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PREMESSA
Ogni essere vivente per il solo fatto di vivere necessita di energia che
continuamente consuma e che acquisisce attraverso il cibo. Nei pluricellulari,
mammiferi e uomo compreso, il cibo essendo di natura biologica, ossia dotato di
una struttura complessa,deve essere demolito nei suoi componenti base prima di
poter essere assorbito senza alcun rischio ed essere utilizzato come fonte
energetica dall’organismo. A tale scopo ogni essere vivente nel corso
dell’evoluzione si è inserito lungo la scala alimentare, conquistando uno specifico
posto e dotandosi di un apparato digestivo in grado di preparare il cibo per
l’assorbimento utilizzando anche una selezionata flora batterica che potesse in
qualche maniera determinare una più completa demolizione del cibo. Per garantire
una maggiore protezione, una volta demolito il cibo, l’evoluzione ha fornito la
parete intestinale di strutture anatomiche e di cellule immunitarie in grado di
controllare e selezionare i prodotti assorbiti, al fine di eliminare quelli
parzialmente digeriti e potenzialmente tossici. Da quanto brevemente ricordato,
appare chiara l’importanza di una buona interazione tra struttura dell’apparato
digerente, flora intestinale e sistema immunitario per garantire un rapporto
ottimale con il cibo, che se non adeguatamente preparato e controllato può
divenire da benefico a tossico, con quadri clinici intestinali ed extraintestinali. I
quadri extraintestinali possono risultare più manifesti che non quelli intestinali e
comportare difficoltà diagnostiche non indifferenti. Ciò non deve stupire perché
quando frammenti in digeriti superano la barriera intestinale e raggiungono la via
linfatica e la via ematica evocano una risposta immunitaria specifica e di
conseguenza una risposta infiammatoria a livello delle sedi di deposito. Se la
risposta immunitaria è antigene-specifica il quadro sintomatologico
extraintestinale è non specifico e spesso monotono. Ciò determina la necessità di
ricercare la molecola indigerita che, superata la barriera intestinale (anatomica e
immunologica), è responsabile del quadro patologico sistemico specie quando i
sintomi di danno intestinale e di malassorbimento sono modesti ma sufficienti a
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creare fenomeni carenziali nascosti o larvati. Le molecole indigerite di varia
origine sono numerose e non tutte egualmente patologiche, per cui l’interesse di
questa ricerca si rivolge a quelle derivate dalle proteine del grano (di frumento, di
orzo e di segale), le più comuni e diffuse, nella forma parzialmente digerita di
glutine/gliadina. Le motivazioni di tale ricerca stanno nell’osservazione che le
patologie da glutine, specie quelle comparse nell’età adulta e con quadri clinici
atipici e risvolti diagnostici ematochimici e strumentali negativi, ma positivi per i
markers genetici di predisposizione specifici, sono continuamente in aumento e
spesso con sintomi che sviano da una corretta diagnosi anche i più esperti. Ci è
sembrato inoltre utile valorizzare i risultati della dieta senza glutine in un
campione di soggetti a conferma del sospetto diagnostico, per scegliere i quadri
clinici che è necessario sottolineare per evitare diagnosi e terapie costose e poco
efficaci. Non ultimo è d’obbligo segnalare l’importanza della presenza, in questi
casi, di reazioni autoimmuni in associazione alla normale risposta immunitaria
come forma di difesa adottata dall’organismo per limitare i danni locali da glutine.
(Per gentile concessione del Prof. Renzo Pietro Tarocco)
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1. INTRODUZIONE
1.1. CENNI STORICI
Fin dall’antichità si comprese l’esistenza di una interazione tra cibo e reazioni
avverse dell’organismo che potevano andare da una semplice eruzione cutanea a
reazioni patologiche ben più gravi: Ippocrate (460-370 a.C) osservò che
l’ingestione di latte vaccino poteva determinare in molti casi l’insorgenza di una
sorta di “intossicazione alimentare” con una serie di sintomi tra cui cefalea,
orticaria e disturbi gastrointestinali; Tito Lucrezio Caro addirittura affermava,
nel Libro IV De Rerum Natura, “Quod aliis cibus est aliis fuat acre venenum”
ossia“quello che è cibo per un uomo è veleno per un altro” (Tito Lucrezio Caro,
De rerum natura, Libro IV). La storia della celiachia, in particolare, ha il suo
inizio 10000 anni fa con l’introduzione della coltivazione dei cereali inizialmente
nell’area della Mezza Luna Fertile, che comprendeva Iran, Iraq, Siria e Kuwait e
poi nell’intera Europa dove la coltura cerealicola intensiva sostituì la caccia e la
pesca. I cereali coltivati nel continente presentavano una concentrazione di
peptidi, risultati poi responsabili delle reazioni avverse al glutine, maggiore
rispetto a quelli coltivati nella Mezza Luna fertile e ciò associato al fatto che
veniva introdotto un alimento nuovo in una popolazione abituata ad alimentarsi
prevalentemente di carne spiegherebbe l’insorgenza di casi di celiachia nell’epoca
greco-romana: infatti è stato rinvenuto uno scheletro di giovane donna del I secolo
d.C deceduta probabilmente per celiachia in quanto presentava bassa statura, segni
di osteoporosi, cripta orbitalica tipica dell’anemia, ipoplasia dello smalto dentario,
displasia dell’anca ed appiattimento della porzione postero-superiore della cavità
acetabolare tipico di uno stato carenziale cronico. Il primo a introdurre il termine
“celiaco” (koiliakos – colui che soffre nell’intestino) fu il medico latino Celso nel
I secolo d.C per indicare una malattia diarroica e successivamente,nel 250 d.C, il
medico greco Areteo di Cappadocia descrisse per la prima volta la malattia
celiaca: in un capitolo intitolato “Sulla diatesi celiaca” del suo libro “Sulle
malattie croniche e acute” scrisse “se lo stomaco non trattiene gli alimenti che
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vengono emessi indigeriti senza essere assorbiti dall’organismo, definiamo
celiaci questi soggetti” descrivendo pazienti che presentavano steatorrea, pallore e
perdita di peso. Il testo di Areteo fu tradotto e pubblicato in latino nel 1500 dove
la “K” venne sostituita dalla “c”e il dittongo “oi” divenne “oe” da cui il termine
“coeliacus”. Per diversi secoli non si parlò più di celiachia probabilmente in
quanto le tecniche di panificazione adottate all’epoca associate a cereali poveri di
glutine ne riducevano l’intolleranza anche nei soggetti geneticamente predisposti:
all’inizio le varietà di grano coltivate presentavano spighe piccole con pochi semi
e quindi un basso contenuto di peptidi allergenici
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, le tecniche di panificazione
adottate a quel tempo prevedevano l’uso di lieviti ricchi di lattobacilli e quindi di
acido lattico che favorivano la denaturazione delle proteine e l’inibizione della
digestione delle prolamine, o prevedevano il non utilizzo del lievito e quindi la
cottura era prolungata così che anche la parte interna veniva ben cotta. Altri fattori
contribuirono a rendere il fenomeno della celiaca non così rilevante in quei secoli:
la presenza di parassitosi intestinali che diventavano il bersaglio naturale del
sistema immunitario, un periodo di allattamento materno che poteva durare anche
quattro anni e che quindi ritardava l’introduzione dei cereali nell’alimentazione
dei bambini che ormai presentavano un intestino completamente sviluppato e
maturo, l’elevata mortalità infantile che riduceva la trasmissione genetica
dell’intolleranza alimentare. Nel corso dei secoli le continue selezioni di nuove
varietà di grano, allo scopo di migliorare i processi di panificazione, aumentarono
il contenuto di glutine nei cereali. Il 1600-1700 fu caratterizzato, soprattutto nel
Nord Europa, da un elevato tasso di abbandono infantile già dopo le prime
settimane di vita e dall’ingresso delle donne nelle fabbriche in conseguenza
dell’avvento dell’industrializzazione, comportando uno svezzamento precoce con
l’introduzione di pancotti di cereali nell’alimentazione dei bambini, riaccendendo
così i riflettori sul fenomeno celiachia. Nel 1856 Francis Adams tradusse questo
termine dal latino all’inglese coniando l’espressione “coeliac”. Nel 1888 un
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Definiti Allergenici in quanto determinano una risposta immunitaria patologica che può essere
IgE mediata o non IgE mediata. Non è da escludere l’influenza della selezione varietale
sull’intolleranza al glutine.
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medico inglese, Samuel Jones Gee, utilizzò il termine “coeliac affection” per
descrivere il quadro patologico celiaco nei bambini individuandone i sintomi
principali: diarrea, emaciazione, cachessia. Gee descrisse per la prima volta
nell’epoca moderna la celiachia in una conferenza tenuta presso l’Ospedale
pediatrico di Great Ormond Street affermando che “se il paziente può essere
curato , deve essere per mezzo della dieta”. Intuì che la causa andava ricercata
negli alimenti ma non riuscì a scoprire quali fossero quelli coinvolti però ritenne
che una dieta povera di farinacei e ricca di latte di asina potesse migliorare i
sintomi: descrisse il caso di un bambino celiaco nel quale i sintomi scomparirono
seguendo una dieta esclusivamente a base di cozze olandesi, ma il quadro clinico
si ripresentò nel momento in cui finì la stagione di questi mitili. Nel 1889 Gibbons
sottolineò che la malattia colpiva soprattutto i bambini e l’aveva denominata “the
celiac affection in children” e pensò che fossero delle sostanze tossiche assorbite
dagli alimenti indigeriti a danneggiare l’organismo del bambino. Nel 1903
Cheadle definì la malattia celiaca “acholia” in quanto le feci emesse dai malati
erano di colore chiaro per la presenza di lipidi. Nel 1908 Herter, un pediatra
statunitense, documentò la presenza di steatorrea e pensò che la celiachia fosse
dovuta ad una infiammazione dell’intestino determinata da un eccessivo sviluppo
della flora intestinale e la denominò “infantilism from chronic intestinal
infection”. Nel 1918 Still sottolineò l’effetto tossico dell’amido contenuto nel
pane per i soggetti celiaci e ribadì la necessità di una rigorosa esclusione dei
carboidrati dalla dieta. Nel 1924 Haas introdusse per i celiaci una dieta priva di
pane, patate e cereali introducendo frutta (soprattutto banane), verdura e latte in
polvere riscontrando un miglioramento nella sintomatologia, ma il ruolo tossico
della farina di grano fu scoperto dal pediatra olandese Willen Karel Dicke il quale
osservò che le condizioni cliniche dei bambini celiaci migliorarono durante il
cosiddetto “inverno del digiuno” (1944-1945) quando, a causa dell’occupazione
nazista dell’Olanda, scarseggiavano cereali come frumento e segale sostituiti da
alimenti privi di glutine come patate, banane, bulbi di tulipano. Al termine della
guerra, quando gli aiuti alimentari permisero la reintroduzione dei cereali
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nell’alimentazione i sintomi ricomparirono. Fino agli anni ’50 la celiachia fu
considerata una patologia dell’età pediatrica e raramente diagnosticata in età
adulta ma successivamente, grazie alla maggiore conoscenza delle manifestazioni
cliniche, l’introduzione di markers sierologici ad alta predittività, di tecniche
endoscopiche, immunoistochimiche e di microscopia elettronica a scansione e a
trasmissione la diagnosi di celiachia diventò più accurata permettendo di
individuare soggetti celiaci che altrimenti sarebbero rimasti non diagnosticati.
Infatti nel 1954 Paulley descrisse il quadro istologico della mucosa del digiuno di
un paziente affetto da celiachia ottenuta non da un cadavere ma bensì durante un
intervento chirurgico: il tipico appiattimento che caratterizza la mucosa
dell’intestino tenue di un soggetto celiaco non poteva infatti essere scoperto
mediante un’autopsia in quanto scompariva molto rapidamente dopo la morte. Ciò
permise di identificare le tipiche lesioni della celiachia quali atrofia dei villi
intestinali, iperplasia delle cripte, infiltrazione linfocitaria e inoltre condusse
all’introduzione della biopsia intestinale nell’iter diagnostico della celiachia grazie
anche al contributo di Crosby, un ufficiale medico dell’esercito statunitense, che
mise a punto una capsula automatica collegata ad un sondino e provvista di un
meccanismo per il prelievo del campione mediante suzione. Nel 1972 viene
individuata la correlazione tra sistema HLA e malattia celiaca, nel 1983 viene
introdotto il dosaggio di anticorpi specifici (autoanticorpi antiendomisio) nella
diagnosi di celiachia.
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1.2. ELEMENTI INTERPRETATIVI MODERNI
Attualmente si stima che per ogni paziente celiaco diagnosticato ve ne sarebbero
circa 7 non diagnosticati e/o diagnosticati erroneamente esponendo questi ultimi
al rischio di sviluppare quadri di scarsa o assente risposta alla dieta priva di
glutine (celiachia refrattaria), patologie immuno-mediate, neoplasie (in particolare
il linfoma non-Hodgkin a cellule T e altre neoplasie epiteliali gastrointestinali),
complicanze quali ipotrofia o atrofia della milza
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e digiuno-ileite ulcerativa.
Essendo l’enteropatia glutine sensibile una patologia autoimmune a patogenesi
multifattoriale il cui agente causante è il glutine che induce una risposta immuno-
mediata dell’organismo è favorita da fattori ambientali in soggetti predisposti
geneticamente. Si può tranquillamente affermare che la sensibilità al glutine
(come anche le altre allergie e intolleranze alimentari) è il risultato
dell’evoluzione dell’uomo e delle sue abitudini di vita, infatti l’inquinamento
ambientale (atmosferico, idrico, del suolo), frutto del continuo progresso
tecnologico della civiltà umana, ha esposto l’organismo all’aggressività di
numerosissime molecole a cui il nostro sistema immunitario non riesce a
rispondere in modo efficace determinando la comparsa di quadri clinici di
sensibilità chimica multipla
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e non (nel settembre del 2010 proprio su questo tema
è stata svolta a Roma una conferenza che aveva per tema “Nuove malattie
ambientali – le conseguenze dell’esposizione ad inquinanti ambientali, metalli
pesanti e campi elettromagnetici”). A tutto ciò si aggiunga anche l’inquinamento
della filiera alimentare, che si traduce in un abuso di sostanze chimiche in
agricoltura, abuso di farmaci in zootecnia, abuso di conservanti, additivi e
coloranti negli alimenti che hanno così introdotto nell’alimentazione umana
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L’incidenza di iposplenismo con o senza atrofia della milza è direttamente correlata all’età di
diagnosi ossia con la durata di esposizione al glutine. Nei pazienti celiaci adulti è stato riscontrato
un rischio di sepsi pneumococcica e una mortalità per cause infettive significativamente aumentati.
Per questo motivo si esegue il conteggio delle pitted cells nel sangue periferico: valori superiori al
4% sono indice di ipofunzione splenica.
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Sensibilità chimica multipla: sindrome multi-sistemica di intolleranza ambientale totale alle
sostanze chimiche che danneggiano il fegato e il sistema immunitario sopprimendo la mediazione
cellulare che controlla il modo in cui l’organismo si protegge dagli agenti esterni
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molecole tossiche il cui danno a livello dell’organismo si traduce in una lesione
acuta o cronica del tratto gastrointestinale con possibile sviluppo di patologie
sistemiche e neoplastiche. Anche il cambiamento antropologico delle abitudini
alimentari dell’uomo segnato dal passaggio da una alimentazione prevalentemente
a base di carne (attività di caccia e pesca, raccolta di frutta) ad una a base di
cereali, frutta e verdura (attività agricola) con introduzione nella dieta di alti
quantitativi di molecole altamente antigeniche (come l’alfa-gliadina contenuta nei
cereali), ha contribuito alla comparsa di allergie e intolleranze alimentari.
L’utilizzo di latte artificiale nell’alimentazione dei neonati al posto di quello
materno ha influito sul corretto sviluppo e funzionamento del sistema immunitario
in quanto la maturità della mucosa intestinale viene raggiunta tardivamente. Alla
nascita il lattante non riesce ancora a difendersi efficacemente contro i patogeni
ingeriti in quanto presenta dei succhi gastrici con ridotta acidità e una maggiore
permeabilità della mucosa intestinale ma i diversi componenti del latte materno
forniscono una protezione dagli agenti patogeni: IgA resistenti alla proteolisi e in
grado di bloccare gli antigeni senza scatenare una rilevante reazione
infiammatoria, il lisozima in grado di lisare la parete dei batteri Gram+, la
lattoferrina che inibisce la crescita batterica sottraendo ferro e stimolando la
produzione di citochine, gli oligosaccaridi e le mucine che impediscono
l’adesione dei batteri alle pareti intestinali, una selezionata flora intestinale, i
macrofagi tessutali. Inoltre il latte materno svolge anche un’azione
antinfiammatoria e favorisce la maturazione della mucosa intestinale grazie alla
presenza di citochine antinfiammatorie (come TGF-β e IL-10) e fattori di crescita
come EGF (Epidermal Growth Factor) e GM-CSF (fattore di crescita dei monociti
e granulociti). Non da sottovalutare è inoltre la compatibilità immunologica del
latte materno con il sistema immunitario del lattante, frutto di una selezione
naturale lunga quanto l’esistenza dell’uomo, compatibilità che risulta ridotta nelle
molecole del latte di altri mammiferi che sono state introdotte solo negli ultimi
due secoli. Il latte artificiale invece viene sottoposto ad una sterilizzazione che
inattiva molte molecole biologicamente attive (citochine, fattori di crescita,
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ormoni e anticorpi) e modifica la struttura di alcune sostanze nutritive. Uno
svezzamento precoce può non essere così ben tollerato dal bambino.
Per anni è stato difficile riuscire a identificare la linea sottile che separa le allergie
dalle intolleranze: nel 1995 il Comitato Europeo per le reazioni avverse agli
alimenti dell’EAACI (European Academy for Allergy and Clinical Immunology)
ha tentato di dare una risposta a suddetto quesito proponendo nella “Position
Paper Adverse Reactions to Foods” una classificazione delle reazioni patologiche
da ingestione degli alimenti distinguendo le REAZIONI TOSSICHE, che non
dipendono dal soggetto ma bensì dalla dose della sostanza incriminata e le
REAZIONI NON TOSSICHE, che dipendono da una suscettibilità individuale.
Nelle reazioni tossiche abbiamo le INTOLLERANZE ALIMENTARI ossia le
reazioni non immuno-mediate e nelle reazioni non tossiche abbiamo le
ALLERGIE ALIMENTARI che sono invece immunomediate [1] (Fig. 1).