sorprende, non fosse altro che per l'impossibilità di immaginare il discorso
filosofico costruito in assenza di un sistema simbolico di riferimento.
Probabilmente la questione del rapporto tra lingua e pensiero è vecchia
quanto la storia della filosofia occidentale stessa, e probabilmente non solo
di essa. Probabilmente tale questione è gelosamente custodita
nell'ambiguità della doppia valenza, e qui doppia è chiaramente una
semplificazione che decide di ignorare la natura infinitamente più
complessa dei concetti, di un termine così importante per questa storia,
quale è la parola Logos. Tracciare un rapporto esaustivo delle linee di
evoluzione del pensiero filosofico sul rapporto pensiero-linguaggio
sarebbe un compito tanto affascinante, quanto, credo, probabilmente
impossibile per un laureando in filosofia, (sarebbe credo molto complicato
pure per uno studioso con una più solida esperienza di studi alle spalle) sia
per la quantità di materiale su cui eseguire una simile ricerca, sia per le
infinite complicazioni che inevitabilmente affiorano non appena si tenti di
scrutare tale relazione. Ciò nonostante, credo che, prima di addentrarci
nell'analisi delle pagine di Edward Sapir e di Benjamin Lee Whorf, possa
essere utile dare uno sguardo panoramico su cosa si debba intendere per
“teoria del relativismo linguistico” e su come quest'idea possa essersi
tramandata attraverso un certo filone della filosofia tedesca, che prende le
mosse dal pensiero di Leibniz, per poi passare attraverso Herder e
soprattutto Humboldt, sino ad arrivare a un antropologo e linguista
tedesco, poi trasferitosi negli Stati Uniti, come Franz Boas, che fu maestro
dello stesso Sapir, il quale fu, a sua volta, maestro di Whorf.
La restante parte di questo lavoro sarà dunque dedicato all'analisi delle
posizioni relative all'influsso linguistico sul pensiero e sulla concezione
della realtà così come trova espressione negli scritti dei due etnolinguisti
americani. Scopo principale di questa trattazione sarà mettere in luce le
differenze del pensiero prodotto dai due cointestatari della tesi, ormai
famosa come “Sapir-Whorf hypothesis”, in maniera tale che tale
nomenclatura risulterà probabilmente inadeguata, in quanto accorpamento
di due punti di vista che, per quanto certamente accomunati
dall'affermazione di un certo influsso linguistico sullo sviluppo delle idee,
si differenziano notevolmente per la complessità delle loro argomentazioni
e per l'enfasi data al valore di questo influsso.
Teoria del relativismo linguistico o ipotesi Sapir-
Whorf
I termini “teoria del relativismo linguistico” e “ipotesi Sapir-Whorf” sono
stati il più delle volte utilizzati come sinonimi nelle trattazioni
sull'argomento.
Il primo a utilizzare il termine relativismo linguistico fu proprio Benjamin
Lee Whorf, all'interno di due suoi articoli, entrambi pubblicati nel 1940.
All'interno di “Science and Linguistic”, può leggersi: “ We are thus
introduced to a new principle of relativity, which holds that all observes
are not led by the same physical evidence to the same picture of the
universe, unless their linguistic backgrounds are similar, or can in some
way be calibrated3”. Nell'articolo intitolato “Linguistic as an exact
science” cambia qualche parola, ma non la sostanza: “...the “linguistic
relativity principle”, which means, in informal terms, that users of
markedly different grammars are pointed by their grammars toward
different types of observation and different evaluations of externally
similar acts of observation, and hence are not equivalent as observers but
must arrive at somewhat different views of the world.”4. All'interno
dell'opera di Edward Sapir non vi è invece traccia del termine relativismo
linguistico, ma di qualcosa di simile: il relativismo dei concetti o
relativismo delle forme del pensiero. All'interno dell'articolo del 1924
intitolato “The Grammarian and his Language” è infatti scritto: “The
upshot of it all would be to make very real to us a kind of relativity that is
generally hidden from us by our naive acceptance of fixed habits of speech
as guides to an objective understanding of the nature of experience. This is
the relativity of concepts or, as it might be called, the relativity of the form
of thought.”5. La differenza tra i due etnolinguisti, come mi appresterò a
3 [Whorf, 1956: 214 ( Ci siamo quindi introdotti in un nuovo principio di relatività, per il quale tutti gli osservatori
non sono condotti dallo stesso fatto fisico alla stessa immagine dell'universo, a meno che i loro retroterra linguistici
non siano simili, o possano essere in qualche modo tarati )]
4 [Whorf, 1956: 221 ( ....il principio del relativismo linguistico, il quale significa, in parole povere, che persone che
utilizzano grammatiche fortemente differenti sono spinti dalle loro grammatiche a differenti tipi di osservazione e
differenti valutazioni di atti di osservazione esternamente simili, perciò non sono equivalenti come osservatori e
dovranno arrivare a visioni del mondo in qualche modo differenti.)]
5 [C.W. Vol. 1: 176 (“Lo scopo di tutto ciò vorrebbe essere il renderci chiaro un genere di relatività che ci è
generalmente nascosta a causa della nostra ingenua accettazione delle nostre abitudini linguistiche come guida per
una comprensione oggettiva della natura dell'esperienza. Questa è la relatività dei concetti o, come potrebbe essere
mostrare nei capitoli che verranno, non si limita a delle sottili sfumature
terminologiche, come sembra apparire dalle citazioni, ma riguarda l'intero
loro modo di affrontare l'argomento dei rapporti tra la lingua, il pensiero e
la realtà.
In realtà, molti studiosi tendono a riconoscere due possibili accezioni della
teoria del relativismo linguistico: una versione “forte”, definita anche
come “teoria del determinismo linguistico”, e una versione “debole”.
Secondo la versione “forte”, la lingua determinerebbe completamente il
pensiero; qualsiasi traduzione di un pensiero da una lingua ad un'altra,
diverrebbe così puramente illusoria. Quest'idea, come suggerisce John A.
Lucy, “si basa, in definitiva, sull'identità di lingua e pensiero”6. Secondo la
versione più mite, invece, la lingua si limiterebbe a influenzare in un certo
qual modo il pensiero e l'immagine della realtà dei suoi parlanti.
Secondo Julia M. Penn, autrice di un breve saggio intitolato Linguistic
Relativity versus Innate Ideas, entrambe le versioni sarebbero state
esposte, a seconda delle occasioni, sia da Sapir che da Whorf. Secondo la
mia personale opinione, il giudizio della Penn è probabilmente appropriato
per quel che riguarda Whorf, ma sviante nei confronti dell'opera di Sapir;
all'interno di essa sono presenti certamente numerose affermazioni circa il
potere di pilotare il nostro sguardo sulla realtà proprio delle nostre
abitudini linguistiche, ma le altrettanto numerose affermazioni circa la
trasferibilità interlinguistica di qualunque contenuto, diverrebbe
assolutamente incomprensibile alla luce di quell'identificazione tra lingua e
pensiero che sottostà alla teoria determinista.
La teoria determinista sembrerebbe essere in ogni caso poco attendibile;
contro di essa parlano fatti come la traduzione in ogni parte del pianeta
delle opere letterarie o come il semplice fatto che possiamo ritenerci
soddisfatti o meno della corrispondenza del nostro dire a ciò che
intendevamo dire. Se il pensiero venisse considerato come un tutt'uno con
il suo veicolo linguistico e ridotto all'espressione particolare che tale
veicolo permette ad esso, credo che fatti come questi rimarrebbero
inspiegabili.
D'altra parte, le nozioni di lingua e pensiero credo indichino, perlomeno in
italiano, due fenomeni ontologicamente distinti (e qui parlare di
“ontologia” è chiaramente un azzardo), per quanto possa essere
estremamente complicato separarli nella prassi. Lungi da me il voler dare
delle definizioni esaurienti sui due fenomeni. Mi voglio limitare a
chiamata, la relatività della forma del pensiero.”)]
6 [Niemeier, Dirven, 1984: X (...based, ultinately, on the identity of language and though.)]
ricordare come ogni lingua sia pur sempre un mezzo, una tecnica generale
e condivisa da un determinato gruppo di persone e utilizzata per la
reciproca comprensione, uno strumento di per sé neutro e privo di
intenzionalità, mentre il pensiero sia un operare sempre e comunque
intenzionale e individuale, per quanto si basi su una struttura dialogante
anche quando viene espresso in solitudine, e rappresenti l'atto proprio del
soggettivo. Dopotutto, affermare che codice e messaggio siano in fondo la
medesima cosa equivarrebbe a disconoscere il senso del decodificare. Chi
vive la realtà e riflette su di essa, sa quanto essa sia molteplice e quanto la
lingua non possa riferirsi ad essa in maniera integrale, perfettamente
esaustiva, ma sempre come un additare, un indicare che avrà
necessariamente dei contorni vaghi. Le nostre intenzioni espressive hanno,
credo, a che fare in maniera diretta con quella realtà infinitamente
molteplice, in quanto da essa stimolata, la loro forma con i limiti propri
della semplificazione linguistica. E quindi ecco perché ogni atto linguistico
va interpretato.
Nel linguaggio scientifico corrente, il termine “relativismo linguistico” e il
termine “ipotesi Sapir-Whorf”, hanno ormai il significato espresso da
quella che abbiamo definito come la versione più mite del relativismo
linguistico: entrambi indicano quell'idea per cui ogni particolare lingua
incorpori una particolare interpretazione della realtà, e che questa
interpretazione possa influenzare il nostro modo di percepire e pensare la
realtà stessa. È propriamente secondo questa accezione che la teoria ha
riscontrato notevole interesse nella discussione scientifica contemporanea,
dando tra l'altro spunto a numerose ricerche, negli ambiti di una
collaborazione interdisciplinare tra linguistica, antropologia e psicologia,
finalizzate alla conferma o alla negazione, su base sperimentale, di tale
ipotesi.
In realtà sembrerebbe che questi studi non abbiano ancora prodotto dei
risultati chiari, tali da definire scientificamente se e come la lingua abbia
un'influenza sulla psicologia umana. Il problema principale deriva dal fatto
che risulta piuttosto complicato studiare il pensiero in maniera
indipendente dalla sua espressione linguistica. A molti ricercatori viene
contestato così il fatto che cerchino di confermare la teoria sulla base di
sole differenze linguistiche, rendendo così tautologiche le loro
argomentazioni. Questa critica, come si vedrà più avanti, sarà espressa nei
confronti dello stesso Whorf. Altri ricercatori hanno invece compreso che
la dimostrazione della veridicità della teoria debba basarsi su valutazioni di
capacità cognitive che siano prodotte indipendentemente dalle espressioni
verbali. Su questa linea sembra muoversi la maggior parte della ricerca
degli ultimi anni. Tuttavia sembrerebbe, come suggerisce Lucy, che le
dimostrazioni sviluppate in queste ricerche siano in realtà convincenti
soltanto per coloro i quali già di principio credono che la lingua abbia una
certa influenza sulle capacità cognitive umane: “Although evidence of this
type will persuade some, experiences indicates it will not impress those
who doubt there are broader effects of language on thinking. Hence, at
prsent can be supportive, but not decisive in evaluting linguistic
relativity.”7
Ad ogni modo, non rimarrà qui che questo breve accenno riguardo al
campo della ricerca sperimentale sulla teoria del relativismo linguistico; e
questo per due fondamentali ragioni. Primo, la persona che qui scrive è un
laureando in filosofia, che quindi possiede troppe poche conoscenze di
psicolinguistica, psicologia cognitivista, semiotica e quant'altro necessario,
per una corretta argomentazione di questo vasto settore di ricerca.
Secondo, credo che se la lingua abbia una qualche influenza sull'ambito
mentale umano, essa sarà certamente più determinante in quei settori del
pensiero che non possono studiarsi che attraverso i loro resoconti verbali.
Mi riferisco a quei settori in cui l'utilizzo della lingua sia assolutamente
necessario, se non certamente sufficiente, a produrre concetti.
Quest'ambito è quello che riguarda il pensiero nella sua accezione più alta
e dentro di esso indubitabilmente sta la filosofia. Cercherò quindi di
affrontare le argomentazioni di Edward Sapir e di Benjamin Lee Whorf
come produzione filosofica e allo stesso tempo come una critica sui limiti,
le possibilità e le ambizioni della filosofia stessa.
7 [Niemeier, Dirven, 1984: XII( Sebbene dimostrazioni di questo tipo persuaderanno qualcuno, l'esperienza indica che
non impressioneranno coloro i quali dubitano che vi siano più ampi effetti della lingua sul pensiero. Perciò, allo
stato attuale, possono essere di sostegno, ma non determinanti in una valutazione della relatività linguistica. )]
Gottfried Wilhelm Leibniz
Leibniz (1646-1716) fu probabilmente il primo filosofo occidentale a
occuparsi di linguistica, o di indagine empirica sul linguaggio, come si era
soliti definirla ai suoi tempi. Egli si interessò particolarmente di linguistica
comparata, prevalentemente nel campo delle lingue europee, ma non solo.
Egli raggiunse il risultato di evidenziare alcune tra le relazioni
genealogiche ormai universalmente riconosciute, come quelle intrattenute
dalle lingue appartenenti alla famiglia linguistica indoeuropea (al suo
tempo chiamata “celto-scitica”) e dalle lingue appartenenti alla famiglia
semitica ( a quel tempo “aramaica”), e all'interno di esse, da alcuni suoi
sottogruppi, interessandosi in principale modo allo studio del sottogruppo
germanico. Questa figura poliedrica fu in qualche modo precursore di
alcuni concetti che furono propri di Sapir e, in misura minore, di Whorf,
nonché punto di riferimento nel pensiero sul linguaggio di Herder e di
Humboldt.
La possibilità di un'origine linguistica onomatopeutica, benché considerata
come secondaria rispetto all'origine divina, come è stata espressa
nell'articolo “Epistolica de historia etymologica dissertatio”8 del 1712,
non sembra poi così distante dalla teoria del simbolismo fonetico espressa
da Sapir in diversi suoi articoli; entrambe le tesi prospettano, infatti,
l'origine del linguaggio come derivante da valori direttamente e
istintivamente simbolici propri di alcuni suoni. I movimenti degli organi
vocali attuati per produrre tali sonorità, avrebbero un significato
primariamente gestuale o mimico: in questo modo, per esempio, la vocale
“A”, vocale da pronunciarsi tramite una certa apertura della bocca, sarà il
segno per “grande”, “largo”, laddove “i”, che prevede un'apertura della
bocca di minore portata, comunicherà il concetto di “piccolo” o “stretto”.
Da un principio simile sembra pure derivare il concetto whorfiano di
“oligosintesi”. Secondo tale concetto, infatti, ogni singolo suono d'una data
lingua, ogni suo singolo fonema, sarebbe il portatore di un proprio valore
semantico, idea già presente all'interno dell'interpretazione biblica della
tradizione cabalistica.
8 [Leibniz, 1995: 68-93]
Con Sapir, Leibniz condivide pure il progetto di edificazione di una lingua
artificiale quale strumento universale per la discussione filosofica e
scientifica. La Grammatica Rationalis del filosofo tedesco sembra voler
provvedere agli stessi obbiettivi in base ai quali Sapir affermava l'utilità
della costruzione di una lingua ausiliare internazionale, progetto che non
verrà invece condiviso da Whorf, il quale considerava fondamentale
mantenere in vita quante più lingue possibili, in quanto ognuna di esse
permetteva un diverso punto di vista sulla realtà, punti di vista che
sarebbero andati persi nel tentativo di sintesi affidato a una lingua
artificiale. La Grammatica Rationalis di Leibniz si basava sull'idea che vi
fosse un numero piuttosto ridotto di concetti semplici a partire dal quale si
articola l'intero campo del pensiero umano: compito di un tale linguaggio
sarebbe quindi dovuto consistere nell'identificare questi concetti basilari,
affidare loro un segno e definire le regole tramite cui questi segni
potessero produrre idee articolate. Questo metodo avrebbe così trasformato
il ragionare su qualsiasi argomento, in un calcolo preciso.
Nell'articolo intitolato “Pensieri senza pretese intorno all'uso e al
miglioramento della lingua tedesca” (1696-97), Leibniz afferma: “Una
lingua, per quanto povera essa sia, può invero esprimere tutto”9. Le parole
qui citate esprimono lo stesso concetto che Sapir indicò con il termine
completezza formale, concetto che, come mi appresterò più avanti a
mostrare, sarà centrale per la comprensione della posizioni sapiriane circa
il rapporto tra lingua e pensiero. Questo concetto sarà ribadito pure da
Humboldt, confermando così la presenza di una certa continuità di
pensiero tra questo filone della filosofia tedesca e il pensiero di Sapir.
Nell'opera di Whorf, non si riuscirà invece a trovare affermazioni circa la
possibilità propria di ogni lingua di potersi riferire a qualsiasi referente, sia
esso un elemento materiale o ideale; invero alcune posizioni espresse da
quest'ultimo sembrano entrare in contrasto con un tale principio.
Ma, soprattutto, Leibniz non fu alieno da quel pensiero per cui la lingua
non sia per il pensiero, semplicemente un veicolo attraverso cui esprimersi,
ma parte integrante della sua formazione. Questo lo si potrebbe anche solo
dedurre dall'impegno per la costruzione per la Grammatica Universalis;
per la scienza una tale grammatica non sarebbe stata dopotutto solamente
un modo per comunicare le posizioni raggiunte, ma un nuovo modo di
ragionare “ .....noi abbiamo bisogno di segni non solo per manifestare agli
altri la nostra opinione, ma anche per aiutare i nostri stessi pensieri....”10.
9 [Leibniz, 1995:“Pensieri senza pretese intorno all'uso e al miglioramento della lingua tedesca”: 117]
10 [Leibniz, 1995:“Pensieri senza pretese intorno all'uso e al miglioramento della lingua tedesca”: 98]