rigoristico,
si rischia di sindacare la motivazione addotta dal giudice nell’ambito di
una valutazione che dovrebbe essere discrezionale, nell’altro, invece, di
lasciare troppo spazio al soggettivismo decisionale, perché si ammette
che il potere valutativo sia insindacabile in sede di legittimità, potendo il
giudice ricorrere a criteri diversi dalle tariffe sindacali ovvero a criteri
equitativi.
Il dibattito è vivo, e si evidenzia ancor di più dal fatto che
l’orientamento rigoristico vada in effetti controcorrente rispetto alla
15
tendenza della legislazione di tenere conto delle realtà locali; questa
posizione, infatti, consente un distacco dai livelli retributivi del contratto
collett ivo unicamente con riguardo ai profili oggettivi inerenti alla
prestazione lavorativa in sé considerata, e non anche con riguardo ad altri
profili es trins eci, quali le condizioni socio-ambientali nelle quali operano
le imprese, o le paghe correnti.
La storia ci ha, comunque, insegnato che l’equità è destinata a ridursi,
mentre la funzione di mediazione fra gli interessi contrapposti, sollecitati
dalla mutevole realtà socio-economica, finisce per essere tolta ai
magistrati e adempiuta dalle parti sindacali e dal legislatore
6
.
Non si può, a questo punto non far cenno al ruolo fondamentale delle
parti sociali, che sono le protagoniste nella scelta delle decisioni: per
alcuni le deroghe ai minimi collettivi, per effetto del rilievo dato alle
condizioni ambientali e territoriali, costituiscono una forma di
sfruttamento dei lavoratori; per altri un’automatica applicazione delle
tariffe collettive in funzione parametrica nelle zone depresse (qui, tra
l’altro, i rapporti si svolgono in genere tra imprese medio-piccole o
piccole, spesso al di fuori della contrattazione collettiva, e lavoratori
scarsamente o niente affatto sindacalizzati) non può che contribuire ad
6
Piccinini I., Retribuzione ed equità, ADL, 1995, 2, p. 227.
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incrementare il lavoro “sommerso” e a creare ulteriori difficoltà nella
situazione occupazionale.
L’ultimo punto sul quale mi soffermerò sarà la politica della Comunità
Europea per sanare la crisi occupazionale ed in che modo vengano
affrontati problemi s imili negli altri Stati membri.
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CAPITOLO I
IL PRINCIPIO DI SUFFICIENZA DELLA
RETRIBUZIONE, I MINIMI SALARIALI E LA
PARITA’ DI TRATTAMENTO
1.1 Premessa
In questi ultimi anni stanno emergendo diversi problemi connessi alle
più recenti misure, legislative e contrattuali, atte a fronteggiare la crisi
economica e la disoccupazione, specie giovanile, e a fronte delle quali le
esigenze di tutela sottostanti all’art. 36 Cost. ricevono nuova linfa e
vitalità; in particolare mi riferisco alla previsione di accordi che
differenzino il trattamento economico dei lavoratori in base alle diverse
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aree geografiche. In questo ambito i problemi che sorgono sono in
relazione al giusto salario ed alla parità di trattamento.
Ormai, sembra che, a tutti i costi, la retribuzione debba essere piegata
alla “corte della fles s ibilità”
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ed è su questo punto che si crea la dialettica
tra le polit iche dei reddit i, le garanzie della Cos tituzione, le polit iche di
riequilibrio occupazionale territoriale; ma il problema che ne deriva è
quanto possa l’autonomia collettiva elasticizzare le garanzie
cos tituzionali.
Al nostro fine sarà utile soffermarsi sul primo comma dell’art. 36 Cost.
e sul ruolo del contratto collettivo, usato da sempre dalla giurisprudenza
come integrazione dell’articolo costituzionale suddetto, nonché sull’art.3
Cost., per quel che riguarda la parità di trattamento. Questi sono gli
elementi essenziali per chiarire i concetti di retribuzione sufficiente e di
salario minimo, parametri che devono, comunque e sempre, essere
garantit i nell’interes s e del lavoratore.
7
De Luca Tamajo R., Nuovi istituti e funzioni della retribuzione tra flessibilità e
garanzia costituzionali, in Struttura retributiva nel lavoro privato e riforma del
pubblico impiego, a cura di Martinengo E.,Perulli A., Padova 1998, p. 75.
19
1.2 L’art. 36, 1°comma, della Costituzione, id est la
retribuzione sufficiente
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata
alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso
suf f iciente ad assicurare a sé e alla sua famiglia
un’esistenza libera e dignitosa.
Art. 36, 1° comma, Cost..
La Costituzione, essendo la Legge fondamentale destinata a
determinare le linee s trutturali dello Stato, raccoglie tutt i i principi ai
quali è impossibile derogare; in essa è l’unico espresso riferimento al
concetto di retribuzione sufficiente. Mi sembra necessario, prima di
affrontare il tema della fles s ibilità del s alario ris petto alle condizioni
locali, scavare nel significato di questo concetto, sapere quali siano state
le sue interpretazioni , nonchè la sua evoluzione.
La sufficienza contiene il fondamentale significato di assicurare alla
persona del lavoratore la effettiva libertà dal bisogno.
20
Questo concetto si pone come un limite all’autonomia negoziale tra le
parti
8
sia per la sua portata garantistica
9
, che per la sua potenzialità
espansiva in termini personalistici e soggettivi, percepibile distintamente
nel riferimento alla famiglia del lavoratore
10
.
La retribuzione minima sufficiente è, dunque, un connotato essenziale
del diritto di credito dovuto al rapporto di lavoro e non solo un autonomo
diritto personale del lavoratore, per questo l’ordinamento interviene con
l’art. 36 Cost., assegnando al principio sancito una funzione di
sostentamento del lavoratore, che vada oltre il corrispettivo della sua
prestazione.
Viene, così, abbandonata la concezione mercantilis t ica dello s cambio,
tipica dei contratti a prestazioni corrispettive, e con l’art. 36 si pongono le
basi del superamento della struttura sinallagmatica del contratto di lavoro,
8
Ghera E., Diritto del lavoro, Bari 1997, p. 183; Natoli U., Retribuzione sufficiente e
libertà sindacale, RGL, 1952, I, p.256 che, oltre ad indicare l’art. 36 Cost. come uno
dei limiti sostanziali dell’autonomia negoziale collettiva, aggiunge che dovrà esplicarsi
nei modi indicati dall’ art . 39 Cost.; Santucci R., Art. 36 Cost., parità retributiva e
autonomia negoziale, in ADL, 2, 1995, p. 241 ss..
9
Zoppoli L., L’art 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva, in La
retribuzione, Napoli 1994, p. 107, però si chiede se una garanzia rigida sia attualmente
compatibile con l’economia di mercato.
10
Santoro Passarelli F., Nozioni di Diritto del Lavoro, Napoli 1995, p. 218; il quale, tra
l’altro, afferma la necessità di tenere conto non solo dei “bisogni presenti”, ma anche
dei “ fut uri bisogni event uali” del prest at ore.