consapevoli che ciò avrebbe comportato uno sforzo ricostruttivo
tenente in considerazione non solo le grosse conquiste che le Regioni
hanno raggiunto nella dialettica dei rapporti con le istituzioni europee,
ma anche l’evolversi dei caratteri del nostro sistema regionale,
all’interno di un quadro nel quale l’assetto delle competenze centro-
periferia viene rivisitato alla luce di principi nuovi (vedi, ad esempio,
quello della sussidiarietà) che puntano a facilitare la devoluzione di
competenze ai soggetti di governo più vicini ai beneficiari finali
dell’azione, cioè i cittadini.
Il nostro intento è stato, quindi, quello di porre in parallelo questi
due processi, che hanno visto le Regioni quale comune soggetto
destinatario, ma che si sono sviluppate in due diversi ambiti di
riferimento, quello nazionale e quello comunitario, cercando alla fine
di far emergere e far risaltare il rinnovato ruolo che le Regioni e gli
Enti locali sono venuti a ricoprire sia all’interno della politica di
coesione economica e sociale che all’interno del processo di
devoluzione delle competenze che sta caratterizzando in questi ultimi
anni il nostro sistema costituzionale. Il punto di approdo è
rappresentato dalla nuova programmazione comunitaria dei Fondi
strutturali 2000-2006 che, oltre a rafforzare i principi del partenariato
e della concentrazione, ha introdotto un nuovo strumento di sviluppo
territoriale, cioè il Programma integrato, nella doppia specie di PIT
(Programma Integrato Territoriale) e PIS (Programma Integrato
Settoriale), grazie al quale per la prima volta gli Enti territoriali sono
divenuti a pieno titolo agenti dello sviluppo locale.
Partendo da questo nodo problematico, abbiamo deciso di dividere il
lavoro di ricerca in 6 capitoli, ognuno dei quali rivolto all’analisi di un
particolare argomento connesso al tema di cui sopra.
Nel primo capitolo, intitolato “L’evoluzione dei rapporti Regioni-
CE”, focalizzeremo la nostra attenzione dapprima sul come si è
evoluto il ruolo delle Regioni nella dialettica dei rapporti Stato- CE,
rilevandone l’evoluzione nella partecipazione all’elaborazione (c.d. fase
ascendente) e poi realizzazione (c.d. fase discendente) di quelle politiche
comunitarie suscettibili di incidere nelle materie di competenza
regionale. Vedremo come si è trattato di un obiettivo difficile da
perseguire, al quale si frapponevano ostacoli sia di natura legislativa
che di altro genere: innanzitutto l’art.189 del Trattato di Roma, che
pone importanti limitazioni alle Regioni non solo per ciò che attiene
alla loro potestà amministrativa ma anche per quanto riguarda la loro
potestà legislativa; in secondo luogo, il fatto che i rapporti tra Regioni
e ordinamento comunitario sono descritti, nei trattati istitutivi, in
termini di “estraneità”; in ultimo, il prevalere di una concezione che
tendeva ad assimilare le problematiche comunitarie a quelle
internazionali e in cui i rapporti comunitari erano percepiti come
rapporti esterni allo Stato, e come tali rientranti nell’esercizio del
potere estero di competenza esclusiva dello Stato centrale (esclusività
del c.d. potere estero dello Stato).
Dopo aver rilevato questa difficile situazione in cui le Regioni non
hanno un proprio ruolo nell’ordinamento comunitario e vedono
assottigliare la loro presenza anche nell’ordinamento nazionale
passeremo ad esaminare, nel paragrafo II, quelle che sono le più
recenti evoluzioni fatte registrare sia sul versante comunitario che su
quello nazionale.
Nel paragrafo III approfondiremo quello che è stato appena sfiorato
nei primi due paragrafi, consapevoli che l’esaminare il problema del
coinvolgimento delle Regioni nelle politiche comunitarie e
dell’evoluzione dei rapporti tra Regioni e Comunità Europea avrebbe
significato porsi sotto due diversi angoli visuali: quello interno,
nazionale, e quello esterno, comunitario. Cominceremo dapprima con
il livello nazionale, rilevando come l’attuazione dell’ordinamento
regionale ordinario, seppur avvenuta in periodo di pieno sviluppo del
sistema comunitario, non garantiva alcuna forma di partecipazione
delle Regioni all’elaborazione delle posizioni italiane in tema di politica
comunitaria. Su questo versante mancava e manca un’apertura
istituzionalizzata verso la partecipazione delle Regioni alla
determinazione delle scelte governative relative agli indirizzi
comunitari nelle materie rientranti nelle loro competenze. A ciò si
aggiunga la presenza di un quadro normativo all’interno del quale
l’instaurazione di rapporti diretti tra le Regioni e la Comunità era
impossibile perché mediata dalla presenza statale. Solo a partire dalla
metà degli anni ’80 sono avvenuti rilevanti sviluppi, principalmente ad
opera di tre leggi, da cui è scaturito un nuovo modello di governo per
le politiche comunitarie e con le quali sono state introdotte alcune
misure organizzative e procedurali aventi la finalità di consentire alle
Regioni di far sentire la loro voce in rappresentanza degli interessi
delle proprie comunità, nella formazione degli indirizzi che il Governo
intende far valere nelle istituzioni comunitarie. A questo proposito,
parleremo della L. 16 aprile 1987, n.183 (c.d. Legge Fabbri) sul
coordinamento delle politiche riguardanti l’appartenenza dell’Italia alle
Comunità europee; della L. 23 agosto 1988, n.400 sulla riforma
dell’attività di governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri; e,
infine, della L. 9 marzo 1989, n.86 sulla partecipazione dell’Italia al
processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli
obblighi comunitari. Dopo aver esaminato il contenuto di queste leggi
concluderemo il nostro discorso sul regionalismo nazionale
accennando alla L.59/97 e conseguente D.Lgs.112/98 e al recente
testo di riforma costituzionale del Titolo V della parte II della
Costituzione, nella consapevolezza che la scarsa visibilità di cui hanno
sofferto le Regioni nel quadro dei rapporti con la Comunità risentiva
indirettamente anche della situazione istituzionale interna al nostro
Paese e di quell’endemico stato di malessere derivante dalla lettura
ambigua cui si prestavano e si prestano le disposizioni costituzionali
relative alle Regioni e agli Enti locali
Diversa la situazione sul versante comunitario, soprattutto da quando
le Regioni sono state riconosciute come soggetti esponenziali,
articolazione del sistema comunitario. Certo, la Comunità Europea ha
scoperto un po’ tardi la dimensione regionale, principalmente per la
sua originaria configurazione internazionalistica di organizzazione
fondata su un Trattato tra Stati sovrani che escludeva il riferimento ad
enti substatali come le Regioni. Ma con la progressiva configurazione
dell’ordinamento comunitario come tertium genus rispetto ai
tradizionali connotati del diritto internazionale e di quello statuale, il
rapido evolversi delle politiche regionali e l’affermarsi di principi che
favoriscono il decentramento istituzionale assieme alla responsabilità
degli enti regionali e locali, la Comunità è giunta a ridefinire
l’articolazione dell’Unione su tre livelli, il primo dei quali
rappresentato dalle Regioni e dagli organismi similari, come i Lander e
le Regioni. Tra gli anni ’80 e gli anni ’90, così come stava avvenendo a
livello nazionale, anche in ambito comunitario la situazione comincia a
cambiare e sono le stesse istituzioni comunitarie che si fanno
promotrici di un processo volto a conferire maggiore visibilità alle
Regioni. A questo proposito, nel paragrafo intitolato “Il regionalismo
comunitario” accenneremo alle posizioni ricoperte dalla
Commissione, che con decisione n.487 del 1998 ha istituito il Consiglio
consultivo degli Enti Regionali e Locali con l’obiettivo di realizzare una loro
partecipazione all’elaborazione ed attuazione della politica regionale
della Comunità, e del Parlamento europeo che, forte della sua
legittimazione democratica, ha lottato per il pieno riconoscimento
delle Regioni quali enti esponenziali responsabili direttamente dello
sviluppo delle politiche regionali della Comunità e ha adottato varie
risoluzioni (tra cui possiamo annoverare la risoluzione del 18
novembre 1988 sulla politica regionale della Comunità e il ruolo delle
Regioni; la risoluzione del 21 novembre 1990 sul principio di
sussidiarietà; ecc.) nelle quali ha sottolineato l’importanza della politica
regionale in quanto strumento per realizzare gli altri obiettivi
dell’integrazione comunitaria, quali la coesione e lo sviluppo
economico e sociale. Alle iniziative di queste due istituzioni si sono
poi affiancate quelle delle organizzazioni più rappresentative delle
realtà territoriali locali che hanno dato vita a diversi organismi, quali il
Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa (Ccre), il Comitato dei poteri
regionali e locali, l’Assemblea delle Regioni d’Europa (Are),i primi a trovare
una qualche udienza presso il Consiglio d’Europa. A conclusione del
nostro discorso sul regionalismo comunitario porremo il Trattato di
Maastricht, che ha rappresentato una tappa fondamentale per il
riconoscimento delle Regioni quale soggetto attivo, non più passivo,
sulla scena comunitaria; come soggetto territoriale, politico-
amministrativo e non semplicemente come area economica più o
meno uniforme sotto il profilo economico e sociale, destinataria
passiva di provvedimenti decisi da lontano e dall’alto. Espressione di
questo rinnovato ruolo partecipativo è rappresentato dall’istituzione
del Comitato delle Regioni (art.198 del Trattato di Maastricht), grazie
al quale le Regioni compiono un’ulteriore passo avanti nel loro
riconoscimento quale ulteriore livello comunitario accanto a quello
della Comunità e degli Stati membri, e vengono per la prima volta
chiamate a partecipare non più solo all’attuazione delle politiche
comunitarie, bensì all’elaborazione stessa di tali politiche.
Il secondo capitolo, intitolato “I principi generali sottostanti alla
politica di coesione e il loro riflesso sul piano dell’ordinamento
nazionale”, è dedicato all’analisi di quelli che sono i principi generali
sottostanti alla politica di coesione economica e sociale, e cioè il
principio di sussidiarietà, del partenariato, della concentrazione,
dell’addizionalità e della programmazione, facendo emergere due
aspetti: da un lato, l’evoluzione storica che essi hanno percorso dalla
nascita della politica comunitaria strutturale fino ai giorni nostri;
dall’altro, mostrando come due di questi principi oltre ad avere una
loro rilevanza in ambito comunitario hanno trovato sistemazione
anche nell’ordinamento interno. Ci riferiremo, in particolare, ai due
principi della partnership e della sussidiarietà che, nonostante si siano
sviluppate con modalità ed intensità diverse rispetto all’ambito
comunitario, costituiscono lo strumento attraverso cui il sistema delle
Autonomie territoriali è potuto pervenire a ricoprire un ruolo di
rilievo sia nell’ambito della politica comunitaria a finalità strutturale,
con una presenza più direttamente partecipativa alla definizione delle
priorità di sviluppo e gestionale delle relative linee attuative, che
nell’ambito di quella nazionale. Così, ad esempio, il principio di
sussidiarietà, che seppur non originariamente esplicitato nella nostra
Costituzione, ha ispirato la divisione delle competenze tra lo Stato e le
Regioni, divenendo con la L.59/97 (art.4, co.3°) il principio cardine
del vasto e lungo processo di devoluzione dei poteri dal centro alla
periferia e il limite allo svolgimento di funzioni amministrative da
parte di organi ed enti centrali, troppo lontani dai cittadini, beneficiari
ultimi dell’azione di governo.
Una volta conclusa l’esame di questo aspetto della politica di
coesione economica e sociale ci soffermeremo nel capitolo terzo,
intitolato “L’evoluzione dell’intervento comunitario a finalità
strutturale: dal Trattato di Roma alla programmazione comunitaria
1994-1999”, su un altro punto a nostro avviso abbastanza importante
per cercare di capire il come si sia giunti alla nuova programmazione
dei Fondi strutturali 2000-2006, ovverosia l’evoluzione cronistorica
dell’intervento comunitario a finalità strutturale dalle origini (Trattato
di Roma) all’esperienza programmatoria relativa al periodo 1994-1999.
L’iter ricostruttivo comincerà innanzitutto con il rilevare che l’analisi
storica delle politiche strutturali condotte dall’UE, quali principali
strumenti per realizzare la coesione economica e sociale, non è affatto
facile perché manca, o meglio non è unanimamente acquisito, cosa
debba intendersi per politica strutturale; in secondo luogo, per il fatto
che la lettura rinvenibile in materia non è sufficientemente ampia e
definita. Premesso questo, cominceremo la nostra ricostruzione
distinguendo tre fasi, ciascuna caratterizzata da una sempre maggiore
presa di coscienza del problema regionale e dall’allestimento di idonei
strumenti per tentare di dargli soluzione. La prima è quella in cui
manca una vera e propria politica regionale e che va temporalmente
dal Trattato istitutivo della CECA all’istituzione nel 1975 del FESR.
La seconda e la terza fase, al contrario, si sono contraddistinte per la
crescente attenzione che questo tema è venuto gradualmente a
ricoprire, divenendo motivo di interessamento di un pubblico più
vasto e ponendosi al centro del dibattito politico. In particolare, la
seconda fase è quella che inizia con l’adozione del regolamento
istitutivo del FESR e arriva fino alla firma dell’Atto Unico Europeo
(AUE). Essa si caratterizza per il progressivo intensificarsi della
politica comunitaria; per l’avvio di una programmazione, sia
procedurale che finanziaria, più rigorosa degli interventi e per
l’inaugurazione di un approccio integrato, non più settoriale, ai
problemi dello sviluppo socio- economico. Simbolo di questa nuova
fase sono i Programmi Integrati Mediterranei (PIM), che hanno
costituito un passaggio fondamentale nell’evoluzione della politica
strutturale comunitaria, rappresentando un’indubbia novità rispetto ai
tradizionali strumenti sino ad allora utilizzati. È stato proprio grazie
all’esperienza dei PIM che si è assistiti, per la prima volta, al diretto
coinvolgimento istituzionale dei livelli di governo infrastatuali in
processi decisionali ed operativi attinenti ad interventi della Comunità.
A sua volta, l’AUE (1986) ha introdotto un nuovo capitolo nel testo
del Trattato appositamente dedicato alla coesione economica e sociale
(Titolo V, art.130A- 130E) e ha posto le premesse per l’avvio della
terza fase, che ha avuto inizio con la Riforma del 1988. Quest’ultima,
al fine di assicurare una maggiore efficacia e un impatto economico
intensificato all’azione strutturale comunitaria, ha introdotto da un
lato importanti principi volti alla razionalizzazione dei metodi di
intervento e ad una migliore gestione delle risorse del bilancio
comunitario destinare ai Fondi strutturali; dall’altro, ha previsto
l’incremento delle risorse finanziarie messe a disposizione per la
politica strutturale. Tuttavia, ciò che è più importante è che la
programmazione operativa degli interventi strutturali nel periodo
1989/93 ha comportato il trapasso, nell’affrontare i problemi dello
sviluppo, dagli “interventi a pioggia” ad un’azione di tipo integrato,
tipica delle politiche di coesione., da una logica per progetti ad una per
programmi. Da questo momento in poi la programmazione diviene
regola per tutte le azioni strutturali comuni e anche per le azioni
nazionali.
Dopo aver esaminato nei paragrafi 5 e 6 quelle che sono state le
novità introdotte dalla Riforma del 1988, abbiamo visto nel paragrafo
7 come è stata attuata tale Riforma in Italia, facendo alcune
considerazioni sulla gestione dei Fondi strutturali nella
programmazione 1989-1993 ed evidenziando le cause che hanno
impedito al nostro Paese di utilizzare in maniera efficiente le risorse
finanziarie comunitarie.
Una volta terminata questa disamina critica, affronteremo nel
paragrafo 8 ciò che è avvenuto con la firma del Trattato sull’UE,
ponendo l’accento sulle conseguenze che questo ha prodotto in tema
di politica regionale grazie all’istituzionalizzazione del principio di
sussidiarietà e all’istituzione del Comitato delle Regioni, ma
soprattutto rilevando il ruolo di protagonismo che si è costituito
attorno all’ente Regione con le ipotesi di regionalizzazione dello
spazio geografico europeo e la costruzione di uno spazio europeo di
tipo regionalista/ federalista
Nonostante il Trattato Maastricht abbia promosso queste importanti
iniziative e prodotto delle forti aspettative i risultati sono stati
piuttosto modesti. Così, ad esempio, il principio di sussidiarietà, che
non ha soddisfatto coloro che avevano auspicato un suo inserimento
nell’ordinamento comunitario al fine di tutelare i livelli sub- statali di
governo di fronte all’accentramento di competenze in favore della
Comunità e dei Governi centrali.
Dopo aver rilevato le maggiori novità introdotte sul piano gestionale,
procedurale e finanziario dalla programmazione 1994-1999, vedremo
come i nuovi criteri per la programmazione della politica strutturale
comune hanno influenzato la politica regionale italiana e come si è
sviluppato l’iter programmatorio, dall’elaborazione del Piano di
Sviluppo Globale fino alla programmazione operativa degli interventi.
Questa analisi, al contempo, ci permetterà di far emergere quelli che
sono stati i fattori posti alla base di un’inefficiente utilizzo delle risorse
comunitarie e che si pensava di rimuovere con la nuova
programmazione 1994-99, ma che invece sono rimaste.
Una volta terminata questa ricostruzione storica affronteremo nel
capitolo quarto, intitolato “L’evoluzione della politica regionale
nazionale: la soppressione dell’intervento straordinario nel
Mezzogiorno e la restituzione alle Regioni delle competenze in
materia di riequilibrio territoriale”, un ulteriore elemento della politica
strutturale comunitaria, ovverosia i rapporti e gli aspetti che la legano
alla politica regionale nazionale. Partiremo premettendo che, fino al
1993, la politica regionale italiana, volta progressivamente ad abbattere
la presenza dei forti divari nei livelli di sviluppo delle collettività locali
fra le Regioni dei Nord e quelle del Centro- Sud , ha vissuto in
rapporto simbiotico con la politica dell’intervento straordinario nel
Mezzogiorno. Illustreremo, quindi, come si è evoluta la politica
regionale nazionale descrivendo brevemente quelle che erano le
strutture e i protagonisti chiamati, a livello nazionale, a dare attuazione
alla politica di riequilibrio territoriale Nord- Sud. Una volta terminata
questa analisi, ci soffermeremo su quelle che sono state le cause che
hanno messo in crisi questa megastruttura e che hanno portato al
referendum del 1992 col quale è stata sfaldata la concezione originaria
di intervento straordinario. La soppressione dell’intervento
straordinario e l’impostazione di una nuova politica regionale
nazionale avevano, però, mostrato in tutta la loro evidenza gli aspetti
problematici derivanti dalla mancanza di qualsiasi forma di
coordinamento e raccordo con la politica regionale comunitaria, o
meglio la mancata integrazione delle strutture chiamate a gestire i
Fondi strutturali all’interno delle strutture preposte all’attuazione della
politica regionale nazionale. Partendo da questa premessa, nel
paragrafo 2 vedremo come è venuta a cambiare la situazione nel
momento in cui la politica regionale comunitaria non ha potuto più
fare affidamento sulle strutture, sulle modalità operative e sulle risorse
finanziarie dell’intervento straordinario, in concomitanza con l’inizio
della nuova programmazione 1994-1999. Ciò ha prodotto l’esigenza di
potenziare gli aspetti del coordinamento degli interventi comunitari
nel Mezzogiorno e nelle altre zone depresse del territorio nazionale e
di armonizzare, nelle procedure e nelle modalità d’intervento, la
politica regionale italiana con la disciplina comunitaria. Un’esigenza di
armonizzazione che si è tradotta, sul piano nazionale, in una serie di
interventi normativi (vedi L.488/92 e D.Lgs.96/93), che hanno
ridisegnato l’assetto organizzativo e cambiato l’ispirazione di fondo
della nuova politica regionale.
Il capitolo quinto, invece, intitolato “I protagonisti della politica di
coesione economica e sociale: l’assetto delle competenze delle
amministrazioni nazionali e regionali in ordine all’utilizzazione dei
Fondi strutturali”, è volto a fornire un quadro di sintesi di quelli che
sono i soggetti coinvolti a livello nazionale, direttamente o
indirettamente, nella gestione delle politiche comunitarie a finalità
strutturale. Tuttavia, prima di procedere ad esaminare nel dettaglio
l’assetto che amministrazioni centrali e regionali si sono date per
l’utilizzo dei Fondi strutturali, faremo una premessa sottolineando
come lo sviluppo della Comunità Europea abbia inciso in maniera
significativa sui sistemi amministrativi nazionali dando vita a
trasformazioni degli apparati organizzativi e determinando importanti
conseguenze in ordine allo stesso ruolo dell’amministrazione
italiana. Dopo aver premesso ciò, nel paragrafo 2 descriveremo le
strutture e gli organismi coinvolti a livello nazionale nelle relazioni
comunitarie, evidenziando anche come si sia trasformato il novero
delle competenze loro riconosciute a seguito di alcuni interventi
normativi (è il caso del CIPE e del Ministero del Tesoro, del Bilancio
e della Programmazione Economica). Una volta terminato l’esame
dell’organigramma per così dire “centralistico” di gestione della
politica di coesione economica e sociale, passeremo nel paragrafo 3
alla descrizione dei soggetti coinvolti a livello regionale, soffermandoci
in particolare sulla Cabina di regia regionale e sulla ripartizione delle
competenze tra Giunta e Consiglio in ordine alla “materia
comunitaria”.
Nel capitolo III, come ricorderemo, avevo aperto una breve parentesi
sul come si fosse evoluta la politica comunitaria a finalità strutturale
dal Trattato di Roma fino alla programmazione comunitaria relativa al
periodo 1994-1999, rimandando ad un momento successivo l’analisi
dettagliata e critica di quella che è la programmazione comunitaria
2000-2006. Questo momento giunge a conclusione del nostro
lavoro di ricerca ed è il capitolo VI che ci permette di farlo.
Nel capitolo sesto, intitolato “La nuova programmazione
comunitaria 2000-2006 e i suoi principali caratteri innovativi, con
riferimento al ruolo regionale e locale”, procederemo seguendo due
percorsi paralleli: da un lato, nel paragrafo 1, ripercorreremo le fasi
che da Agenda 2000 hanno portato all’adozione dei nuovi regolamenti
sui Fondi strutturali per la programmazione 2000-2000; dall’altro, nel
paragrafo 2, descriveremo l’iter che è stato seguito dal nostro Paese
per approntare la nuova programmazione dei Fondi strutturali, nella
consapevolezza che questa sarebbe stata l’ultima volta in cui il sistema
Italia avrebbe beneficiato dell’apporto delle risorse strutturali.
Una volta terminata l’analisi di quanto avvenuto a livello comunitario,
ci sposteremo sul versante nazionale ripercorrendo le tappe che hanno
portato l’Italia dalla presentazione del documento “Cento idee per lo
sviluppo. Schede di programma 2000-2006”, discusso a Catania il 2-4
dicembre 1998 all’elaborazione del QCS per le Regioni italiane
dell’ob.1 e dei DocUP per le Regioni del Centro- Nord, avendo il fine
ultimo di far emergere il nuovo protagonismo che il sistema delle
Autonomie territoriali è venuto a rivestire nella nuova
programmazione grazie al rafforzamento del principio del partenariato
istituzionale ed economico- sociale e all’implementazione della
programmazione integrata territoriale.
Il paragrafo III, infine, sarà dedicato ad un esempio di
programmazione comunitaria strutturale, cioè quella della regione
Abruzzo per il periodo 2000-2006, nel quale tenteremo di capire se la
ripartizione delle competenze tra Giunta e Consiglio in materia di
politiche comunitarie è rimasta immutata e se la Giunta ha continuato
a detenere una posizione di preminenza rispetto al Consiglio.
Capitolo I
L’evoluzione dei rapporti Regioni- CEE in tema di
politica comunitaria.
Introduzione.
In questo primo capitolo, che rappresenta l’apertura del nostro lavoro di ricerca ed
analisi, metteremo a fuoco la nostra attenzione dapprima sul ruolo che le Regioni hanno
assunto nella partecipazione alle politiche comunitarie, sia nella “fase ascendente”, di
partecipazione alla formazione, che “discendente”, di corretta applicazione degli atti
normativi sovranazionali, rilevando l’ostilità che le Regioni hanno incontrato
nell’instaurare rapporti diretti con le istituzioni comunitarie , in vista della tutela del
loro legittimo interesse ad incidere su decisioni che avevano effetti sempre più
accentuati sulla disciplina di settori che la Costituzione affidava espressamente alla loro
competenza.
Successivamente, evidenzieremo il percorso evolutivo battuto dal soggetto Regioni
verso una più ampia presa di coscienza della loro presenza da parte dei soggetti
istituzionali comunitari e nazionali. A questo riguardo dobbiamo, infatti, ricordare che
agli inizi degli anni ’80 si è aperta una nuova stagione per le Regioni, sia sul versante
comunitario che nazionale, che ha visto l’acuirsi della crisi dei sistemi giuridici e
istituzionali fondati sullo strapotere degli organi centrali di governo e la
nascita/rafforzamento di istituzioni di tipo regionale. Sul versante nazionale ciò è potuto
avvenire perché sono state avviate, agli inizi degli anni ’90, una serie di riforme che
hanno progressivamente declassato lo Stato e portato ad un accentramento di poteri, sia
legislativi che amministrativi, nelle mani degli organi di governo periferici; sul versante
comunitario, invece, il fattore scatenante è da ricercarsi nello sviluppo delle politiche
regionali della Comunità, nella nascita di organismi a forte connotazione regionalista
(vedi Comitato delle Regioni) e nell’introduzione del livello amministrativo regionale
nei processi decisionali della Comunità.
Dopo aver esaminato ciò che accade, in termini di rapporti, tra Regioni e Comunità
europea, sposteremo nel paragrafo 3.1.2 la nostra attenzione alla recente evoluzione che
ha fatto registrare il rapporto intercorrente tra il governo centrale e i poteri periferici
(impersonati dalle regioni, province, comuni, comunità montane, ecc.), poiché anche in
questo ambito le Regioni hanno dovuto battersi a lungo e con tenacia per vedersi
riconosciuti ambiti di esercizio del potere legislativo e amministrativo che lo Stato si
ostinava a mantenere nelle proprie mani, nonostante riguardassero materie di
competenza regionale. Il nostro discorso ricostruttivo procederà dalla legge delega
59/97 e conseguente decreto attuativo 112/98, per approdare al progetto di riforma del
Titolo V della Parte II della Costituzione, che dopo essere stato approvato in prima e
seconda lettura da entrambi i rami del Parlamento, attende di essere sottoposto a
referendum popolare onde dispiegare i suoi effetti e divenire operativo.
Infine, a conclusione di questo primo capitolo, accenneremo a quella che è stata la
funzione ricoperta dalla Carte Costituzionale per risolvere quelle controversie ed aspetti
problematici che potevano nascere in tema di rapporti Regioni- Comunità europea.
1. Il ruolo delle Regioni nella partecipazione alle politiche comunitarie e
le loro relazioni con le istituzioni comunitarie.
Il discorso inerente ai rapporti tra Regioni e Comunità europea ha subito con il
processo di integrazione politico- economico e, da ultimo con la firma del Trattato di
Maastricht, un nuovo slancio in direzione di un ruolo più incisivo dell’ente Regione.
Sembra infatti che, per una maggiore valorizzazione delle autonomie regionali, si
debba confidare non solo negli interventi e nei mutamenti di tendenza dei poteri centrali
dello Stato, ma anche, in buona misura, in tale processo e nell’accelerazione che esso ha
avuto in questi ultimi tempi.
E’ apparso, tuttavia, con evidenza che gli strumenti di partecipazione previsti (dalle
osservazioni che le Regioni possono inviare al Governo sui progetti dei regolamenti,
delle raccomandazioni e delle direttive della Comunità europea, alla consultazione della
Conferenza Stato- Regioni sugli indirizzi generali relativi alla elaborazione ed
attuazione degli atti comunitari che riguardano le competenze regionali ed alle altre
forme di intervento regionale di cui alle leggi nn.183 del 1987 e 86 del 1989) o sono
inadeguati o sono stati, sinora, scarsamente utilizzati.
Ecco la ragione per la quale, nell’evoluzione del processo di integrazione europea,
occorre far leva sull’indirizzo impresso dalla Comunità alla politica regionale, secondo
il quale le Regioni degli Stati membri, da una parte, sono sempre più considerate come
il più idoneo ambito di azione della politica comunitaria e, dall’altra, come un vero e
proprio livello istituzionale (anche se in misura ancora non del tutto completa) della
Comunità. Tutto ciò ha prodotto, come sua naturale conseguenza che, mentre prima
spettava esclusivamente agli Stati membri determinare la ripartizione interna delle
competenze, adesso tale compito è stato, sia pur parzialmente, assegnato agli organi