2
Preliminarmente deve accertare la sua competenza e poi la
legittimazione del richiedente, quindi i presupposti della dichiarazione
di fallimento.
Sappiamo che tali presupposti sono, dal lato soggettivo, la qualità di
imprenditore commerciale (purchè non si tratti di piccolo imprenditore
o di ente pubblico ) e dal lato oggettivo, lo stato d’insolvenza e cioè
l’incapacità di soddisfare regolarmente alle proprie obbligazioni.
Per la dichiarazione di fallimento non basta che il tribunale non possa
escludere l’esistenza dei suoi presupposti ma occorre che abbia
positivamente conseguito il convincimento della loro esistenza.
Se manca uno di questi presupposti, il tribunale non può dichiarare il
fallimento e deve rigettare l’istanza.
Il tribunale provvede con decreto e poiché questo non forma cosa
giudicata può sempre riproporsi l’istanza, corredata di nuovi
elementi. Il creditore inoltre ha possibilità di reclamo alla corte di
appello.
Tuttavia, la proposizione dell’istanza, come si vedrà nei paragrafi
successivi, costituisce di per sé un danno per l’imprenditore debitore
3
di cui si è chiesto il fallimento, perché ingenera allarme fra i suoi
creditori, determinando gravi conseguenze sul piano commerciale,
professionale e privato.
Tutto ciò, quindi, fa sorgere un problema di responsabilità per il
creditore istante.
E’ necessario, però, sottolineare che il legislatore non ha preso in
considerazione tale fattispecie e ciò ha portato ad una proliferare di
teorie che da oltre mezzo secolo non hanno partorito una soluzione
unanime.
2. Presupposti della responsabilità in caso di
revoca della sentenza dichiarativa di
fallimento
La revoca della sentenza costituisce la conseguenza
dell’accoglimento dell’opposizione, diretta a contestare la validità del
titolo, fatta contro la sentenza che dichiara il fallimento, dinanzi allo
4
stesso tribunale che ha emesso la pronuncia, dal debitore o da
qualunque interessato (che non abbia chiesto la dichiarazione di
fallimento) entro quindici giorni dalla notifica della sentenza (per il
debitore) o dall’affissione della sentenza (per gli altri interessati).
L’opposizione può essere fondata sulla mancanza dei presupposti
del fallimento, per l’inosservanza del termine di cui agli artt. 10 e 11
L. fall. , nonché per violazione del diritto di difesa, e per altri gravami
di natura processuale.
Il tribunale (o la corte d’appello) decide con sentenza e la revoca del
fallimento diviene efficace solo col passaggio in giudicato della
sentenza che la dispone, con efficacia retroattiva.
La revoca fa sorgere una serie di complessi problemi regolati dall’art.
21 L. fall., con una disposizione che però lascia adito a numerosi
dubbi:
a) Il principio della restituzione in pristino e i suoi limiti
Innanzitutto l’imprenditore ha diritto di ottenere la restituzione del
patrimonio nelle condizioni in cui lo stesso si trovava al momento
della ingiusta dichiarazione di fallimento.
5
Tuttavia, l’efficacia retroattiva, per quanto riguarda gli effetti
patrimoniali del fallimento, viene in concreto sostanzialmente limitata
dallo stesso disposto del primo comma dell’art. 21 L. fall.
Il problema sta in ciò che la dichiarazione di fallimento produce di per
sé modificazioni che risultano irreversibili.
Infatti non è concepibile che dopo la revoca i rapporti giuridici, che si
sono automaticamente sciolti con il fallimento, possano riacquistare
efficacia, laddove la prestazione sia divenuta impossibile o l’altra
parte non vi abbia più interesse.
Per quanto riguarda, poi, gli atti compiuti dagli organi del fallimento,
va presa in considerazione l’esigenza di tutela dei diritti dei terzi in
buona fede e, più in generale, di tutti coloro che abbiano intrattenuto
rapporti con l’amministrazione fallimentare nel suo complesso.
In questi casi la legge afferma che se tali atti sono stati legalmente
compiuti, i loro effetti restano salvi ex art. 21, 1° co. L. fall.
La salvezza è circoscritta, dunque, agli atti legalmente compiuti, cioè
agli atti compiuti con l’osservanza delle disposizioni di legge, per cui
non opera quando ciò non sia avvenuto, ad es. perché il curatore
6
non ottenne l’autorizzazione o non sentì il parere del comitato dei
creditori.
b) Le spese della procedura ed il compenso al curatore.
Il risarcimento dei danni.
Il secondo aspetto è quello dell’onere relativo al compenso del
curatore ed al rimborso delle spese da esso effettivamente sostenute
nell’adempimento dell’incarico, onere che incombe sul creditore
istante che sia stato condannato al risarcimento dei danni per aver
chiesto la dichiarazione di fallimento con colpa.
Il problema infatti è proprio quello di individuare il fondamento di tale
responsabilità, data la genericità della lettera del legislatore.
Altro problema è invece quello di stabilire su chi debbano gravare
spese e compenso al curatore quando non vi sia stata condanna del
creditore istante.
1
1
FERRARA JR. BORGIOLI, Il fallimento, V edizione, Milano, 1995, pag. 244 e ss.
GRAZIANI MINERVINI BELVISO, Manuale di diritto commerciale, Napoli, 1994,
pag. 672 e ss.
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Capitolo 2
LA REVOCA
1. Premessa
Nel caso di accoglimento dell’opposizione e, conseguentemente, di
revoca della emessa dichiarazione di fallimento, gravi dubbi sono
sorti in passato, e permangono tuttora, su alcuni specifici punti
concernenti l’onere delle spese e la responsabilità del creditore
istante.
Nel vigore dell’abrogato codice di commercio e della legge del 1930
si ritenne che il creditore che aveva provocata la dichiarazione di
fallimento fosse tenuto non solo a rifondere al curatore le spese e gli
onorari, ma al risarcimento dei danni verso il debitore dichiarato
Orientamento di
dottrina e
giurisprudenza
al tempo del
codice di
commercio
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fallito, prescindendo dalla sua qualità di commerciante o meno, in
quanto contrariamente all’avviso espresso in qualche isolato
pronunciato di merito, si considerò che dalla dichiarazione di
fallimento, poi revocata, ne risultava scosso anche il credito del non
commerciante.
Circa il fondamento del riconosciuto diritto al risarcimento dei danni
varie teoriche si andarono elaborando.
Un’autorevole corrente dottrinaria, che ebbe largo seguito anche in
giurisprudenza, ritenne che ai fini del risarcimento del danno si
dovesse far ricorso ai criteri regolatori della risarcibilità del danno
aquiliano, nel senso che bastasse anche una colpa lieve per far
luogo a risarcimento, e cioè anche la semplice mancanza di diligenza
o prudenza.
Di fronte ad un tale orientamento, in relazione al quale il creditore era
tenuto a rispondere dei danni subiti dal fallito anche se avesse agito
con colpa lievissima, si andò sviluppando l’altro del tutto opposto, in
quanto improntato ad un maggiore rigore. Per esso non era più
sufficiente la colpa grave, ma si richiedeva ai fini del risarcimento
9
l’intenzionalità dolosa dell’istante di danneggiare il debitore,
sorprendendo la buona fede del tribunale. Soluzione estrema, che
ebbe scarso seguito.
A cavallo di queste due teorie se ne formò una terza che
contemperando gli opposti interessi del creditore, di chiedere la
dichiarazione di fallimento del proprio debitore, e del commerciante
di non essere turbato nello svolgimento della sua attività
commerciale, ritenne che si dovesse ammettere l’azione di danni
contro il creditore istante solo nel caso di dolo, o di colpa grave,
quando cioè nella condotta del creditore si fosse riscontrata
imprudenza o negligenza manifesta, tali che una persona normale,
munita di prudenza o diligenza media, non avrebbe posto in essere.
Altri, infine, invocavano il criterio della temerarietà della lite di cui
all’art.370 dell’abrogato codice di rito civile, nel senso che si riteneva
proponibile l’azione di danni nel solo caso in cui la dichiarazione di
fallimento fosse stata provocata avventatamente senza titolo e
senza la ragionevole consapevolezza di una giusta causa.
10
Tali erano gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza
allorquando entrò in vigore la nuova legge fallimentare, che con l’art.
21 L. fall. intese risolvere i problemi che la revoca della dichiarazione
comporta.
Ma il proposito affermato con tanta sicurezza nella relazione che
accompagna tale legge, non ha trovato adeguata rispondenza nel
dettato della norma, che nel terzo comma dell’art. 21 L. fall. si limita a
dichiarare che << le spese di procedura ed il compenso al curatore
sono a carico del creditore istante, che è stato condannato ai danni
per aver chiesto con colpa la dichiarazione di fallimento >>.
Avuto riguardo al tenore di tale disposizione, il creditore che abbia
provocata la dichiarazione di fallimento, poi revocata, in tanto potrà
essere tenuto ai danni e conseguentemente alle spese processuali
ed al compenso al curatore, in quanto abbia agito con colpa.
Il dettato della norma ha così aperto l’adito a dubbi che tuttora
permangono e che solo un’esplicita disposizione di legge potrà
definitivamente risolvere.
Entra in vigore la
Legge
Fallimentare
11
Il problema della responsabilità del creditore che ha provocato il
fallimento del suo debitore, poi revocato, involge una duplice
indagine, l’una pregiudiziale, relativa alla natura giuridica di tale
responsabilità, e cioè se aquiliana o processuale, e l’altra
concernente il grado di colpa richiesto per l’affermazione di detta
responsabilità.
2. Indagine pregiudiziale sulla natura della
responsabilità
Sulla natura giuridica di tale responsabilità, due sono gli orientamenti
in netto contrasto che tengono campo.
2
Secondo un primo orientamento si tratterebbe di colpa
extracontrattuale, detta anche colpa aquiliana (dalla legge Aquilia
riguardante il danno dato alle cose altrui) che si avvera quando viene
2
Diritto fallimentare, 1967, pag.195, La dichiarazione di fallimento e la
responsabilità del creditore istante, di B. LIGUORI
Il problema della
responsabilità
comporta una
duplice indagine
1) Responsabilità
civile ex art. 2043
C.c.
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recato danno non intenzionale ad una persona, verso la quale non si
è legati da un vincolo obbligatorio precedente.
3
La legge infatti parla di colpa nel richiedere il fallimento e cioè di
inosservanza della diligenza del buon padre di famiglia, o della
normale prudenza, quindi non c’è nessuna ragione per intendere
colpa come colpa grave, né può invocarsi l’art. 96 cpc quando la
legge fallimentare ha regolato appositamente la questione in modo
diverso.
4
Il secondo orientamento, partendo dall’assunto che l’iniziativa del
creditore costituisce esercizio di azione, propende per la natura
processuale della responsabilità. Ed è questa la tesi che incontra il
più largo consenso proprio perché, prevedendo la condanna ai danni
per aver chiesto la pronuncia con colpa, la norma in questione
stabilisce tale conseguenza quale effetto dell’attività processuale
esplicata richiedendo l’apertura della esecuzione concorsuale.
3
Diritto fallimentare, 1961, pag.5, Concetto di “colpa” del creditore istante in caso
di revoca della sentenza dichiarativa (art. 21, comma 3, legge fallim.) di G. DE
SEMO
4
FERRARA JR. BORGIOLI, Il fallimento, Milano, 1995, pag. 266
2) Responsabilità
processuale ex art.
96 cpc
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3. Il grado della colpa richiesto
Altrettanto vivo permane il contrasto sul grado della colpa richiesto
per l’affermazione di tale responsabilità. Tale indagine risente infatti
dell’impostazione teorica circa la natura giuridica della responsabilità.
Se infatti si sostiene che la responsabilità dell’istante deriva da fatto
illecito, è cioè aquiliana, sarà sufficiente la “colpa lieve” (culpa levis),
che consiste nell’aver mancato alla diligenza del buon padre di
famiglia riguardante il tipo astratto dell’uomo medio.
Nell’ambito di questa tesi, poi, alcuni ritengono applicabile anche la
colpa lievissima, sia perché ci aggiriamo nel campo della colpa
aquiliana, sia perché il creditore per lo più ha veste di imprenditore
commerciale, da cui ci si può pretendere somma cautela e prudenza
prima di cimentarsi in una istanza per la dichiarazione di fallimento
del suo debitore.
5
Ma si tratterebbe di una stretta minoranza, dal
5
Diritto fallimentare, 1961, pag.11, nota di DE SEMO
Nella
responsabilità
civile basta la
colpa lieve
14
momento che la colpa lievissima è considerata irrilevante nel nostro
ordinamento.
6
Se, invece, si sostiene la tesi della responsabilità processuale, deve
sottolinearsi il fatto che non è univoca l’applicazione dell’art. 96 cpc,
perché alcuni propendono per l’adozione del primo comma, altri per il
secondo comma e altri ancora per un’applicazione differenziata del
primo e del secondo.
a) Occorre la colpa grave ex art. 96 1° comma
La dottrina maggioritaria ritiene che il creditore debba essere
condannato alle spese ed al compenso solo quando abbia agito con
colpa grave.
7
Questa tesi sarebbe da preferire in quanto l’iniziativa del creditore è
servita solo da <<stimolo>> per il tribunale che deve appurare
l’esistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento. Così il
creditore è responsabile solo se i fatti da lui prospettati si sono
6
PAJARDI, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1998, pag.132
Giurisprudenza italiana, 1962, pag.100, Cass. civ. 21 luglio 1960 n. 2061, nota di
G.U.TEDESCHI.
7
PAJARDI, commento all’art. 21 l. fall.
SATTA, Istituzioni di diritto fallimentare, VI edizione, Padova, 1974, pag. 97
Nella
responsabilità
processuale si
discute sul comma
da applicare
La prima tesi
propende per il
primo comma
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rivelati falsi o inesatti e di tale falsità od inesattezza egli era a
conoscenza oppure, nel corso del processo di opposizione, egli ha
attuato una temeraria proposizione di eccezioni o gravami dopo che
si sia avuta la prova della mancanza dei presupposti per la
dichiarazione di fallimento.
8
Anche Provinciali riconduce la responsabilità dell’istante al 1° comma
dell’art.96 ma per un motivo differente. Egli parte dall’assunto che il
creditore, chiedendo il fallimento, si fa gestore anche dell’interesse
pubblico e di categoria quindi la sussistenza di colpa deve essere
assodata con particolare circospezione per non scoraggiare il privato
dall’ottemperare a un siffatto onere. Inoltre nel configurare la
responsabilità si può tenere anche conto del comportamento
successivo all’istanza, e in particolare della temeraria proposizione di
eccezioni e di gravami sollevati nel giudizio di revoca, dopo acquisita
la prova della mancanza di presupposti per la dichiarazione di
fallimento.
9
8
CUNEO, Le procedure concorsuali, Milano, 1988, pag. 321
9
PROVINCIALI, Manuale di diritto commerciale, pag. 628