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desiderati e pertanto bassa fertilità; se invece le donne rinunciano alla carriera, il risultato più
probabile è un drammatico innalzarsi del rischio di povertà per l’intero nucleo familiare
3
(Ibidem; Reyneri, 1996). Questo perché il sistema di welfare italiano ha di fatto sino ad oggi
“scaricato” sull’impiego il compito di assicurare un livello adeguato di sicurezza sociale ai
singoli (e alle loro famiglie), a condizione che questi abbiano lavorato e contribuito in maniera
sufficiente (Barbieri, 2002 pag. 13). Forse non si può sostenere che oggi in Italia il possesso di
un’occupazione rappresenti un privilegio ma si può certamente affermare che esso si configura
come un vantaggio cruciale del grado di autonomia personale e delle opportunità di
partecipare alla vita associata.
La riforma dell’assicurazione sociale in Italia è lenta, questo per almeno due motivi. In primo
luogo i welfare del continente europeo sono stati costruiti dai conservatori e proprio queste
stesse forze si dedicano oggigiorno essenzialmente alla loro sopravvivenza. E’ quindi
sintomatico che la maggior parte dei governi a guida conservatrice
4
, oggi siano alla ricerca di
soluzioni che implichino un rafforzamento dell’edificio esistente.
In secondo luogo, non c’è dubbio che il funzionamento dei tradizionali schemi di protezione
sia diventato chiaramente inadeguato alle trasformazioni, ma nel sostenere le attuali politiche e
nel rifiutare nuovi modelli c’è anche l’idea che le garanzie sociali inducano inattività. Questa
idea è vecchia quanto lo stesso capitalismo ma è servita, nei più difficili anni ’80 e ’90, ad
alcuni aggiustamenti verso il basso dell’ammontare del sussidio di disoccupazione o della sua
durata.
Dalle analisi fatte da Schizzerotto (2005), non è stato possibile dimostrare che almeno uno dei
caratteri regolativi di volta in volta presi in considerazione (assetto delle relazioni industriali,
meccanismi di protezione occupazionale, livelli salariali, costi del lavoro e sussidi di
disoccupazione) esercitasse stabili effetti diretti sulla proporzione di persone alla ricerca di un
3
Il numero di bambini presenti nella famiglia ha un effetto negativo sulla probabilità di uscire dalla povertà:
soprattutto perché i bambini consumano ma non guadagnano (ovvero il reddito equivalente si riduce
automaticamente ogni qualvolta si aggiunge un nuovo bambino alla famiglia). A parità di altre condizioni, chi
vive in una famiglia con 3 bambini ha un tasso di uscita che è quasi il 32% più basso di chi vive in una famiglia
in cui non ci sono bambini (Devincenti Gualtieri, 2004).
4
Nella prima repubblica la DC, oggi quasi tutti i partiti del centro-destra, più una discreta presenza anche tra i
partiti dell’Unione. Senza dimenticare alcuni sindacati e varie categorie di professioni come: tassisti, farmacisti,
avvocati ,ecc..
6
impiego. Anzi, i modelli di regolazione hanno un’affinità con i regimi di welfare
apparentemente paradossale.
Mentre i regimi liberali presentano bassi indici di “rigidità” del mercato del lavoro, l’opposto
vale nel caso dei regimi conservatori: Italia, Francia e Germania mostrano livelli
straordinariamente alti di rigidità. L’apparente paradosso si manifesta quando si arriva a
esaminare i paesi nordici; si tratta di nazioni con una lunga tradizione di sindacati potenti e
anche di guida socialdemocratica
5
. Sebbene tali paesi combinino eguaglianza salariale con un
welfare state che assicura benefici abbondanti, i loro mercati del lavoro sono generalmente
molto flessibili secondo gli standard internazionali (Esping-Andersen, 1999 pag. 189). Questo
modello Rhen-Meidner è nato deliberatamente per accelerare il declino occupazionale nelle
industrie non competitive, al fine di riallocare il lavoro nei settori più dinamici (quindi i
servizi). Oggi i tassi di occupazione di questi Paesi sono molto alti rispetto a quelli Sud-
Europei (Ibidem; Leonardi, 2005).
Presentazione dei capitoli
Saranno presentate nel primo capitolo le dinamiche della povertà relativa e assoluta nel
contesto italiano. Soprattutto cercheremo di capire quale delle teorie sul tema dell’esclusione
sociale sia più opportuna: la prima è quella dei teorici dell’individualizzazione dei corsi di
vita, secondo i quali nella società postmoderna la povertà, la vulnerabilità, la deprivazione si
configurano come fenomeni ampiamente diffusi e transitori, sempre meno strutturati dalla
tradizionale appartenenza di classe e di ceto, di istruzione, di genere e generazione. Tanto il
successo quanto l’insuccesso sociale rappresentano stati fluidi e transitori che originano da
particolari transizioni di corso di vita (Lucchini Sarti, 2005 pag. 240). Ai sostenitori di questo
approccio si contrappongono i teorici della strutturazione delle classi sociali, i quali pongono
in luce come causa dell’esclusione sociale, una sostanziale stabilità nel tempo e nello spazio
dei legami tra origine sociale, grado di scolarità, destini occupazionali e rischi di deprivazione,
a dispetto delle riforme (nel caso italiano, come abbiamo detto piuttosto deludenti) introdotte
5
Si veda anche in questo caso il sistema Ghent in Appendice.
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negli ultimi decenni nella nostra società ad economia di mercato e a regime politico
pluralistico
6
(Ibidem).
Dedicheremo un paragrafo alla “persistenza della povertà”, nel quale rileveremo se riguarda
principalmente determinate tipologie di individui/famiglie “sempre povere”, oppure se si tratta
di uno stato di povertà temporaneo e distribuito su tutta la popolazione.
Nel secondo capitolo verrà invece presentato come lo Stato ridistribuisce il reddito sociale, si
valuterà il ruolo delle pensioni e quanto queste incidono sul nostro Prodotto Interno Lordo.
Verranno mostrate le principali differenze tra un sistema pensionistico retributivo e
contributivo; cercheremo anche di capire le differenze che possono esserci con altri “regimi di
welfare”, in particolare quello danese.
Nel terzo capitolo saranno presentati i risultati del rapporto IRS sugli effetti della prima
sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento: questi dati saranno integrati con la
valutazione di Ferruccio Biolcati Rinaldi del “Reddito minimo vitale” nella città di Torino e
col lavoro di Bertoldi sul EITC americano.
In conclusione tireremo le somme di tutti i dati presentati per capire in generale se nel contesto
italiano serva oppure no un Reddito minimo e quali possano essere le sue principali
caratteristiche.
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In altre parole, sono le loro stesse caratteristiche a confinare alcuni individui al di sotto della soglia di povertà o
è piuttosto il fatto stesso di appartenere a questo stato che ne pregiudica le future possibilità d’uscita? La risposta
non può che essere al centro dei dibattiti sul disegno delle “policies”.
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1. LA POVERTA’ ALL’INTERNO DEL CONTESTO ITALIANO
La povertà relativa e assoluta
La povertà economica può essere vista contemporaneamente come una causa e come una
conseguenza di vicende di diversa natura. Tuttavia, come ci ricorda A. Sen (2002) se la
povertà economica non è la fonte esclusiva delle molteplici forme di disagio sociale, essa è di
per sé causa di incapacitazione, che impedisce non solo di raggiungere standard di vita più
favorevoli, ma anche di realizzare le proprie aspirazioni e potenzialità. Se ciò è vero diventa
fondamentale capire quali strumenti vengano usati per comprendere le dinamiche sulla
povertà.
L’Istat misura la povertà sulla base di due distinte soglie convenzionali:
1. una soglia “relativa”, dove viene considerata povera una famiglia di due persone con
una spesa mensile per consumi pari o inferiore alla spesa media pro-capite nazionale.
Si basa sull’assunto che la povertà sia un fenomeno strettamente dipendente dal tenore
di vita medio di una data comunità in un dato momento storico. Questa soglia viene
diminuita del 40% per le persone che vivono sole e aumentano del 33% per le famiglie
di tre componenti, del 60% per quelle di quatto componenti e così via (Brandolini,
2005);
2. una soglia "assoluta" basata sul valore monetario di un paniere di beni e servizi
essenziali, aggiornato ogni anno tenendo conto della variazione dei prezzi al consumo.
La scelta di stimare lo stato di benessere-malessere economico in base ai consumi
consente stime meno fluttuanti e più affidabili rispetto a quelle conseguibili attraverso i
dati sul reddito a causa delle minori resistenze a dichiarare le proprie spese piuttosto
che i propri guadagni
7
(Ibidem). In altre parole, si tratta di individuare “le minime cose
necessarie per il mantenimento della mera efficienza fisica” (Lucchini Sarti, Anno
2005).
7
La povertà assoluta è variabile a seconda della dimensione della famiglia.
9
Stando ai dati Istat (2005) nel 2004 le famiglie residenti in Italia che vivono in condizione di
povertà relativa sono 2 milioni 674 mila, pari all’11,7% delle famiglie residenti, per un totale
di 7 milioni 588 mila individui, il 13,2% dell’intera popolazione.
In base all’indagine dello stesso Istituto riferita ai consumi, nel periodo 1980-97, il tasso di
povertà relativa sarebbe cresciuto di quasi 3 punti percentuale (Boeri Perotti, 2002 pag. 43).
Nel periodo 1997-2003, la povertà relativa è rimasta sostanzialmente invariata fino al 2001,
per poi registrare un’importante flessione nel 2002, confermata nel 2003. Mentre la povertà
assoluta ha registrato maggiori oscillazioni nel periodo 1997-2000 (dal 4,6% al 4,3%), si è poi
assestata nel 2002
8
(Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, 2004
9
).
Nell’anno 2003 la soglia di povertà relativa per una famiglia di due persone è risultata pari a
869,50 Euro, corrispondente alla spesa media pro-capite per consumi di quell’anno, con una
oscillazione tra 521,70 euro per un solo componente e 2.086,80 euro per sette o più
componenti (Ibidem).
La diffusione della povertà appare significativamente in crescita tra le famiglie più numerose
(tra quelle di cinque o più componenti passa dal 21,1% al 23,9%); il gap cresce all’aumentare
dei familiari a carico, non solo per quanto riguarda le famiglie povere ma anche per l’insieme
complessivo delle famiglie
10
(Ibidem). L’Italia è l’unico Paese europeo in cui il rischio
relativo di povertà (cioè l’incidenza della povertà in una determinata categoria, relativamente
all’intera popolazione) è più elevato tra le famiglie con due adulti rispetto a quelle con un solo
adulto (Boeri Perotti, 2002 pag. 48).
In generale si scorge la difficoltà delle famiglie più numerose ad espandere le loro spese a
causa delle limitate risorse, che impongono un orientamento semiforzato alla parsimonia
11
(Rap. Povertà, 2004). Va sottolineato che lo scarto di 99 euro in meno o in più dalla linea di
povertà relativa definisce un’area di permanente incertezza tra peggioramento e miglioramento
delle condizioni economiche; si può quindi concludere che 7 famiglie italiane su 100 vivono in
8
Su un valore del 4,2%, dato dell’ultimo anno disponibile. In Italia i livelli di povertà sotto la soglia sono
aumentati perché i redditi medi reali non sono cresciuti (Förster Pearson 2002).
9
Che per comodità chiameremo Rap. Povertà, 2004.
10
Soprattutto quando almeno un figlio è minore e/o le coppie con persona a carico hanno almeno 65 anni.
11
I livelli di spesa più contenuti tra le famiglie numerose sono anche giustificati dal fatto che la maggioranza di
tali famiglie risiede nel Mezzogiorno del Paese.
10
quella che possiamo chiamare una povertà fluttuante (Brandolini, 2005; Devicienti Gualtieri,
2004).
Dal punto di vista territoriale, la povertà si caratterizza prevalentemente per fattori economici
nel Sud, mentre sono legati più in generale all’esclusione sociale (emarginazione, isolamento
relazionale, comportamenti a rischio) al Centro e al Nord (Rinaldi, 2006).
Tuttavia negli ultimi anni è da evidenziare un nuovo fattore dovuto all’instabilità coniugale,
che comporta spesso, nella maggior parte dei casi per le donne, una riduzione delle proprie
risorse economiche, non potendo più contare su quelle dell’altro coniuge. Per Chiara Saraceno
(2003) questa quota aumenterà man mano che il progetto di “democratizzazione” della
instabilità coniugale si diffonderà e in particolare coinvolgerà un numero crescente di
casalinghe e di lavoratrici “atipiche” e a basso salario. L’instabilità coniugale è una delle
dimensione della povertà infantile, dove il rimedio più efficace è l’avere una madre occupata
(Esping-Andersen, 2005). Ma maternità e partecipazione al mercato del lavoro sono
difficilmente conciliabili nel nostro Paese, dove l’offerta di servizi di cura di qualità a costi
sostenibili per una famiglia è scarsa e dove la precarietà occupazionale si concentra soprattutto
tra le donne. L’Italia necessita di un programma che concili maternità e carriera, in questo
modo è possibile diminuire anche la spesa per il sostegno al reddito delle famiglie povere con
bambini
12
(Ibidem).
L’Incidenza della povertà
L’incidenza della povertà calcolata sugli individui (considerando povero ogni individuo che
vive in una famiglia classificata come tale) assume un valore leggermente più elevato a causa
della maggiore numerosità media delle famiglie povere in senso relativo ed assoluto (Istat,
2005).
12
Per effetto di un circolo virtuoso la spesa iniziale per investimento è ammortizzata su un arco di tempo molto
lungo.