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INTRODUZIONE
Questo scritto si propone di coniugare due tematiche che negli ultimi anni, se da un lato
hanno indubbiamente rappresentato il raggiungimento di un importante traguardo all’interno
del panorama giuridico italiano, sono anche state oggetto di numerose disquisizioni e dibattiti,
molti dei quali ancora oggi rimasti irrisolti: l’introduzione della responsabilità “da reato” delle
persone giuridiche, attraverso l’approvazione del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 e l’estensione di
tale responsabilità alle fattispecie colpose di omicidio e lesioni gravissime commesse in
violazione delle norme sulla salute e sicurezza sul lavoro, ad opera dell’art. 25-septies del
medesimo Decreto, introdotto dalla l. 123/2007 e successivamente modificato dall’art. 300 del
d. lgs. 81/2008, cd. Testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
La scelta di approfondire questi aspetti è derivata essenzialmente dalla loro attualità: il
fenomeno della criminalità d’impresa rappresenta ad oggi una realtà non più ignorabile, in
quanto potenzialmente in grado di ripercuotersi su una pluralità di soggetti, quali consumatori,
concorrenti, azionisti e altri investitori, nonché dipendenti e da ultimo anche lo Stato. Quanto
al tema della salute e sicurezza sul lavoro, ciò che emerge dai dati statistici sugli infortuni sul
lavoro degli ultimi anni è un panorama per nulla confortante: prendendo in considerazione gli
ultimi dieci anni
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, è da rilevarsi che se nel periodo 2008-2015 il fenomeno infortunistico aveva
mostrato una costante tendenza alla diminuzione
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, a partire dal 2016 si è registrata
un’inversione del trend, in quanto gli infortuni sono aumentati, stando ai dati ufficiali Inail (che
tuttavia tiene il conto degli incidenti sulla base delle denunce di infortunio e pertanto non
considera gli eventi non denunciati né quelli avvenuti in ambito del cd. lavoro sommerso) e
sono rimasti sostanzialmente stabili nel 2017. Nel 2018 invece, è stato registrato addirittura un
aumento delle denunce di infortunio, rispetto al 2017, pari allo 0,9%.
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Ampliando il periodo di riferimento, in generale si può affermare che a partire dagli anni Sessanta si registra una
tendenziale diminuzione delle denunce degli infortuni sul lavoro, ancor più evidente dagli anni Ottanta in poi.
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In particolare - 8,8% nel 2012, - 6,8% nel 2013, - 4,6% nel 2014 e - 4,0% nel 2015. Il confronto tra il periodo
gennaio-novembre del 2015 e lo stesso periodo del 2016 segnala un aumento delle denunce di infortuni sul lavoro
di circa 5.200 unità, pari ad un + 0,9%. (elaborazione dati Inail, www.truenumbers.it).
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Nel 2018 le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Inail sono state 641.261 rispetto alle 635.433 del 2017.
I dati rilevati al 31 dicembre di ciascun anno evidenziano a livello nazionale un incremento sia dei casi avvenuti
in occasione di lavoro, passati da 539.584 a 542.743 (+ 0,6%), sia di quelli in itinere, occorsi cioè nel tragitto di
andata e ritorno tra l’abitazione e il posto di lavoro, che hanno fatto registrare un incremento pari al 2,8%, da
95.849 a 98.518. Tra gennaio e dicembre del 2018 il numero degli infortuni sul lavoro denunciati è aumentato
dell’1,0% nella gestione Industria e servizi (dai 497.220 casi del 2017 ai 502.156 del 2018) e dell’1,4% nel Conto
Stato (da 104.393 a 105.898, tre quarti dei quali riguardano studenti delle scuole pubbliche statali). In Agricoltura
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Quanto casi mortali, il 2018 è stato un vero annus horribilis: le denunce con esito fatale
hanno registrato un aumento del 10,1% rispetto al 2017
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; in aumento anche le patologie di
origine professionale (+ 2,5%). Nei primi tre mesi del 2019, stando alle stime dell’Osservatorio
Indipendente di Bologna
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, i morti sul luogo di lavoro sono già più di 140, ai quali si devono
aggiungere almeno altrettanti morti sulle strade e in itinere – peraltro, sono proprio gli incidenti
stradali a costituire la prima causa di morte sul lavoro. A fronte di questi dati, secondo i quali
l’Italia vanta una tragica media di tre morti e più di 1750 denunce di infortunio al giorno, appare
evidente che nel nostro Paese la sicurezza sul lavoro rappresenti un tema ancora in via di
sviluppo nonché particolarmente (e drammaticamente) attuale.
Stante la duplicità degli aspetti trattati, si è scelto di strutturare questo lavoro
dividendolo in due parti: la prima, generale, avrà ad oggetto il difficile e contrastato
superamento del dogma dell’irresponsabilità (penale) della persona giuridica, un percorso che
per secoli ha visto contrapporsi ragioni dogmatiche e concrete esigenze di politica criminale e
che nel nostro ordinamento è giunto a pieno compimento soltanto nel 2001, con l’introduzione
della responsabilità, prudenzialmente definita ‘amministrativa’, da reato degli enti, ad opera del
decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, del quale si forniranno le coordinate al fine di
comprendere meglio la complessità della disciplina in esame. Nella seconda parte invece,
saranno illustrate le peculiarità e i profili di criticità della – seppur tardiva – introduzione,
all’interno del catalogo dei reati che possono far scattare la responsabilità ex 231, delle
fattispecie di omicidio e lesioni colpose in violazione delle norme sulla salute e sicurezza sui
luoghi di lavoro, avendo cura dapprima di analizzare i punti di collegamento con la disciplina
di settore (d.lgs. 81/2008) e successivamente dell’aspetto più dibattuto, concernente la loro
si registra invece un calo dell’1,8% (da 33.820 a 33.207). L’analisi territoriale evidenzia un aumento delle denunce
di infortunio nel Nord-Ovest (+1,1%), nel Nord-Est (+2,2%) e al Sud (+0,8%), e un calo al Centro (-0,8%) e nelle
Isole (-1,0%) (elaborazione open data Inail, www.puntosicuro.it).
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Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Istituto nel 2018 sono state 1.133, 104 in più
rispetto alle 1.029 denunciate tra gennaio e dicembre del 2017 (+10,1%) e 39 in meno rispetto ai 1.172 decessi del
2015, che insieme al 2018 si caratterizza per un’inversione di tendenza del trend, comunque decrescente, registrato
negli ultimi anni nel nostro Paese. In quasi tutti i mesi del 2018 il numero delle denunce di casi mortali è stato
superiore rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente.
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L’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro (http://cadutisullavoro.blogspot.com) è stato aperto il
1° gennaio 2008, in memoria dei sette operai deceduti nel rogo avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007
nello stabilimento torinese della ThyssenKrupp, da Carlo Soricelli, ex metalmeccanico ormai in pensione, che ne
è l’attuale curatore. L’Osservatorio è nato al fine di fornire dati, in costante aggiornamento, sulle morti sul lavoro,
tenendo conto anche degli infortuni che si verificano nell’ambito del “lavoro nero” (fenomeno tutt’altro che
trascurabile nel nostro Paese) e ai danni di lavoratori non assicurati.
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compatibilità con il paradigma ascrittivo della responsabilità all’ente, che secondo i più, sarebbe
stato concepito ab origine soltanto con riferimento ai reati dolosi.
Il primo capitolo di questo elaborato vuole indagare il complesso iter che ha portato al
superamento del principio dell’irresponsabilità degli enti: come è noto, se nell’ambito
civilistico l’idea che la persona giuridica potesse costituire un autonomo centro di interessi,
dotato di una sua sostanziale soggettività si è affermata senza particolari difficoltà, per quanto
riguarda il campo penale, il diritto continentale europeo si è sempre dimostrato stato piuttosto
ostile a concepire una forma di responsabilizzazione diretta dell’ente.
Per comprendere meglio le ragioni di questa ostilità, sono state analizzate le teorie sul
concetto di persona giuridica nel diritto romano e nel periodo illuminista, nonché la successiva
elaborazione da parte della Pandettistica tedesca durante l’Ottocento, epoca che ha costituito il
vero e proprio “periodo aureo” del societas delinquere (et puniri) non potest – nonché sono
state evidenziate le questioni dogmatiche che, nel nostro Paese, hanno rappresentato l’ostacolo
più grande al riconoscimento di tale responsabilità: a tal fine, si è ritenuto di inserire un breve
excursus comparatistico, avente ad oggetto il ben più rapido abbandono del dogma in questione
nei Paesi di common law e in particolare nella giurisprudenza delle Corti inglesi, il cui
approccio pragmatico ha consentito di porre le basi per il superamento del societas già a partire
da metà del XIX secolo.
Nella parte finale del capitolo introduttivo ci si è soffermati su due aspetti che, sin dal
momento dell’introduzione della responsabilità degli enti, hanno sollevato notevoli perplessità
e che sono ad oggi dibattuti. Il primo, quello concernente la reale natura della responsabilità in
esame, “vexata quaestio” sulla quale si contendono il campo differenti orientamenti, sia in
dottrina sia in giurisprudenza, riconducibili, in sintesi, a tre diverse ipotesi: un primo
orientamento accetta la qualificazione (prudentemente) fornita dal legislatore, propendendo
per riconoscere la natura amministrativa della responsabilità degli enti; una seconda
interpretazione, al contrario, sostiene la natura sostanzialmente penale della disciplina in esame;
da ultimo, vi è un terzo orientamento che, prendendo atto della peculiarità della normativa,
propende per la sua qualificazione come tertium genus che combina elementi afferenti alla
materia penale e al diritto amministrativo.
In secondo luogo, sono affrontate le conseguenze sulla teoria del reato e in particolare
sulla struttura dell’illecito dell’ente, che dipendono essenzialmente dal modo in cui si sceglie
di configurare la persona giuridica: il paradigma italiano risulta di difficile lettura perché
costituisce il risultato di un’ibridazione delle tre concezioni (antropocentrica, antropomorfica e
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dualistica), in cui l’ente può essere rappresentato, in quanto i criteri di imputazione previsti agli
artt. 5, 6 e 7 del Decreto 231 presentano elementi riconducibili sia alla teoria
dell’immedesimazione organica (modello antropocentrico) sia alla dimensione della colpa
d’organizzazione (modello antropomorfico e dualistico): la questione è interessante anche
perché, come si avrà modo di vedere nella parte conclusiva di questo lavoro, una valorizzazione
della colpa d’organizzazione maggiormente improntata in chiave antropomorfica e il
conseguente riconoscimento di forma una responsabilità “per fatto proprio” dell’ente potrebbe
rappresentare una possibile soluzione anche del problema connesso all’imputazione soggettiva
delle fattispecie colpose di cui all’art. 25-septies.
Il secondo capitolo intende fornire uno sguardo panoramico sul Decreto, trattando degli
aspetti sostanziali e processuali della disciplina della responsabilità degli enti. Cercando
comunque di fornire un quadro sufficientemente dettagliato della normativa, si è scelto di
focalizzarsi, nel corso della trattazione, sugli aspetti che sono stati maggiormente oggetto delle
critiche e delle analisi dei commentatori, a partire dai profili concernenti i destinatari e le
problematiche sollevate dall’applicazione estensiva della disciplina nei confronti delle imprese
individuali e dei gruppi di società, non espressamente richiamati dal Decreto.
Ci si è soffermati con particolare attenzione sui criteri di ascrizione della responsabilità
amministrativa all’ente e in particolare, per quel che riguarda l’imputazione da un punto di vista
oggettivo, sulle diverse possibili chiavi di lettura dei requisiti dell’interesse e del vantaggio;
successivamente, ci si è concentrati sul profilo soggettivo della colpevolezza, intesa soprattutto
in chiave di colpa di organizzazione dell’ente, la quale si atteggia in modo differente a seconda
che il reato sia posto in essere da un soggetto al vertice dell’organigramma aziendale o di un
soggetto subordinato. Pertanto, si scelto di approfondire il ruolo del modello organizzativo
previsto dall’art. 6 del Decreto: il legislatore, prendendo spunto dai compliance programs
statunitensi ma in un certo senso superandoli, ha attribuito una duplice funzione al modello, in
quanto esso, se predisposto ex ante rappresenta per l’ente la possibilità di essere esonerato dalla
responsabilità da reato, mentre, se realizzato post facto, costituisce criterio di attenuazione della
risposta sanzionatoria. Si è cercato di tracciare uno schema di modello organizzativo, al fine di
individuarne in modo puntuale il contenuto e la strutturazione, avendo cura di segnalare anche
la recente introduzione del requisito del cd. whistleblowing, importante strumento di
segnalazione delle irregolarità e dei reati all’interno dell’ente, prevedendo, al fine di
incentivarne la diffusione, forme di tutela nei confronti del segnalante, che spesso rischia di
subire ritorsioni da parte della società – introduzione, anch’essa, che non ha mancato di
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sollevare qualche perplessità. La corretta progettazione del modello tuttavia non è sufficiente,
in quanto occorre anche che esso sia efficacemente attuato: allo scopo, la disciplina prevede la
creazione di un sistema di controllo che deve essere affidato a un Organismo di Vigilanza
interno all’ente che sia dotato di autonomia e indipendenza e di poteri ispettivi, che si occupi
anche dell’adeguamento, in senso dinamico, del modello. Quanto all’O.d.V., sono state
evidenziate anche le perplessità sollevate dalla possibilità, riconosciuta dal legislatore in ottica
di semplificazione, che nelle imprese di piccole dimensioni tale funzione sia affidata allo stesso
organo dirigente, nonché dal fatto che la funzione di vigilanza possa essere svolta da un
organismo già presente all’interno dell’ente con compiti di controllo, quale il Collegio
sindacale.
Un aspetto fortemente criticato concerne anche la valutazione di idoneità del modello,
che costituisce un difficilissimo banco di prova per l’ente: la giurisprudenza, anche a causa
dell’incertezza dei parametri legislativi di riferimento, ha infatti dimostrato un particolare, forse
eccessivo, rigore nella valutazione di questi modelli (a riprova di ciò, è sufficiente richiamare
il celebre caso Impregilo Spa, nonché il fatto che in quasi diciotto anni dall’approvazione del
Decreto 231 non vi sia ancora stata una sentenza di assoluzione della Cassazione in materia di
compliance): ne consegue, da un lato, che gli enti non sono incentivati ad adottare l’oneroso
modello di organizzazione ex ante, ma soltanto ex post, sperando nella riduzione della sanzione
ad esso comminata ed emerge, dall’altro, la tendenza da parte delle società a sottrarsi al
sindacato giudiziale, scegliendo frequentemente di ricorrere al patteggiamento e assumendosi
il costo della sanzione, di fatto vanificando l’importantissima funzione special-preventiva su
cui l’intera disciplina è imperniata.
Nelle ultime due sezioni del secondo capitolo si è trattato dell’apparato sanzionatorio,
illustrando i criteri di commisurazione della sanzione pecuniaria e modalità e tempi delle
sanzioni interdittive, che sono irrogate, unitamente alla sanzione pecuniaria, soltanto ove
espressamente previste dalle singole disposizioni degli artt. 24-26 del d. lgs 231/2001, che
costituiscono il discusso elenco dei reati presupposto la cui commissione da parte di un soggetto
apicale o sottoposto della società, nell’interesse o a vantaggio di questa, è suscettibile di
comportare il riconoscimento della responsabilità in capo all’ente stesso. Con riguardo a
quest’ultimo aspetto, si è dato atto delle numerose aggiunte operate all’originario schema di
decreto legislativo, nonché dei “grandi assenti” (si pensi ai reati tributari) nel composito
scenario delineato dal legislatore, che è stato frequentemente tacciato di peccare di coerenza e
razionalità interna. Da ultimo, ci si è soffermati sui lineamenti della disciplina processuale in
materia di responsabilità degli enti e in particolare sull’esercizio del diritto di difesa e sulla
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necessarietà della costituzione in giudizio dell’ente, non dimenticando di evidenziare le
peculiarità del procedimento di accertamento.
Nella seconda parte di questo scritto ci si è invece occupati del tema della salute e della
sicurezza sui luoghi di lavoro, a partire dalle sue origini, quando la tutela lavoratore era
dapprima rimessa a disposizioni del diritto comune e, successivamente, oggetto di una serie di
leggi speciali (che hanno determinato la stratificazione normativa della materia in esame), fino
a giungere al momento dell’introduzione dell’art. 25-septies all’interno del decreto 231 – il
quale estende ai delitti di omicidio e lesioni colpose in violazione delle norme sulla salute e
sicurezza sul lavoro la disciplina della responsabilità dell’ente – e ancor di più all’approvazione
del d.lgs. 81/2008, il cd. Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, il cui obiettivo
è quello di riformare e razionalizzare la disciplina in materia.
Il Testo Unico peraltro, oltre a riformulare il dispositivo dell’art. 25-septies (la cui
versione originaria del 2007 presentava una serie di punti critici in parte eliminati dal nuovo
dettato normativo), contiene una disposizione che fa specifico riferimento alla disciplina della
responsabilità amministrativa da reato: l’art. 30, infatti, si occupa di specificare il contenuto del
modello di organizzazione affinché esso possa essere ritenuto idoneo in sede di valutazione da
parte del giudice con riguardo alle ipotesi di omicidio e lesioni colpose di cui all’art. 25-septies
d.lgs. 231/2001; la previsione in esame richiede che sia svolta un’operazione di coordinamento
tra le due discipline, al fine di comprendere se i requisiti indicati dall’art. 30 debbano essere
interpretati in chiave derogatoria o integrativa rispetto alla disciplina generale del modello a
fini esimenti previsto dal “microcodice 231”.
A tal proposito, molte sono le perplessità che solleva l’ineludibile confronto tra le due
discipline in tema di modello: solo per citarne alcune, si è discusso circa l’opportunità di inserire
una disposizione concernente in modo specifico lo strumento del modello ex 231 nel Testo
Unico invece che, più opportunamente, nel Decreto 231; inoltre, orientamenti contrastanti si
sono espressi anche con riguardo alla presunzione di conformità (ai requisiti di cui all’art. 30)
dei modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida UNI-INAIL
per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001 o
al British Standard OHSAS 18001:2007 – che peraltro a breve sarà sostituito dalla nuova ISO
45001; da ultimo, il dettato dell’art. 30 riporta in auge <la questione circa l’obbligatorietà
dell’adozione del modello, prevalentemente negata (anche dalla giurisprudenza) con riguardo
al modello generale ex decreto 231, ma non così pacifica in materia di saluta e sicurezza, ove
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vi è chi ritiene che la norma in questione introduca un vero e proprio obbligo ex lege di
adozione.
Nell’ottica di fornire una comparazione quanto più possibile esaustiva, pur nella
consapevolezza di non poter approfondire in questa sede l’intero impianto del d.lgs. 81/2008,
si è cercato di presentare il contenuto degli obblighi di cui è richiesto l’adempimento ai fini di
costruire un (almeno astrattamente) idoneo modello di organizzazione in materia di salute e
sicurezza, evidenziando le sovrapposizioni e gli aspetti di differenziazione con il contenuto del
generale dovere di diligenza del datore di lavoro e con quello del modello ex art. 6 d.lgs.
231/2001.
Nel capitolo conclusivo di questo lavoro invece, ci si è soffermati sull’aspetto più
problematico dell’introduzione delle fattispecie di cui all’art. 25-septies all’interno della
responsabilità amministrativa da reato degli enti: come è noto, il legislatore ha inserito i delitti
colposi in materia di salute e sicurezza sul lavoro all’interno di un sistema che, secondo i più,
era stato calibrato sul fattispecie dolose; tuttavia, nonostante la differente natura degli illeciti in
questione, non è in alcun modo intervenuto per modificare i criteri di ascrizione della
responsabilità all’ente, nonostante abbia avuto ben più di un’occasione per provvedere in modo
risolutivo sulla questione.
A fronte del silenzio del legislatore, il compito di risolvere la criticità è stato interamente
lasciato alla giurisprudenza, che ha unanimemente ribadito la compatibilità del criterio
oggettivo d’imputazione di cui all’art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001 con i delitti colposi introdotti
dall’art. 25-septies, al fine di evitare l’abrogazione cui sarebbe andata incontro la novità
legislativa introdotta nel 2007. In particolare, nonostante le pronunce giurisprudenziali seguano
percorsi argomentativi differenti, è stato rilevato che tutte le ricostruzioni prospettate sono
accomunate dalla scelta di riferire i criteri dell’interesse e vantaggio non all’evento
concretamente realizzatosi, bensì alla condotta inosservante delle norme prevenzionistiche a
tutela della salute e sicurezza.
Ciò ha comportato, in dottrina, il levarsi di un coro di critiche: a fianco
dell’impostazione più rigorosa, che sostiene sic et simpliciter l’incompatibilità e l’ontologica
inconciliabilità dell’art. 25-septies con i criteri oggettivi di imputazione delineati dal d.lgs.
231/2001, l’opinione maggioritaria concorda con la necessità di una riformulazione (o quanto
meno, una rilettura) per via ermeneutica del paradigma ascrittivo in modo tale da renderlo
compatibile con i reati colposi: nel solco di questo orientamento però si collocano posizioni
variegate, che cercano di individuare soluzioni alternative all’esegesi che propone di rapportare
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l’interesse e il vantaggio alla sola condotta dell’evento, rilevando i punti critici di
quest’interpretazione, la quale sembra comunque rappresentare l’unico punto fermo delle
ricostruzioni giurisprudenziali fino ad ora avanzate.
A ben vedere, la stessa giurisprudenza, pur fondando le argomentazioni delle sentenze
in materia sempre sulla necessità di riferire i criteri di imputazione alla condotta tenuta dal reo,
non è unanime nel riconoscere la preminenza dell’uno o dell’altro criterio, propendendo talora
per valorizzare l’interesse e talora per accordare autonoma rilevanza al requisito del vantaggio,
inteso nell’accezione di risparmio di spesa e di tempi operativi: si è perciò ritenuto necessario
richiamare le pronunce più significative sul tema e in particolare, l’orientamento espresso dalle
Sezioni Unite nella sentenza sul caso ThyssenKrupp, al quale la giurisprudenza successiva si è
sostanzialmente conformata, pur fornendo alcune ulteriori precisazioni.
Infine, si è dato atto di un ulteriore profilo di difficile conciliabilità che è stato rilevato,
sia in dottrina che in giurisprudenza, con riguardo alle fattispecie colpose, concernente la
compatibilità dell’elusione fraudolenta del modello da parte del soggetto apicale che realizza il
reato, prevista quale elemento di cui l’ente deve dare prova ai fini dell’esonero dalla
responsabilità: in questo caso, la dottrina è divisa tra chi propende per la disapplicazione
dell’esimente in esame ai reati colposi e chi afferma, nuovamente, la necessità che essa sia
valutata con riferimento alla condotta del reo, ben potendosi immaginare casi in cui l’autore
dell’illecito agisca (eludendo fraudolentemente una norma cautelare) nella consapevolezza
della pericolosità del suo comportamento, pur confidando nel fatto che l’evento non si
verificherà.