5
radicale”. Ma è corretta questa immagine?
Fino a che punto Whorf ha voluto sostenere l’ipotesi “estrema”
che le strutture linguistiche e la “grammatica” di una lingua
determinino interamente le forme del pensiero e dell’esperienza
umana? E fino a che punto si è invece contenuto nell’assunto
più “debole” che lingua e pensiero siano in relazione di
condizionamento reciproco?
In altri termini: Qual è l’estensione da attribuire al principio
della relatività linguistica di B.L. Whorf? E, più in generale, è
accettabile tale principio, oppure: con quali eventuali restrizioni
è accettabile?
Per rispondere alla prima domanda si sono seguite due vie, che
sono da riguardarsi come complementari. La prima è quella di
un riesame critico dell’intera opera di Whorf. La seconda è
quella di una contestualizzazione del lavoro intellettuale
dell’autore. La seconda via, poi, implica a sua volta un doppio
livello di analisi: da una parte, infati, è necessario vedere la
maturazione dell’opera di Whorf nel quadro più ampio della
linguistica americana del primo Novecento; ma questo non è
ancora sufficiente: bisogna anche porre il lavoro di Whorf in
relazione al pubblico cui si rivolgeva.
Esistono infatti buoni motivi per sostenere (come di fatto è stato
sostenuto, vd. ad es. Hymes 1966 e Giglioli 1968) che la
6
versione “forte” rispondesse a fini divulgativi; che fosse cioè
destinata al grande pubblico, mentre la versione debole sarebbe
quella autentica destinata agli “addetti ai lavori”.
A far propendere per questa interpretazione è la natura stessa
delle pubblicazioni di Whorf, che, come molti linguisti
americani, ha affidato il proprio pensiero a saggi monografici
piuttosto che a volumi. La maggior parte degli articoli di Whorf
sono comparsi sulla Technological Review del Mussachussets
Institut of Technology. Il M.I.T. era allora una scuola quasi
esclusivamente dedita alle scienze esatte, ben lontana dalle
aperture alle discipline umanistiche che, qualche decennio
dopo, giustificheranno*** e renderanno possibile la presenza di
Chomsky e della sua scuola.
Non è quindi sorprendente che trattazioni sulla linguistica vi
avessero carattere divulgativo.
Ed esiste anche un secondo e più profondo motivo che
leggittima la stessa interpretazione: la genesi della relatività
linguistica è inconcepile se non considerandola sullo sfondo e
in contrasto alla teoria filosofico - linguistica cui si oppone,
l’innatismo. Nell’opera di Whorf, soprattutto nei saggi
successivi al 1939, il riferimento è dichiarato ed esplicito. B.
Malmberg afferma che la relatività linguistica nasce come
“antidoto contro l’innatismo” (Malmberg, 1985, p. 277) e alla
stessa conclusione giunge la studiosa americana Julia M. Penn,
7
autrice di un importante saggio sull’”Ipotesi Sapir-Whorf” nella
sua relazione con la teoria delle idee innate
1
.***
Questa opposizione, tra l’altro, consente di collocare
storicamente l’opera di Whorf. Teorie relativistiche sul rapporto
tra lingua e forme del pensiero e dell’esperienza umana sono,
infatti, ben lontane dal costituire una novità assoluta. Sebbene il
filone centrale della filosofia occidentale (da Platone ad
Aristotele, da Cartesio a Kant) abbia per lo più ignorato
l’importanza del linguaggio per il problema della conoscenza, ,
non sono mancati filosofi e pensatori che hanno chiaramente
formulato il nesso tra lingua e cultura, tra linguaggio e
“pensiero”. I nomi di Vico, Leibnitz, Locke, Condillac, Hamaan,
Herder, Von Humboldt, non forniscono altro che un elenco
provvisorio sull’argomento.
La relatività linguistica, dunque, non è una notivà di Whorf, o
di Sapir e di Whorf.
Piuttosto costituisce, in qualche misura, una “riscoperta”: se le
prime due generazioni di linguisti “humboldtiani” restano
fedeli alla direzione tracciata dal maestro - elaborazioni in
prospettiva generale, da una parte, e concreta ricerca sulla
diversità di strutture delle lingue naturali, dall’altra - tra fine
Ottocento e inizio Novecento si assiste al ritorno in auge di
1
Penn, J.M., Linguistic relativity vs. innate ideas: the origins of the Sapir-Whorf Hypothesis in
German thought, The Hague, Houton, 1972.
8
quella concezione nota come “aristotelismo linguistico”
2
,
rappresentante di una idea strettamente tradizionale del
linguaggio (la cui nota caratteristica è l’isomorfismo tra
struttura del linguaggio, del pensiero e della realtà).
Il Tractatus Logico-philosophicus Di Wittgenstein rappresenta
la massima espressione di quel punto di vista, e sarà tuttavia
proprio Wittgenstein, per aver portato quella concezione alle
sue estreme conseguenze con una coerenza quasi brutale, e per
averla poi definitivamente confutata nelle Ricerche Filosofiche,
a segnare il tramonto dell’”aristotelismo linguistico”.
Questo lavoro di contestualizzazione dell’opera di Whorf, tanto
all’interno della linguistica americana che della storia del
pensiero linguistico, è premessa necessaria per poter
approcciare una valutazione delle prospettive aperte da quel
programma di ricerca.
Il terzo capitolo, dando conto della ricezione del principio
relativistico nella linguistica contemporanea, si sofferma in
particolare sulla critica mossa da E. Lenneberg. La scelta non è
arbitraria. L’assunto dell’esistenza di idee innate ha infatti un
ruolo centrale nella teoria del linguaggio di Lenneberg, che è
molto vicina a quella della grammatica generativa. La sua
2
Si è occupato del problema, tra gli altri, Tullio de Mauro in Introduzione alla Semantica
(Laterza, Roma-Bari, 1a ed. 1965).
9
opera principale, Biological foundations of Language
3
, contiene
l’idea di base che le diverse strutture linguistiche si “innestano”
sul comune sostrato biologico costituito da forme e meccanismi
del pensiero invariabili per tutto il genere umano.
E’ da questo punto di vista che Lenneberg muove una dura
critica alla metodologia di Whorf. Si tratta di obiezioni
definitive, oppure la relatività linguistica si salva dalle
argomentazioni portate da Lenneberg a suo sfavore?
L’opposizione tra Lenneberg e Whorf è, in ogni caso,
significativa, perchè siamo forse in presenza dei due limiti
teorici estremi entro cui si muove l’intera problematica del
rapporto linguaggio-pensiero. E’ inoltre rilevante chiedersi se
sia possibile una riformulazione dell’ Ipotesi Sapir - Whorf che
abbia un impiego pratico per la linguistica e per lo studio dei
processi cognitivi, e che sia compatibile con le basi innatistiche
della specie umana che la genetica ha - parzialmente -
individuato.
3
edito da John Wiley, New York, 1967; ed. italiana: I Fondamenti biologici del linguaggio,
con appendici di N. Chomsky e Otto Marx, Boringhieri, Torino, 1982 (1. ed. 1971)
10
Capitolo primo:
L’Ipotesi Sapir - Whorf e la relatività linguistica
1. Sull’”Ipotesi Sapir-Whorf”
L’espressione “Ipotesi Sapir-Whorf” è stata coniata da J.B.
Carrol
4
per indicare quel complesso di posizioni asserenti il
nesso tra organizzazione dei dati dell’esperienza e particolare
lingua storica che troviamo tanto nell’opera di Sapir che in
quella di Whorf.
La definizione implica un giudizio sul contributo di Sapir
nell’elaborazione della relatività linguistica. Tale apporto è
indiscutibile, ma alcune formulazioni di Whorf sono originali e
non del tutto riconducibili a idee espresse da Sapir.
Il saggio di Whorf The Relation of Habitual Thought and
Behavior to Language (Pensiero e comportamento in relazione
col linguaggio, 1939)
5
si apre significativamente con la citazione
4
curatore di Language, Thought and Reality (The M.I.T Press - Cambridge, Massachussets -
1956), raccolta pubblicata postuma dei principali scritti di Whorf, e prefatore della stessa.
Trad. italiana: Linguaggio, pensiero e realtà, Introd. di A. Mioni, Boringhieri, Torino, 1970,
1977. La testimonianza di J.B. Carrol rimane tra le più preziose fonti per la vita e per
l’interpretazione dell’opera di Whorf.
5
Il saggio è stato pubblicato per la prima volta in: Language, Culture and personality, a cura
di Leslie Spier (Sapir Memorial Pubblication Fund, Menasha, Wis. 1941) e
successivamente ristampato in Collected Papers on Metalinguistics (Foreign Service
Institute, Department of State, Washington, 1952). In Linguaggio, Pensiero e Realtà pp. 99 -
11
di un passo di Sapir, a testimoniare la continuità che lo stesso
Whorf doveva ravvisare tra le proprie conclusioni e gli studi da
lui condotti. La citazione, per altro, non viene premessa a un
saggio tecnico sulle lingue centroamericane, ma al primo scritto
che contenga una esplicita e compiuta formulazione del
principio della relatività linguistica.
La citazione da Sapir è tuttavia estratta da un contesto più
moderato; questo e altri indizi convalidano l’impressione che
Whorf rielabori nella propria ottica alcune posizioni del
maestro.
E’ stata anche avanzata l’ipotesi che proprio l’influenza del
giovane allievo abbia indotto Sapir ad adottare il punto di vista
relativistico, ma questo sembra difficilmente sostenibile, in
primo luogo per ragioni cronologiche: il saggio The Relation of
Habitual Thought and Behavior to Language è successivo ai
primi incontri significativi tra i due studiosi, e a quella data
Whorf si era occupato prevalentemente di specifici problemi di
linguistica centroamenricana, mentre Sapir aveva già sostenuto
in diversi articoli la stretta interrelazione tra lingua e processi di
categorizzazione. E’ pertanto più logico propendere per una
influenza del secondo sul primo.
Julia M. Penn giunge alla conclusione che Whorf prese la teoria
126.
12
dal maestro (Penn, 1972). Tuttavia questa posizione, per i
caratteri di originalità delle formulazioni di Whorf, appare
come un eccesso nella direzione opposta.
Piuttosto, Whorf trovò negli studi di Sapir una grande mole di
materiale per avvalorare la propria teoria, che, sebbene non
venga formulata esplicitamente che negli scritti del 1939-40, è
già contenuta in nuce nelle monografie “tecniche” degli anni
precedenti. La continuità delle indagini di Whorf lo leggittima
largamente come autore della relatività linguistica, anche se
non va misconosciuto l’importante contributo di Sapir,
metodologico in primo luogo, che dovette rappresentare un
potente stimolo per Whorf a riflettere sulle conseguenze
speculative della propria teoria e ad elaborare una ipotesi da
sottoporre a verifica.
Fu inoltre Sapir a incoraggiare Whorf ad estendere i suoi studi
sulle lingue uto-azteche, “e in particolare a intraprendere lo studio
della lingua hopi, un lontano parente dell’azteco” (Carrol, 1956,
p.11). Ed è dal raffronto tra la struttura delle lingue
centroamericane e quella delle lingue europee che Whorf sarà
indotto alla formulazione della relatività linguistica.
In ultima analisi, un valutazione definitiva sull’entità del
contributo apportato da Sapir all’elaborazione della relatività
linguistica richiederebbe un riesame critico dell’intera opera
sapiriana. Ma si possono intanto tenere fermi almeno due
13
punti. Il primo è che Whorf non tirò fuori la sua teoria dal
nulla. Non solo l’opera di Sapir, ma anche quella di Leonard
Bloomfield, contengono un ampio materiale sulle reciproche
implicazioni tra lingua e processi di categorizzazione. Il
secondo punto è che, al di là del debito intellettuale nei
confronti degli illustri predecessori, Whorf formula il principio
della relatività linguistica in termini del tutto originali. Questa
originalità è largamente dovuta alla peculiaretà delle sue
inclinazioni speculative.
Pertanto è prevalentemente sulle formulazioni proposte da
Whorf che bisogna basarsi, ai fini della discussione critica della
relatività linguistica. E tuttavia, proprio l’originalità degli studi
linguistici negli Stati Uniti prima di Whorf chiarisce nel
contempo i presupposti teorici delle sue indagini e la specificità
della sua posizione.
14
2. Originalità della linguistica americana
Sapir e Whorf, lungi dal costituire due casi isolati, si collocano
nel più ampio e specifico contesto della linguistica americana,
che nasce di fatto come linguistica comparata e strettamente
connessa con l’antropologia, con caratteristiche dunque
originali rispetto alla linguistica europea (Malmberg 1985, pp.
275-301).
Il continente americano è un crogiolo di lingue diverse, anche
se molte parlate vanno incontro al rischio dell’estinzione: se ne
contano un migliaio, raggruppate in 150 famiglie. I linguisti
americani se le trovavano, per dir così, in casa, laddove uno
studioso europeo dovrebbe andare a studiarle sul posto,
oppure ricorrere alle trattazioni dei colleghi d’oltreoceano (per
altro non sempre facilmente reperibili a causa della tendenza
dei linguisti americani a diffondere i risultati delle proprie
ricerche per mezzo di saggi monografici).
Una prima sistemazione e interpretazione strutturale delle
lingue indiane d’America risaliva a Franz Boas, il cui
Handbook of American Indian Languages (1911-1939)
rappresenta una preziosa fonte di materiale per le future
generazioni di linguisti. Ancora nel 1951 H. Hoyer poteva
scrivere un importante contributo sulle implicazioni culturali di
15
alcune categorie linguistiche navaho
6
; e tra Boas e Hoyer si
collocano le ricerche di Sapir e l’esplicita formulazione della
relatività linguistica da parte di Whorf.
Julia M. Penn ha inoltre mostrato che fu proprio Boas a
introdurre in America la teoria humboldtiana, e la studiosa
americana giunge alla conclusione che Sapir e Whorf si
trovavano pronti tutti gli strumenti necessari per interpretare le
lingue amerindiane.
Di grande importanza ai fini della costruzione di una solida
base teorica è inoltre la figura di Leonard Bloomfield (1887-
1949). Egli introdusse in linguistica la distinzione tra
“mentalismo” e “meccanicismo”, dove il secondo termine
implica una descrizione linguistica autonoma, svincolata dal
riferimento a fatti psicologici. Nella fase più matura del suo
pensiero Bloomfield fu sensibilmente influenzato dal
comportamentismo, e cercò di interpretare la stessa
comunicazione nei termini di reazioni di stimolo-risposta, con
la clausola che uno stimolo può essere sostituito da un
equivalente linguistico. Questo tentativo di interpretare la
comunicazione su basi comportamentistiche gli valse una dura
critica, tra gli altri, da parte di F. Hockett, il quale argomentò
che uno stimolo linguistico non provoca necesariamente una e
una sola determinata reazione, e che quelle descritte da
6
H. Hoyer, Cultural implications in some Navaho linguistic categories, in: “Language”,
16
Bloomfield sono soltanto relazioni di verosimiglianza
7
.
Sebbene la critica sia fondata, e ci siano buone ragioni per
credere che il comportamentismo “ortodosso” costituisca una
base esplicativa troppo ridotta per comprendere il linguaggio,
pure Bloomfield ha avuto il merito di mostrare come il
problema del significato non possa essere approcciato se non
rapportandolo al contesto comunicativo entro cui si colloca.
Inoltre Bloomfield muove una critica all’interpretazione
psicologistica dei fenomeni linguistici che era stata proposta da
Hermann Paul (1846-1921), con l’argomento che l’attribuzione
di fenomeni “mentali” al parlante non aiuta a spiegare le
caratteristiche della realtà linguistica. Secondo Bloomfield, se
Paul e i suoi contemporanei non avessero condotto le loro
ricerche soltanto sul ristretto gruppo delle lingue indoeuropee,
ma avessero esteso l’indagine a tipi di strutture molti differenti,
dove le categorie cui siamo avvezzi mancano, si sarebbero
accorti facilmente che tali categorie non sono universali.
Infine, Bloomfield critica Paul per aver prestato attenzione
soltanto allo studio del mutamento, e individua in von
Humboldt uno dei primi ad aver avvertito la necessità di una
analisi sincronica.
XXVIII (1951), pp. 111-120.
7
F. Hockett, A Manual of Phonology, Bloomington, Indiana University Press, 1995.
17
E’ importante rilevare la “compatibilità” che si riscontra in
Bloomfield tra l’affermazione della necessità di una descrizione
sincronica e lo studio concreto della diversità delle strutture
linguistiche. Bloomfield e Sapir possono a buon diritto essere
considerati i fondatori dello strutturalismo americano. Il fatto
che l’analisi strutturale venga programmaticamente condotta in
modo parallelo allo studio delle configurazioni delle lingue
amerindiane mostra come la linguistica americana nasca in un
contesto radicalmente diverso da quella europea. E come la
genesi della linguistica americana sia segnata dalla
compresenza di un approccio relativistico e della ricerca di una
toeria generale del linguaggio.
La stessa compresenza contraddistingue l’opera di Whorf, e
deve indurre a esaminarne il pensiero linguistico non soltanto
alla luce della teoria della relatività cui il suo nome è legato, ma
anche delle analisi sincroniche che Whorf presenta in diversi
saggi.
Sapir e Whorf, dunque, avevano alle spalle tanto una preziosa
catalogazione delle strutture verbali delle lingue amerindiane,
che avanzate nozioni teoriche.
Il passo per la relatività linguistica fu breve, ma Whorf gli
conferisce l’originalità del suo contributo e la formula in
termini autonomi.
18
Sono almeno due gli aspetti, decisivi, che egli sviluppa in modo
originale:
- 1. l’affermazione che tanto le categorie che il
comportamento sono condizionati dal linguaggio;
- - 2. La critica su base linguistica della logica e della scienza
tradizionali.
I due punti succitati sono per altro strettamente connessi, e
nell’opera di Whorf si sviluppano in modo parallelo. Ne andrà
pertanto ricostruita la genesi in dettaglio.
La relatività nasce, per usare le parole di B. Malmberg, come
una sorta di “antidoto contro l’innatismo” (Malmberg 1985, p.
277; anche Penn 1972).
Il principio proposto da Whorf ne costituisce una
riformulazione. L’origine risale alla reazione dei filosofi
romantici Johann George Hamann (1730-1788), Johann
Gottfried Herder (1744-1803) e Wilhelm von Humboldt (1767-
1835) alle idee espresse dai torici dell’innatismo del
diciassettesimo e diciottesimo secolo (Descartes e Kant).
Ho ritenuto essenziale prendere in esame lo sfondo teorico di
questa opposizione prima di passare ad analizzare le
formulazioni di Whorf, e ciò per un duplice motivo.