Negli ultimi decenni, lo studio dell'attenzione ha occupato una posizione
centrale nella ricerca psicologica e neuropsicologica, in particolare nella ricerca di
impostazione cognitivista. In particolare, c’è stata una gran prolificazione di studi
inerenti il legame tra attenzione e coscienza.
Il presente lavoro costituisce un contributo alla ricerca sull’attenzione
partendo dal fenomeno individuato da Raymond, Shapiro e Arnell (1992) e
denominato Attentional Blink (AB). Tale effetto consiste in un una temporanea ma
duratura soppressione dell’elaborazione visiva successiva alla presentazione di un
target in una stringa di stimoli visivi presentati in rapida successione.
Scopo di questo studio è indagare le relazioni esistenti tra il fenomeno e le
funzioni principali dell’attenzione descritte nella teoria di Posner (1980), attraverso il
compito dell’AB e il paradigma sperimentale dell’ANTI.
L’elaborato è strutturato in quattro capitoli. Nel primo sono illustrate le
diverse teorie e prospettive utilizzate per spiegare i processi attentivi e i paradigmi
sperimentali più utilizzati nell’evoluzione storica degli studi sull'attenzione. Sono
inoltre descritte le principali funzioni dell’attenzione: l’attenzione selettiva, la
vigilanza, l’attenzione divisa e la ricerca attentiva. Inoltre è descritta l’evoluzione
delle funzioni attentive nello sviluppo dell’essere umano dall’infanzia all’età matura
e il loro decadimento in età senile.
Nel secondo capitolo sono esposti quelli che vengono considerati, da diversi
autori (Posner e Boies, 1971; Posner e Petersen, 1990; Fernandez-Duque e Posner,
2001; Fan, McCandliss, Sommer, Raz e Posner, 2002), i tre principali sistemi
attentivi con il loro substrato anatomo-fisiologico: il sistema dell’allerta, il sistema
dell’orientamento e il sistema del controllo esecutivo. Sono in seguito illustrati tre
paradigmi sperimentali volti ad indagare il funzionamento dei tre sistemi:
l’Attentional Network Test (ANT; di Fan, McCandliss, Sommer, Raz e Posner, 2002),
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INTRODUZIONE
e la sua evoluzione, l’Attentional Network Test – Improved (ANTI; diCallejas,
Lupiáñez e Tudela, 2004) e una versione dell’ANT ideata per i bambini (Rueda, Fan,
McCandliss, Halparin, Gruber, Lercari, Posner, 2004).
Nel terzo capitolo sono descritte le procedure sperimentali di presentazione
visiva seriale rapida (RSVP) utilizzate negli studi riguardanti i limiti della coscienza
e il fenomeno dell’AB individuato da Raymond, Shapiro e Arnell (1992). In questo
capitolo sono descritte sia le condizioni sperimentali che la possibile interpretazione
data da Chun e Potter (1995) con il modello a due stadi.
Infine il quarto capitolo descrive la ricerca da me effettuata relativamente alle
interazioni tra le reti attentive e il fenomeno dell’AB. Per questo studio sono stati
utilizzati sia un paradigma RSVP che un paradigma ANTI, combinandone i risultati
per ottenere una stima del coinvolgimento delle reti attentive nell’AB.
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CAPITOLO 1
L’ATTENZIONE
Lo studio dell’attenzione occupa un ruolo centrale nella moderna psicologia
cognitiva, risultando essenziale per la comprensione dell’intera attività mentale. Tale
centralità è stata riconquistata in tempi relativamente recenti, infatti, dopo un iniziale
interesse mostrato verso i processi attentivi da parte di fondatori della psicologia
sperimentale quali Donders, Wundt e James, lo studio di tale argomento fu quasi
completamente abbandonato, tanto che fino alla metà del secolo scorso le teorie del
comportamento umano, della mente e delle loro basi biologiche furono formulate
senza ricorrere al concetto di attenzione (Ferlazzo, 1997, 2002).
Ma che cos’è l’attenzione? Questo termine non ha una definizione univoca e
condivisa (Fabio, 2002), appare di fatto multiforme, poiché comprende aspetti
molteplici e viene usata per spiegare situazioni e manifestazioni differenti (Ferlazzo,
1997, 2002), essendo coinvolta in una gran quantità di fenomeni psicologici diversi
tra loro (Stablum, 2002); così come già affermato da Baddeley (1990, p.28)
“qualsiasi tentativo di passare in rassegna la letteratura sull’attenzione porta subito
chi la intraprende alla conclusione che il concetto di attenzione non è affatto
unitario”.
Sternberg (1996) descrive l’attenzione come il fenomeno che ci permette di
elaborare attivamente una quota limitata di informazioni, estratte dalla grande
quantità di input di cui possiamo disporre attraverso i sensi, i ricordi immagazzinati e
gli altri processi cognitivi. Le risorse mentali e la quantità dell’informazione su cui
possiamo focalizzare tali risorse in un determinato arco di tempo risultano infatti
limitate. L’attenzione ci permette di utilizzare tali risorse nella maniera più adeguata,
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Introduzione
indirizzandole verso le informazioni e i processi cognitivi più salienti in un
determinato momento.
Una definizione simile è fornita da Mesulam (1985), secondo il quale
l’attenzione è l’insieme dei processi neuropsicologici che consentono di concentrare
la consapevolezza su aspetti rilevanti dell’ambiente esterno, e al tempo stesso di
inibire altri stimoli distraenti.
Queste definizioni, apparentemente semplici, comprendono l’intera varietà e
complessità di funzioni che vanno dallo stato di o attivazione generalizzata
dell’organismo, alla consapevolezza centrata su stimoli specifici, che prende in
considerazione il concetto di “coscienza” considerato tra i più difficili da trattare
nelle scienze sperimentali (Di Nuovo, 2006). Nella storia della psicologia, attenzione
e coscienza sono state considerate spesso come se fossero la stessa cosa; la
coscienza, come approfondiremo nel paragrafo 1.3, è il fenomeno per mezzo del
quale non solo elaboriamo attivamente l’informazione, ma siamo anche consapevoli
di farlo (Sternerg, 1996).
Altri autori (Umiltà, 1994; Stella, 2000; Fabio, 2002; Ferlazzo, 1997, 2002)
definiscono l’attenzione attraverso i vari aspetti e le diverse dimensioni che la
compongono, pertanto nei prossimi paragrafi sarà presentata una rassegna di tali
componenti.
1.1 Cenni storici
La ricerca sull’attenzione ha un lungo passato e una storia recente molto
ricca. La descrizione di alcuni fenomeni attentivi è già presente in Aristotele (384 -
322 a.C.), il quale sosteneva che stimoli sensoriali forti possono interferire con la
percezione di stimoli sensoriali deboli, domandandosi se fosse possibile percepire
due oggetti nello stesso momento. Tematica ancora presente nelle attuali ricerche di
psicologia cognitiva (Stablum, 2002)
L’inizio della psicologia scientifica come scienza autonoma si fa risalire al
1879, anno in cui Wilhelm Wundt (1832-1920) fondò a Lipsia il prototipo di
laboratorio di psicologia sperimentale (Del Miglio, 1997, 2002). Tra il 1880 e il
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arousal
1920, l’attenzione risultava essere uno dei temi fondamentali di indagine (Stablum,
2002) per le due maggiori correnti di ricerca psicologica di fine Ottocento: da un lato
lo strutturalismo privilegiava la descrizione dei fenomeni di cui siamo consapevoli, i
cosiddetti prodotti dell’attenzione, dall’altro il funzionalismo insisteva sulle
caratteristiche dell’attenzione come processo di selezione attiva ().
Il fine dello strutturalismo era quello di comprendere le strutture della mente
e le sue percezioni per mezzo dell’analisi di queste percezioni nelle loro componenti
costitutive. Il progenitore di questo indirizzo, Wundt, propose come metodo migliore
per analizzare le strutture della mente lo studio dell’esperienza sensoriale attraverso
l’introspezione, ossia un “guardare dentro” le informazioni che attraversano la
coscienza (Sternberg, 1996). Il metodo introspettivo ha fornito informazioni e
proposto concetti considerati validi ancora oggi, sebbene non abbia permesso la
definizione in termini oggettivi delle componenti dell’attenzione. Utilizzando questa
metodologia non è possibile, studiare i processi mentali, in quanto questi accessibili
da parte della coscienza, mentre è plausibile esaminare il prodotto di tali processi
(come la vividezza degli oggetti), e i fattori soggettivi che determinano lo stato di
attenzione (intensità, durata, grandezza, novità dello stimolo). Dunque
dell’attenzione sarebbe possibile descrivere le condizioni e i prodotti (la chiarezza, il
rilievo di pochi elementi consapevoli, l’inibizione di altri), mentre sarebbe difficile se
non impossibile studiarne la dinamica, in quanto processo mentale (Stablum, 2002).
Gli esponenti del funzionalismo ritengono che l’attenzione sia un processo
unitario, attivo, coinvolto in quasi tutte le altre attività mentali poiché ciò che
percepiamo e ricordiamo è ciò su cui l’attenzione è stata focalizzata ().
Nel secondo decennio del novecento, l’emergere di due nuove impostazioni
teoriche, il comportamentismo e la psicologia della Gestalt, segna il declino
dell’interesse per il concetto di attenzione.
Per i comportamentisti, la psicologia, in quanto scienza, deve considerare solo
ciò che è osservabile nel comportamento (Sternberg, 1996), pertanto i processi
mentali, tra cui l’attenzione, non possano essere oggetto di indagine scientifica. Lo
strutturalismo è criticato per la non affidabilità del metodo introspettivo come
strumento d’indagine scientifica poiché non garantisce il controllo e la replicabilità
dei risultati. La psicologia comportamentista illustra il comportamento in termini di
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ibidem
ibidem
stimoli, risposte e formazione di abitudini, senza ricorrere all’uso di termini quali
coscienza, mente, attenzione, volontà, immaginazione e altri. Le ipotesi relative ai
pensieri interni e alle modalità di pensiero sono considerate delle speculazioni,
assimilabili alle argomentazioni della filosofia (Sternberg, 1996; Stablum, 2002).
La psicologia della Gestalt, sviluppatasi in Germania tra il 1912 e il 1935,
periodo in cui dominava il modello scientifico della scuola wundtiana ha come punto
di riferimento polemico l’elementismo e l’introspezione dello strutturalismo (Del
Miglio, 1997, 2002). Infatti il movimento della Gestalt è stato una reazione nei
confronti della tendenza dello strutturalismo a scomporre i processi mentali in
sensazioni elementari ma anche nei confronti dell’analisi del comportamento in
termini di stimolo-risposta tipico dei comportamentisti (Stenberg, 1996). La
diffusione di questo approccio indirizzato alla comprensione delle leggi di
organizzazione alla base dell’esperienza fenomenica non ha concesso molto spazio
allo studio dell’attenzione (Stablum, 2002), sebbene non la escluda dal campo di
ricerca, la riduce a caso particolare di una categoria più vasta. La massima secondo la
quale “il tutto è più della semplice somma delle sue parti”, riassume adeguatamente
la prospettiva gestaltica.
Sul finire degli anni cinquanta, l’interesse per lo studio dell’attenzione,
influenzato negativamente dalla diffusione di questi due approcci, viene rivalutato
per un insieme di motivi. Innanzitutto i comportamentisti capiscono che per spigare il
comportamento non è sufficiente l’analisi in termini di stimolo e risposta. Gli stimoli
e le risposte possibili sono numerosi, perciò gli stimoli vengono selezionati mentre le
risposte non sono sempre prevedibili: risulta necessario fare riferimento
all’attenzione, in quanto l’essere umano seleziona le informazioni da elaborare e la
sua risposta dipende anche dal processo di elaborazione e non esclusivamente dalle
caratteristiche degli stimoli (Stablum, 2002).
A partire dalla seconda guerra mondiale, lo sviluppo tecnologico ha
condizionato i sistemi di comunicazione e introdotto nuovi sistemi di controllo semi-
automatici rivoluzionando il mondo del lavoro. I lavoratori sono coinvolti in
prestazioni nuove, diverse e più complesse, che presuppongono la capacità di trattare
molte informazioni contemporaneamente. Problemi di sicurezza ed affidabilità
rendono necessario stabilire quante informazioni e situazioni un uomo può elaborare
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