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ormai vecchie e logore logiche in cui diversi partiti, ancora oggi, sono costrette a fare i
conti.
Si analizza la nascita di questo movimento, come si è sviluppato in questi anni, si
approfondiscono i temi riguardanti la campagna elettorale che segnerà la vittoria della
coalizione di centro – sinistra alla guida della Regione e si esaminerà il lavoro portato
avanti dalla Giunta e dal Consiglio regionale in questi due anni trascorsi dall’inizio della
tredicesima legislatura.
Infine si darà conto di alcune interviste compiute con due esponenti regionali del
movimento politico e con l’unico sindaco in Sardegna espresso dal movimento in
questione.
Il fine di questo lavoro vorrebbe essere quello di argomentare, il più possibile, come si
possa “governare” un’esigenza reale di cambiamento, di rinnovamento e di mutamento
nei modi di fare politica partitica e come tutte queste esigenze, per un certo periodo di
tempo nella storia autonomistica della nostra regione, siano state incarnate da un piccolo
movimento di privati cittadini che, decidendo di porre in essere un’associazione aperta a
tutti e illustrando delle serie proposte e delle idee di cambiamento, hanno fatto si che la
politica vera e propria ritornasse nei luoghi e nelle situazioni più consone in cui parlare
e confrontarsi con tutti.
5
Capitolo I
LA POLITICA IN GENERALE DAL 1992
AI GIORNI NOSTRI
1.1 Dal crollo del vecchio sistema all’alternativa Berlusconi.
Il crollo del vecchio sistema dei partiti aveva determinato la totale disfatta della DC e
del PSI.
1
Ad evidenziare lo sconvolgimento prodotto dalla magistratura nei confronti di
questi ultimi è sufficiente tener conto del fatto che Craxi, Andreotti e Forlani, i quali
ancora agli inizi del 1992 sembravano avere in pugno le sorti del paese, vennero tutti
sottoposti a procedimenti giudiziari: il primo divenuto di fronte all’opinione pubblica il
simbolo dell’intreccio tra partiti e corruzione; il secondo – l’uomo politico che più a
lungo nella storia repubblicana aveva occupato posizioni di potere ed era stato per sette
volte Presidente del Consiglio – chiamato a rispondere di collusione con la mafia.
Mentre il PSI, dopo le dimissioni di Craxi da suo segretario, ondeggiava in una crisi
senza sbocchi e dalla DC, ufficialmente sciolta nel gennaio del 1994, prendeva origine il
secondo Partito Popolare italiano dei cattolici; mentre nasceva dal vecchio MSI un
nuovo soggetto politico, Alleanza Nazionale con l’intento di legare alla destra forze che
andassero oltre i neofascisti, la sinistra e i democratici di varie correnti diedero vita allo
schieramento dei “Progressisti”. Questa coalizione – per quanto assai eterogenea, poiché
univa Rifondazione Comunista, il PDS, una parte dei socialisti, la Rete, Alleanza
Democratica e alcuni esponenti cattolici – sembrava presentare le maggiori probabilità
di vittoria, avendo di fronte a sé il crollo del vecchio centro e una netta divisione tra la
Lega, radicata nel Nord, federalista e antimeridionale e la destra nazionalista, centralista
e radicata nel Sud e decisamente avversa al programma leghista. Per fronteggiare quella
che le forze ostili ai Progressisti avvertivano come una condizione di emergenza e di
vero e proprio pericolo, “scese in campo”, pochi mesi prima delle elezioni, Silvio
Berlusconi.
Alla vigilia delle elezioni del 1994, l’ingresso di Berlusconi nella competizione
elettorale mutò radicalmente e in maniera estremamente rapida lo scenario, mostrando
quanto precari fossero gli schieramenti in quell’epoca di crisi del sistema dei partiti
tradizionali.
In un paese nel quale la lotta tra il “vecchio” e il “nuovo”, non senza un abuso di
confusa retorica, dominava la scena essendo divenuto un idolo intoccabile, Berlusconi
con prontezza e forte intuizione cavalcò l’onda novista e la trasformò nella propria
catapulta. Espressione del “vecchio”, si presentò come incarnazione del “nuovo”; e potè
farlo solo perché non era mai stato un politico. Amico intimo di Craxi, a cui doveva in
parte sostanziale il suo successo di imprenditore, membro della loggia segreta P2
guidata da Licio Gelli, tipico esponente dell’imprenditorialità d’assalto milanese che
aveva posto le proprie speculazioni e imprese sotto lo scudo protettore dell’intreccio tra
politica e affari, egli sventolò la bandiera del rinnovamento.
In una situazione in cui l’intervento statale nel campo produttivo e in quello dei servizi
generava ormai una diffusa insofferenza a causa degli sprechi, dell’inefficienza e dei
costi enormi, Berlusconi giocò efficacemente la parte dell’imprenditore privato di
1
Su questo passaggio storico della politica italiana cfr. M. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime:
saggio sulla politica italiana 1861 – 2000, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 129 – 137.
6
successo, che doveva la sua ascesa ai propri meriti individuali ed era in grado di ridare
al sistema efficienza e dinamicità secondo le regole del liberismo.
Dunque, si presentò come un “uomo nuovo”, il candidato ideale a guidare il processo di
trasformazione a cui aspirava la maggioranza degli italiani. Che cosa ci fosse dietro
all’apparenza dell’uomo nuovo venne efficacemente coperto dalla macchina
propagandistica di cui Berlusconi poteva disporre in quanto proprietario monopolistico
delle grandi reti televisive private e inoltre di numerosi quotidiani e periodici: divenuto
tale proprio grazie alla protezione dei suoi amici politici già potenti e ora nella polvere e
ad una legislazione di privilegio senza riscontri in un altro paese democratico, poiché in
netto contrasto con i principi rivolti ad impedire un eccessivo controllo
sull’informazione da parte di un unico centro imprenditoriale. Furono in maniera
determinante proprio questo controllo sulle televisioni private a raggio nazionale, il
possesso di una quota importante della stampa e persino di una grande squadra di calcio
con la sua tifoseria, che consentirono a Berlusconi di entrare in politica in maniera
sorprendentemente efficace, raggiungendo e influenzando in maniera quanto mai rapida
grandi masse. L’imprenditore di successo si fece garante del successo del paese e venne
largamente e sinceramente creduto.
Grazie, insomma, a grandi mezzi finanziari e tecnici, Berlusconi costruì, con celerità ed
efficienza, Forza Italia: un movimento politico di tipo inedito nel quale il nucleo dei
quadri e degli attivisti era fornito non già da un personale tradizionalmente politico,
bensì principalmente da uomini dell’azienda (tecnici della pubblicità, giornalisti, attori
ecc.) messisi o messi al servizio del padrone – capo divenuto ora leader politico. La
propaganda si fece massiccia, martellante, semplificata, ispirata alla rigida
contrapposizione amico/nemico e alla diffusione di un clima di “allarme”. La “guerra
ideologica” trovò così una rinnovata espressione. Il suo mezzo primario furono le reti
televisive al servizio del leader politico che ne era il proprietario. Queste reti ebbero per
la formazione del consenso e la mobilitazione politica delle forze collegatesi a Forza
Italia il ruolo che per la sinistra avevano avuto tradizionalmente le sezioni di partito e
per la Democrazia cristiana le parrocchie e le sedi delle organizzazioni cattoliche. Le
antenne televisive fecero nel 1994 a favore del movimento di Berlusconi un miracolo
analogo a quello compiuto a beneficio della DC dai Comitati civici di Gedda nel 1948.
La campagna berlusconiana di tono accentuatamente populistico immise nella storia
delle competizioni elettorali un modello “videocratico” – fondato sulla persuasione –
che non aveva mai avuto precedenti.
Dal punto di vista dello schieramento politico che nelle sue diverse componenti si
opponeva ai Progressisti, Berlusconi colmava un vuoto essenziale: quello lasciato libero
dal crollo della DC, dei partiti minori di centro e di una parte significativa del PSI, nella
quale lo spirito affaristico aveva messo profonde radici e l’ostilità nei confronti del PDS
era profondissima. L’imprenditore milanese puntò decisamente sulla costruzione di un
nuovo Centro. Egli riuscì così a compiere tre operazioni fondamentali: la prima fu di
dare un punto di riferimento a molta parte dell’elettorato che in precedenza si rivolgeva
ai partiti tradizionali di governo; la seconda, di consentire all’ala più conservatrice della
DC di trovare un insperato ancoraggio che non avrebbero potuto offrirle né la Lega né,
se non in misura marginale, la destra; la terza, di costruire, grazie alla sua mediazione,
un ponte tra la Lega settentrionale e la destra meridionale fino ad allora in
contrapposizione frontale. Lega, Forza Italia, cattolici conservatori, comprendendo che
senza un’intesa sarebbero stati battuti per effetto della legge maggioritaria, superarono
divergenze che apparivano insuperabili e formarono un’articolata coalizione capace di
opporsi con serie prospettive di successo a quella dei Progressisti. Agendo, appunto,
come ponte, Forza Italia formò al Nord il Polo delle Libertà con la Lega e al Sud il Polo
del Buongoverno con Alleanza Nazionale. Così la Lega, Forza Italia e AN fecero il loro
“compromesso storico”, avendo il vantaggio, di fronte ad un’opinione pubblica che
7
viveva come un dramma la lotta tra il “vecchio” e il “nuovo”, di poter presentarsi
formalmente tutte come forze “nuove” sia per non aver mai governato, sia per non aver
mai partecipato al passato sistema consociativo.
La coalizione tra la Lega, Forza Italia e la destra aveva assoluto bisogno di trovare un
cemento ideologico, che desse al matrimonio di interesse segnato da grandi contrasti,
una base unitaria di attacco. Questa fu trovata nel rilancio dell’anticomunismo e della
minaccia del “pericolo rosso”.
La campagna ebbe successo. Berlusconi riuscì a convincere la maggioranza
dell’elettorato che esisteva un’alternativa non solo di governo ma di sistema realmente
nuova al sistema in disfacimento. Mentre agitava il pericolo di un governo dominato dai
comunisti in un mondo che aveva assistito al crollo del comunismo, egli promise un
secondo miracolo economico fondato sul liberismo visto come antidoto alle
devastazioni prodotte dallo statalismo e dal consociativismo tra vecchi partiti di governo
e comunisti. Il leader di Forza Italia portava così nel nostro paese il vento che la
Thatcher e Reagan avevano in precedenza fatto soffiare in Gran Bretagna e negli Stati
Uniti, traendo beneficio dalle malefatte di un esausto arcipelago statalistico.
Berlusconi riuscì, dunque, ad ottenere il consenso della maggioranza dei conservatori,
dei moderati e di una parte notevole degli ex – socialisti e socialdemocratici rimasti
privi delle loro rappresentanze tradizionali, svolgendo sotto questo profilo nel 1994 un
ruolo analogo a quello rappresentato dalla DC nel secondo dopoguerra.
Il PDS e con esso i Progressisti furono accusati di essere al tempo stesso il veicolo di
una minaccia neocomunista e i sostenitori di una politica economica moderata, basata
non già sulla fiducia nello sviluppo ma sul suo contenimento e sul fiscalismo.
Le elezioni del marzo del 1994 diedero risultati clamorosi. Forza Italia alla Camera
diventò, grazie al contributo determinante del voto giovanile, il primo partito con il 21
per cento e la coalizione con la Lega (8,4) e AN (13), conquistò la vittoria. Al Partito
popolare, erede della DC, andò l’11,1; al PDS, secondo partito, il 20,4 e Rifondazione
comunista ottenne il 6. In totale lo schieramento vincente di centro – destra totalizzò il
42,9 per cento dei voti; ma esso conseguì complessivamente, in virtù del nuovo sistema
elettorale, la maggioranza assoluta dei 366 seggi, mentre i Progressisti ne totalizzarono
213. Diverso fu l’esito al Senato, dove il centro – destra, grazie al mancato apporto del
voto giovanile, raggiunse la maggioranza relativa ma non quella assoluta.
Il risultato delle elezioni segnò così una netta sconfitta per la sinistra italiana che, per la
terza volta nella storia d’Italia, dopo essere stata in un primo tempo rafforzata dal
cedimento dei vecchi partiti di governo nel corso di una crisi del sistema politico, non
resistette alla ristrutturazione delle forze avversarie, le quali misero in atto un ampio
movimento volto sia a sostituire con soggetti nuovi quelli esauritisi, sia a riunire intorno
a sé una parte determinante della base sociale di questi ultimi. Particolarmente grave per
la sinistra fu lo sfondamento operato da Forza Italia e dalla Lega nel Nord industriale,
dove ampi strati popolari abbandonarono il campo della loro tradizionale rappresentanza
parlamentare e una maggioranza di giovani delusi nelle loro aspettative diede il
consenso allo schieramento guidato da Berlusconi. La vittoria del centro – destra ebbe
in ogni caso un significato importante. Per la prima volta nella storia italiana, uno
schieramento diede vita ad un’alternativa di governo coincidente si al crollo del sistema
politico precedente, ma non con il crollo dello Stato.
8
1.2 La promessa di stabilità e la caduta del primo governo di centro –
destra
Il sistema elettorale maggioritario nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto favorire il
bipolarismo, quale condizione della formazione di governi stabili. Il tipo di sistema
adottato risultò spurio e controproducente.
2
Divenuto premier, nel maggio del 1994 Berlusconi formò il suo governo, che alla vigilia
del cinquantesimo anniversario della Liberazione portò gli eredi del fascismo al potere.
Egli cercò con le più ampie concessioni di tenere legata a sé la Lega, che aveva ottenuto
ben 118 seggi, divenendo il primo partito parlamentare non per forza propria, ma grazie
agli accordi elettorali. Ad essa vennero affidati la Presidenza della Camera e il ministero
degli Interni. Sennonchè la Lega fu presa, in maniera via via più pressante, dal timore di
perdere terreno a favore di Forza Italia. A proposito, un forte campanello d’allarme
risultarono le elezioni europee del giugno del 1994, che collocarono Forza Italia al 30,6
per cento, facendo toccare a Berlusconi il massimo prestigio e la Lega non superò il 6,6
per cento. Sicchè, dopo lo slancio iniziale – che portò i nuovi governanti ad una
spregiudicata “occupazione” e spartizione delle posizioni di potere – la coalizione di
governo si avvitò presto nei propri contrasti. La Lega, decisa non solo a non perdere lo
spazio occupato ma ad accrescerlo, prese ad attaccare il Presidente del Consiglio per la
mancata soluzione del conflitto d’interessi derivante dal mantenimento delle sue
imprese; lanciò violenti attacchi ai “fascisti” meridionali, statalisti e centralisti; chiese
l’attuazione del federalismo. Il nuovo governo riproduceva così alcune delle peggiori
caratteristiche dei vecchi governi: il sistema della lottizzazione e una acuta conflittualità
interna. La promessa di stabilità risultò vanificata.
Un altro fronte di estrema difficoltà per il governo diventò l’azione dei giudici, e in
particolare di quelli milanesi impegnati in inchieste che toccavano ormai direttamente
anche Berlusconi e il suo più vicino entourage affaristico, politico ed imprenditoriale.
La questione giudiziaria continuava a mostrare tutte le sue dirompenti questioni
politiche. Nel 1992 – 1994 i giudici milanesi – con metodi formalmente consentiti dalla
legge ma talvolta impiegati con brutalità e un improvvido gusto della platealità, spia
anch’esso del deterioramento dell’etica pubblica – avevano messo sotto accusa gran
parte della classe politica che aveva esercitato il potere, contribuendo in maniera
essenziale a creare le condizioni della sua caduta. Ora su Berlusconi – che giocava le
sue carte politiche sull’etichetta dell’uomo nuovo, di primo rappresentante di una
rinnovata classe politica e di un nuovo ceto di governo – si profilava il pericolo di
apparire diretta espressione del sistema che pretendeva di superare, essendo divenuti lui
ed il suo entourage imprenditoriale oggetto delle indagini. E quando fu varato un
decreto che pose dei limiti alla carcerazione preventiva, la quale aveva costituito lo
strumento essenziale delle indagini sulla corruzione e fece uscire dal carcere quasi
duemila persone, lo scontro tra l’esecutivo da un lato e la magistratura milanese
dall’altro divenne palese, determinando un aperto conflitto tra i poteri dello Stato, che
raggiunse a fine anno il suo culmine quando il Presidente del Consiglio ricevette un
avviso di garanzia mentre presiedeva una conferenza internazionale a Napoli. Un atto
straordinario e provocatorio.
Berlusconi subì un insuccesso dopo l’altro. Le reazioni della magistratura,
dell’opposizione parlamentare e di una parte influente dell’opinione pubblica,
2
Su questo passaggio storico della politica italiana cfr. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime, cit., pp.
137 – 146.
9
d’intensità non prevista, al decreto sulla carcerazione preventiva lo costrinsero a ritirarlo.
D’altro canto, la conclamata promessa di un “miracolo economico” finì nel nulla.
A più riprese Berlusconi, per uscire dalle strette in cui si trovava, chiese il ritorno alle
urne, in nome della sovranità popolare, sostenendo che gli orientamenti determinatisi in
Parlamento in seguito anzitutto del “tradimento” della Lega non corrispondevano più a
quelli del paese, il quale aveva votato per un’alleanza tra la Lega e gli altri partner della
coalizione, ora spezzatasi e che si assisteva al ritorno di una “partitocrazia”
manipolatrice.
In un clima confuso, segnato dall’abbandono, non chiaro nelle sue motivazioni, della
magistratura da parte di Antonio Di Pietro, simbolo di Mani Pulite, Berlusconi, al quale
era venuto meno l’appoggio della Lega, alla fine del dicembre ’94 diede le dimissioni. Il
governo che avrebbe dovuto disegnare il volto della seconda repubblica aveva fatto un
fallimento. In luogo della stabilità, si era avuto un ulteriore corso di instabilità; la
promessa di un miracolo economico era andata delusa; la riforma delle istituzioni era
rimasta nel cassetto; il conflitto tra i poteri dello Stato era proseguito aggravandosi
ulteriormente; i rapporti tra i partiti restavano caratterizzati da uno scontro che non
conosceva attenuazioni, così da vanificare del tutto la prospettiva della reciproca
legittimazione delle forze politiche.
La caduta del governo Berlusconi, in assenza di un’altra maggioranza politica, indusse il
Presidente della Repubblica, fermamente intenzionato a non sciogliere dopo meno di un
anno le Camere, per la prova di debolezza delle istituzioni che ciò avrebbe offerto, a
ricorrere nuovamente allo strumento del governo tecnico – istituzionale. Una scelta che
risultò quanto mai sgradita a Forza Italia e Alleanza Nazionale. Il governo tecnico,
varato nel gennaio ’95, venne guidato per scelta presidenziale da Lamberto Dini, già
ministro del Tesoro nel governo caduto e proveniente, come Ciampi, dalla Banca
D’Italia. Dini, il cui nome era stato indicato al Presidente della Repubblica dal centro –
destra, in un primo tempo godette di una pur mal concessa tolleranza da parte di
quest’ultimo; ma in un secondo tempo il supporto del governo diventò la coalizione
“progressista”; il che indusse Berlusconi a parlare di avvenuto “ribaltone” in un clima di
degradante trasformismo. A questo punto il governo di fatto perse la sua originaria
natura tecnica, venendo a poggiare palesemente sulle forze di centro – sinistra.
Il decorso del governo Dini mise in evidenza uno stato di malessere nei rapporti tra
potere esecutivo e potere legislativo. Infatti, le frontiere della maggioranza avevano
preso ad ondeggiare, a scomporsi e ricomporsi in un clima di ambiguità. Questa
ambiguità era rivelata dal fatto che – mentre le forze politiche si dimostravano incapaci
di avviare le riforme istituzionali e costituzionali, non trovavano alcuna soluzione al
conflitto d’interessi al centro del quale si trovava Berlusconi; non riuscivano ad
affrontare l’irrisolto nodo del ruolo della magistratura; non raggiungevano accordi sulla
riforma della legge elettorale vigente, universalmente considerata cattiva – la medesima
persona, Dini, sarebbe potuto essere prima un ministro tra i più autorevoli del governo
Berlusconi e poi un Presidente del Consiglio sostenuto in Parlamento da diverse
maggioranze.
Alla fine del 1995 entrambi i poli presentavano anzitutto un irrisolto problema di
leadership. L’Ulivo, la formazione costruitasi in vista della futura battaglia elettorale,
aveva scelto come proprio candidato premier Romano Prodi, già influente manager
democristiano dell’industria di Stato. Sennonché questa leadership era in un certo modo
indiretta poiché, mentre rispondeva all’esigenza di assicurare la direzione di uno
schieramento variamente composto, poggiava non già su risorse proprie ma su quelle
messe a disposizione anzitutto dal PDS, divenuto alle elezioni regionali dell’aprile il
primo partito italiano ma non in grado di avanzare una propria leadership per il governo.
All’interno dell’Ulivo sorsero presto frizioni, resistenze e rifiuti. D’altro canto,
all’interno del centro – destra la leadership di Berlusconi, per molteplici motivi (il
10
conflitto d’interessi, i problemi giudiziari, lo stile personale ecc.) da varie parti
sollevava resistenze o malumori, senza però che si delineasse la possibilità di un
ricambio, mentre si faceva sentire maggiormente il peso politico di Alleanza nazionale.
11
1.3 L’Ulivo al governo: quali problemi?
Nato come governo “tecnico”, negli ultimi mesi del 1995 il governo Dini era andato
spostando via via più nettamente il proprio baricentro, così da diventare più politico che
non tecnico per il fatto di dovere il prosieguo della propria esistenza all’appoggio diretto
delle forze di centro – sinistra. Il che orientò quelle di centro – destra violentemente
contro il governo accusato di aver “tradito” la sua originaria funzione. Dopo
l’approvazione della legge finanziaria, il governo Dini aveva esaurito i suoi compiti.
Occorreva decidere se andare alle urne oppure far proseguire la legislatura su nuove
basi.
3
Caduta l’ipotesi di un secondo governo Dini, si affacciò quella, sostenuta
inopinatamente insieme dai leader del PDS e di Forza Italia, di formare un governo di
grande coalizione tra i due poli, vale a dire un “governissimo”, avente come scopo in
primo luogo di cambiare il sistema elettorale e poi di siglare un accordo sulle riforme
istituzionali. Lo scoglio principale, per raggiungere l’accordo era la questione se andare
verso il modello semipresidenziale alla francese o verso il modello presidenziale
americano. L’accordo tra il PDS e Forza Italia venne decisamente contrastato da
Alleanza Nazionale, che poneva come pregiudiziale la scelta a favore del
presidenzialismo americano, temeva l’isolamento e voleva andare alle elezioni nella
convinzione di ottenere un grande successo. Ma il successivo tentativo di formare un
governo “super partes” col proposito di raggiungere un accordo sulle “regole” per poi
andare alle urne venne a sua volta rapidamente travolto. Le elezioni divennero
inevitabili.
La campagna elettorale che precedette le elezioni del 1996 fu condotta nel segno di una
forte incertezza. Il centro – destra venne indebolito da una serie di fattori. Il primo fu il
peso crescente al suo interno di Alleanza Nazionale, a cui i sondaggi promettevano un
successo rilevante. Questo aspetto preoccupò gli elementi moderati che non erano
disposti a vedere la coalizione politicamente e forse anche numericamente dominata da
una componente decisamente di destra.
Berlusconi e Fini cercarono il successo secondo gli schemi della campagna elettorale
del 1994: insistendo da una parte sul fatto che l’Ulivo era il paravento della sinistra ex
comunista e neocomunista, dall’altra – e questo fu un passo falso vero e proprio, sia per
la strumentalità, sia per la sua palese non credibilità, compiuto in prima persona da
Berlusconi – che una vittoria dell’Ulivo avrebbe potuto precludere agli italiani elezioni
libere in futuro.
L’Ulivo aveva dovuto affrontare prima della campagna elettorale aspri contrasti interni.
Ma il timore della vittoria di un centro – destra deciso a ricercare la rivincita con toni e
argomenti quali quelli sopra richiamati fece da collante delle forze ad esso avverse. La
leadership di Prodi uscì rafforzata dal suo mancato sostegno all’ipotesi del
“governissimo” e dal riequilibrio in senso moderato – centrista rispetto alla sinistra
dovuto alla presenza della lista Dini nella coalizione.
Il centro – destra si presentava nell’insieme più omogeneo; ma la capacità di coalizione
del centro – sinistra era maggiore, favorita dalla linea sia della Lega, sia dei rifondatori
neofascisti e dal patto non già programmatico ma elettorale con Rifondazione comunista.
Le elezioni dell’aprile 1996 diedero all’Ulivo alla Camera 284 seggi e Rifondazione
comunista ne ottenne 35. La coalizione di centro – destra ottenne 246 seggi. La Lega,
cui andò un successo oltre ogni previsione, ne ottenne 59. La quota proporzionale mise
in luce i rapporti di forza tra i singoli partiti. Primo tra questi risultò il PDS con il 21,1
per cento, subito seguito da Forza Italia, che così dimostrò il suo radicamento, con il
3
Su questo passaggio storico della politica italiana cfr. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime, cit., pp.
147 – 161.
12
20,6. Alleanza Nazionale, che aveva nutrito ben maggiori ambizioni, ebbe il 15,7, la
Lega il 10,1, Rifondazione comunista l’8,6, i Popolari e le forze ad essi aggregate il 6,8,
il CCD e il CDU il 5,8, la lista Dini alleata all’Ulivo il 4,3, i Verdi il 2,5, la lista Sgarbi
– Pannella l’1,9, la lista Fiamma lo 0,9. Al Senato l’Ulivo ottenne 157 seggi contro i
116 del centro – destra e i 27 della Lega.
La vittoria del centro – sinistra era stata resa possibile, dunque, dalla decisione di Bossi
di fare la sua corsa da solo. Come la sua alleanza con Forza Italia e AN aveva costituito
l’elemento determinante del successo dello schieramento di centro – destra nel 1994,
così la rottura di questa stessa alleanza fu la condizione nel 1996 della sua sconfitta.
La vittoria dell’Ulivo ebbe un grande significato: non solo, infatti, per la seconda volta
nella storia dell’Italia unita si attuò un’alternativa di governo all’interno delle istituzioni;
ma, per la prima volta da un lato questa alternativa, rivendicò ed in effetti ebbe un
carattere di “normalità”; dall’altro la sinistra maggioritaria – pur significativamente
ancora non in grado di puntare sulla guida del governo – andò al potere per via
elettorale e non già nel quadro di “grandi coalizioni di governo” non legittimate dal voto
popolare come accaduto nel periodo successivo al 1994. Il tentativo berlusconiano di
fondare le elezioni sul rinnovarsi della “guerra ideologica” contro la sinistra e i suoi
“strumenti”, presentati come una minaccia alle istituzioni democratiche, risultò
inefficace, grazie al confluire di determinanti settori moderati nell’alleanza avversaria.
La sinistra italiana, perciò, salì al potere in seguito al voto. Vi andò però in conseguenza
degli effetti prodotti congiuntamente da un mutamento qualitativo della cultura politica
della sua componente maggioritaria (abbandono del marxismo e del comunismo, sua
confluenza ufficiale nel socialismo democratico europeo) e dal decisivo collegamento
con forze centriste da cui scaturì la leadership della coalizione vincente. La sinistra,
insomma, diventò forza di governo perché non era più quella del passato. Certo, essa
non era “figlia di nessuno”, poiché la sinistra comunista aveva posto solide radici nel
tessuto democratico italiano sopravvissute alle sue tormentate e contradditorie vicende
politico – ideologiche e trasmesse al PDS.
Le elezioni dell’aprile 1996 segnarono una svolta significativa nella direzione di un più
compiuto sistema democratico. Ma il sistema politico e istituzionale italiano rimaneva
ancora lontano dall’aver trovato una sua stabilizzazione, il cui raggiungimento restava la
sfida aperta di fronte al paese. Insomma, dopo le elezioni del 1996 il processo di
riassetto del sistema dei partiti e delle istituzioni e di riforma del costume civile si
presentava lontano dal compimento. E l’interrogativo generale era se il nuovo governo e
la nuova maggioranza di centro – sinistra sarebbero stati in grado di dar luogo a quella
rifondazione della Repubblica che con il governo di centro – destra non solo non aveva
avuto neppure inizio ma anzi aveva compiuto decisi passi indietro.
Il governo Prodi durò poco più di due anni, in quanto ebbe termine nell’ottobre del 1998.
Il leader dell’Ulivo e il suo vice presidente, il pidiessino Walter Veltroni, fecero alcune
solenni promesse agli italiani, volendo marcare una svolta e l’inizio di una stagione
politica autenticamente nuova. Promisero che avrebbero ripreso e proseguito la politica
di risanamento finanziario, iniziata dai governi Amato e Ciampi, al fine di “portare
l’Italia in Europa”, vale a dire di far si che il nostro Paese si adeguasse ai parametri
richiesti dall’Unione europea per partecipare alla moneta unica. Fu una promessa di
grande significato che venne mantenuta. Promisero altresì con molta enfasi che il centro
– sinistra avrebbe posto fine alla tradizionale instabilità dei governi e delle legislature
interrotte. Non solo: Prodi e Veltroni presero l’impegno d’onore a nome del loro
schieramento che nel corso della legislatura non sarebbero stati formati governi non
legittimati dal voto popolare ovvero che non si sarebbe cambiata la direzione del
governo e a maggior ragione non si sarebbero cambiate le maggioranze parlamentari.
Altro impegno di grande rilievo fu quello di affrontare la riforma della Costituzione,
delle istituzioni e della legge elettorale. Infine, bisognava mettere mano all’ormai
13
inacidita questione del conflitto d’interessi che riguardava in maniera specifica il leader
di Forza Italia, padrone di un impero economico e la cui mancata soluzione creava in
Italia una anomalia che non aveva riscontri in alcun altro paese democratico.
Il decorso del centro – sinistra al potere fu tale da mostrare appieno quanto fosse ampio
anche per quest’ultimo il fossato che divideva il dire dal fare e come fosse difficile
onorare gli impegni. Quattro anni dopo l’avvento al potere di questo schieramento il
bilancio mostrava infatti accanto alle luci molte pesanti ombre.
Un risultato era evidente e certo non da poco. La legislatura non era stata interrotta e
l’azione di governo aveva assicurato senza dubbio una buona amministrazione, che
aveva portato avanti con coerente rigore il risanamento finanziario, favorito la ripresa
economica, attuato efficaci riforme della macchina burocratica e messo al riparo i
governanti da scandali e corruzione. Risultati non da poco. Ma, in relazione a tutti gli
altri impegni sopra indicati, le “passività” e le “violazioni” dei principi conclamati
furono clamorose, a partire dal fatto che, se la legislatura era rimasta in piedi, il prezzo
era stato il succedersi di ben tre governi: dopo il governo Prodi era venuto un governo
D’Alema e dopo questo un governo Amato. Di più: il governo D’Alema era stato
costituito sulla base di un cambiamento nella composizione della maggioranza. E
nessuno di essi era riuscito a mettere mano con successo alla riforma delle istituzioni.
Il fallimento più pesante del governo Prodi fu legato alla vicenda della commissione
Bicamerale, varata nel 1997 con l’intento di procedere alla revisione della Costituzione.
A presiedere questa commissione fu eletto Massimo D’Alema, in fama di intelligenza
politica realistica e personalità che pareva adatta a tenere le fila di una complessa e
complicata trattativa tra gli opposti schieramenti in campo, ai quali chiese di collaborare
alla riforma delle regole comuni in uno spirito bipartisan. Suo principale interlocutore
– antagonista era di necessità Berlusconi, il leader dell’opposizione, sul cui capo
pendeva l’irrisolto problema del conflitto d’interessi. Ragione, realismo di buona scuola,
spirito di correttezza avrebbero richiesto che il Parlamento affrontasse con decisione,
prima di avviare il confronto sul terreno costituzionale questa questione in quanto
primaria questione di legalità, legittimità, etica politica e banco di prova della buona
volontà dell’opposizione.
Berlusconi fu presentato come colui con cui si doveva e si poteva portare a termine la
grande Riforma. Il risultato fu un secco scacco matto messo in atto dal Cavaliere, il
quale, dopo aver incassato la legittimazione politica di cui lo aveva esplicitamente
investito il Presidente della Bicamerale, non avendo la minima intenzione di far cogliere
al governo e alla sua maggioranza il successo della riforma costituzionale, mandò
all’aria la commissione.
Fallita la Bicamerale per responsabilità del centro – destra, il governo Prodi andò ad
urtare contro la mina rappresentata da Rifondazione comunista, allo stesso modo in cui
il governo Berlusconi aveva urtato contro la Lega, e ne fu parimenti affondato. La
logica politica risultò sostanzialmente la medesima. Come la Lega aveva ritenuto ad un
certo punto pericolosa la partecipazione ad una maggioranza e ad un governo che
sentiva non consono ai suoi interessi, così Rifondazione comunista ritenne necessario
rompere la solidarietà con le forze che perseguivano, a suo modo di dire, una politica
economico – sociale di carattere moderato, contraria agli interessi degli strati più deboli
di cui essa si erigeva a unico vero rappresentante e tutore. Il suo ritiro dalla maggioranza
provocò la fine del governo ma non della legislatura, poiché il centro – sinistra, tra le
comprensibili e giustificate proteste dell’opposizione scelse, in nome della stabilità, non
soltanto di non andare al voto ma anche, pur di restare al timone, di mutare la
composizione della maggioranza stessa dando vita ad un nuovo governo sulla base di
una operazione palesemente trasformistica. In tal modo la promessa fatta da Prodi e
Veltroni di far coincidere la durata della legislatura con il persistere del governo e della
maggioranza votati dagli elettori, venne clamorosamente disattesa.
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A succedere a Prodi fu D’Alema, il quale poco prima aveva sdegnosamente respinto la
sola ipotesi che il leader del PDS potesse andare al governo, con un evidente mutamento
di segno politico della premiership, senza passare per la legittimazione elettorale: ciò
avrebbe voluto dire, infatti, restaurare un potere di iniziativa e scelta del Parlamento che,
per quanto corretto costituzionalmente, contraddiceva quell’etica del rinnovamento la
quale richiedeva il rispetto dell’indicazione uscita dal suffragio popolare che si era
espresso per un esecutivo presieduto da un leader di centro. Il nuovo governo costituì
quindi una importante novità storica e politica per il fatto sia di portare alla guida
dell’esecutivo per la prima volta il leader del maggiore partito della sinistra sia per farlo
senza aver ricevuto un mandato elettorale. La sua formazione fu il frutto delle manovre
e delle intese non già tra i partiti, bensì tra piccole oligarchie di partito somiglianti a
vere e proprie clientele dei maggiori dirigenti. Essa fu resa possibile da un lato dalla
scissione di Rifondazione comunista e dalla nascita di un ennesimo partitino, i
Comunisti italiani, che restarono nella maggioranza ed entrarono direttamente nel
governo, dall’altro da una spettacolare operazione trasformistica in base alla quale un
pugno di parlamentari eletti nelle fila del centro – destra, guidati da Cossiga e da
Mastella, passarono dall’altra parte. L’effetto non fu soltanto di accrescere ulteriormente
il livello dello scontro permanente tra maggioranza e opposizione ma anche di generare
i sospetti dei seguaci di Prodi, i quali si sentirono vittime di un colpo di mano della
sinistra governativa, traendone la lezione che, per pesare adeguatamente, occorresse dar
vita ad un proprio partitino, che nacque prendendo il nome di Democratici e che aveva
come simbolo l’Asinello.
Il governo D’Alema, costituitosi in un simile contesto, cercò fin dall’inizio di offrire
garanzie su scala internazionale e all’interno. Coinvolto nel 1999 nella guerra della Nato
contro la Jugoslavia, tenne una linea di grande zelo atlantico. Ma anche questo governo,
che persistette nella linea della buona amministrazione che aveva caratterizzato quello
precedente, non riuscì a durare. A seguito di un rimpasto causato dalla volontà dei
Democratici di ottenere la loro quota di potere nel governo, D’Alema, investito dagli
effetti della secca sconfitta subita dal centro – sinistra alle elezioni regionali dell’aprile
del 2000, per le quali aveva previsto tutt’altro risultato, fu indotto alle dimissioni.
Ancora una volta la maggioranza rifiutò la richiesta dell’opposizione di andare alle urne.
Così Giuliano Amato formò il suo secondo governo: il terzo del centro – sinistra. Egli
confermò le sue capacità e la sua competenza nel quadro di una linea di fondo intesa a
proseguire nel risanamento finanziario e nella promozione dello sviluppo economico,
favorito da una positiva congiuntura in atto nell’Unione europea. Sennonché nessun
passo avanti potè essere compiuto neppure durante la sua Presidenza del Consiglio sulla
via delle riforme istituzionali. Nulla di fatto, inoltre, circa la legge relativa al conflitto di
interessi e quella attinente alla riforma federale dello Stato.
Nell’autunno del 2000 il Paese era, di fatto, ormai precipitato nella campagna elettorale.
Il centro – destra si presentava come uno schieramento notevolmente più compatto di
quanto non fosse il centro – sinistra. Era composto da un minor numero di partiti; il
leader del maggiore di essi era riconosciuto quale il naturale candidato premier e,
elemento della massima importanza, il desiderio comune di non ripetere la situazione
del 1996 aveva indotto Bossi, Berlusconi e Fini a convergere nella formazione di un
fronte comune sulla base di uno scambio: il primo aveva rinunciato al secessionismo e i
secondi gli avevano promesso di attuare, una volta al governo, un “vero” federalismo
dai connotati non molto chiari.
Il centro – sinistra univa ad un ragguardevole elemento di forza una serie di debolezze.
Poteva vantare una buona prova di governo ma per tutto il resto la situazione si
presentava fondamentalmente negativa. In primo luogo, non era chiaro quale fosse la
natura della coalizione. Continuava a trascinarsi senza soluzione l’interrogativo relativo
all’Ulivo: se questa dovesse restare una alleanza tra i partiti esistenti oppure muoversi in
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altre direzioni. Certo era che la mania scissionista all’interno dello schieramento aveva
continuato ad operare, il numero dei partiti della coalizione era cresciuto, facendo
aumentare il numero dei vagoni che la locomotiva doveva trainare.
Amato svolse con successo il compito di salvare le sorti governative del centro –
sinistra ma ciò non li valse il premio di venire scelto quale candidato alla guida della
coalizione nelle elezioni del 2001. Contro di lui, infatti, si coalizzò un fronte composito.
Avversi gli erano coloro che, tra i comunisti, i diessini, i democratici dell’Asinello, i
verdi mal tolleravano o non tolleravano affatto l’idea di riconoscere che l’uomo più
capace dello schieramento di centro – sinistra era in effetti un socialista ex delfino di
Craxi e di investirlo della leadership politica della coalizione. Avversi erano, in
particolare, i centristi i quali, dopo che il governo era stato retto da personalità della
sinistra come D’Alema e Amato, intendevano far pendere nuovamente la bilancia a loro
favore. Per coprire con un manto di oggettività l’esclusione di Amato fu invocata, molti
mesi prima delle elezioni, la maestà dei sondaggi. Ma a mostrare il carattere artificioso e
strumentale dei sondaggi bastava il fatto che Prodi, il vincitore del 1996, era stato dato
poco prima del voto come perdente. Alla fine, il segretario dei DS Veltroni tenne nelle
proprie mani, superando le opposizioni interne al proprio partito, l’operazione di
investitura del candidato premier, che condusse ad optare per Francesco Rutelli. Una
vicenda, questa della scelta del candidato premier, che contraddiceva anch’essa la
volontà di un deciso cambiamento rivendicata dal centro – sinistra. Essa costituì un
sintomo quanto mai chiaro della crisi organica in cui versavano ormai tutti i partiti che
pure si erano candidati a rifondare la Repubblica.
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1.4 L’importanza delle elezioni politiche del 2001: la vittoria del
centrodestra
La storia delle elezioni politiche italiane non ha mai offerto una situazione paragonabile
a quella del 13 Maggio 2001. Infatti, non sono state “elezioni come le altre”
4
a causa
della comparsa di tre importanti condizioni: 1) l’esistenza di una effettiva competizione
bipolare fra un governo in carica e un’opposizione organizzata per sostituirlo; 2) la
costruzione di coalizioni contrapposte che hanno ridotto lo spazio politico e hanno
sconfitto le terze forze; 3) la possibilità concreta dell’alternanza che si è tradotta in un
limpido esito elettorale, politico e governativo. Nessuna di queste condizioni, ne
separatamente ne congiuntamente, aveva mai fatto la sua comparsa nel sistema politico
italiano.
Le elezioni del 13 Maggio 2001 sembrano potersi caratterizzare come uno spartiacque
nella storia italiana. Utilizzando una terminologia consolidata, potrebbero essere
definite fondanti, come lo furono quelle del 1948.
Per la prima volta, non soltanto nella storia della Repubblica, ma nella storia d’Italia, si
confrontavano, come è abituale nella grande maggioranza delle democrazie, un governo
in carica e un’opposizione sfidante. Utilizzando una terminologia internazionale si era
finalmente pervenuti anche in Italia ad una precisa “identificabilità” dei ruoli politici dei
protagonisti e quindi delle loro responsabilità. Si sottolinea la presenza, nel 2001, di
un’opposizione sfidante che si proponeva di sostituire il governo, poiché, nel 1976 il
PCI non si presentò come alternativo alla DC e ai governi da lei guidati, ma come
aggiuntivo. Nel maggio del 2001 c’è anche da sottolineare l’esistenza di un governo in
carica, chiaramente “identificabile”. Anche se non era più, tecnicamente, il governo
dell’Ulivo che aveva iniziato la legislatura, era sicuramente un governo di centro –
sinistra.
Al di là di qualsiasi altra considerazione, supponendo che esista un vantaggio derivante
dall’incubency, cioè dall’essere la coalizione che esprime il governo in carica, il centro
– sinistra ha, più o meno consapevolmente e deliberatamente, finito per sprecare questo
vantaggio.
Dalla parte opposta, Berlusconi, nei sei anni di opposizione aveva sempre marcato, a
volte in maniera esagerata ed eccessiva, il suo essere alternativo alla sinistra e nei
confronti del governo in carica. Come un’opposizione che si attrezza, il centro – destra
da un lato, formulava proposte programmatiche, dall’altro costruiva il suo governo
ombra. Dal punto di vista sistemico ciò che conta è che Berlusconi marcava
persistentemente due elementi: la sua alternatività rispetto al centro – sinistra e la natura
bipolare della competizione elettorale e politica.
Dal punto di vista delle coalizioni, la situazione nelle elezioni del 2001 era ancora
cambiata rispetto a quelle del 1994 e 1996. L’Ulivo era diventato centro – sinistra ma
dopo la rottura del rapporto con Rifondazione comunista nell’ottobre del 1998, la
costruzione di una coalizione con RC appariva impraticabile. Anche un altro pezzo della
coalizione era andato perso, quello rappresentato da Di Pietro che aveva dato vita ad
una sua lista chiamata “Italia dei valori” e che aveva presentato candidati in quasi tutti i
collegi uninominali. A fronte di queste difficoltà dell’Ulivo, Berlusconi era invece
riuscito ad andare persino oltre le due coalizioni, separate ma convergenti, del 1994.
Pazientemente, il leader di Forza Italia diede vita, struttura e visibilità alla Casa delle
libertà composta dal suo partito, da Alleanza Nazionale, dalla Lega Nord, tornata per
così dire all’ovile anche perché, probabilmente, Bossi aveva percepito in anticipo il
declino elettorale del suo movimento.
4
Su questo particolare passaggio della politica italiana cfr. G. Pasquino, Dall’Ulivo al governo
Berlusconi. Le elezioni politiche del 2001, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 11 – 21.
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Nel 1996 nella sua offerta di governabilità l’Ulivo apparve relativamente più compatto e
più credibile del Polo delle libertà. Non è azzardato sostenere che dopo troppi litigi
interni, troppi rimpasti di governo, troppi Presidenti del Consiglio, la credibilità
dell’Ulivo, come coalizione di governo avesse subito nel maggio 2001 qualche
significativo indebolimento. Nè Rutelli, il suo candidato alla Presidenza del Consiglio,
diventato anche il leader dei centristi raggrupatisi nella Margherita, sembrava in grado
di dare compattezza alla coalizione, soprattutto qualora emergessero differenze di
opinione e di strategie con i Democratici di sinistra che apparivano ancora come il
partito, se non egemone, dominante della coalizione. Dal canto suo, Berlusconi aveva
ricostruito in meglio la coalizione del 1994 e l’aveva messa alla prova con successo alle
elezioni regionali del 2000. Inoltre, nessuno poteva nutrire dubbi sul suo ruolo di capo
della coalizione e di futuro Presidente del Consiglio. Infine, sembrava anche chiaro che
tutti i contraenti avevano appreso una lezione fondamentale: divisi sicuramente si perde,
uniti probabilmente si vince.
In sostanza, la vittoria di Berlusconi deriva sicuramente da una importante componente
meccanica, la costruzione della coalizione, che si è tradotta in un’offerta più
convincente all’elettorato. C’è stata anche una componente psicologica, fatta dalla
rassicurazione concernente l’intesa raggiunta fra i vari partecipanti alla Casa delle
libertà e la loro visibilmente accresciuta disponibilità a tenere basso il livello dei
conflitti interni e a stare insieme per conseguire gli obiettivi. Insomma, nel maggio 2001
è cambiata, in peggio, l’offerta dell’Ulivo, che ha pagato il prezzo di accordi non più
raggiungibili e di dissensi non più riconciliabili, ed è migliorata l’offerta della Casa
delle libertà. La vittoria di quest’ultima non è, pertanto, attribuibile soltanto
all’esistenza di una maggioranza “naturale” della destra nell’elettorato italiano, ma ad
una superiore, per quanto non definitiva, capacità di costruire una coalizione, per quanto
eterogenea, e alla risposta dell’elettorato, rassicurato e persuaso anche dalle promesse
programmatiche.
L’esito delle elezioni del 13 Maggio 2001 è, alla fine, molto importante perché è emerso
un governo che rappresenta molta continuità con esperienze italiane precedenti, ma
introduce anche diverse innovazioni. Il Berlusconi II è un governo di coalizione che
nella distribuzione delle cariche di ministro e di sottosegretario ha dovuto tenere conto
della forza elettorale relativa di tutte le sue componenti. Il secondo elemento di novità è
rappresentato dal fatto che il Presidente del Consiglio è finalmente davvero, per ragioni
politiche, capo del partito di maggioranza relativa, e per ragioni di altro tipo, il primus
inter pares, quindi potenzialmente in grado di governare con vigore almeno la sua
compagine ministeriale. Quella del centro – destra è stata una vittoria netta e, almeno
dal punto di vista dei numeri, non precaria. La Casa delle libertà ha ottenuto una solida
maggioranza in entrambe le Camere: al Senato, con il 42,6% dei voti, ha conseguito 176
seggi, pari al 55,9% del totale, mentre alla Camera dei deputati disponeva di ben 368
seggi (58,4%), prodotti da un 45,6% di voti maggioritari e da un 49,7% di voti
proporzionali. Allo schieramento alternativo le cose sono andate peggio, anche se non
malissimo: il 39,2% dei voti per il Senato gli ha fruttato 128 seggi (40,6%), mentre alla
Camera dei deputati al 43,8% di voti ottenuti nella parte maggioritaria e al 35% nella
parte proporzionale corrispondono 247 seggi (39,2%). Come si vede, il differenziale tra
centro – destra e Ulivo è chiaro sia in termini di voti che di seggi, a differenza di quanto
era avvenuto nelle precedenti consultazioni.
Anche la Sardegna ha scelto la contiguità elettorale.
5
Come quasi tutto il resto d’Italia
ha virato nuovamente – e più marcatamente che in passato – a destra. Ha scelto il Polo,
anzi “La casa delle Libertà” e il suo leader Silvio Berlusconi.
5
Cfr. G.Mameli, Sardegna a destra, scelta la contiguità elettorale, in “Sardinews”, numero 6, giugno
2001.