(ECOSOC), affermarono che “il problema dei paesi sottosviluppati non è solo la
crescita, ma lo sviluppo. Sviluppo è crescita più cambiamento. Il cambiamento, a sua
volta, è sociale e culturale cosi come economico, e qualitativo come quantitativo. Il
concetto chiave deve essere il miglioramento della qualità della vita della gente” (ONU,
1962).
Su questa idea di sviluppo si formarono, negli anni ’70 e ‘80, la maggior parte dei
programmi di lavoro degli organismi internazionali che avevano come obiettivo
l’eliminazione delle disuguaglianza.
“Questa Commissione non si è provata a ridefinire lo sviluppo, ma comunque abbiamo
per esempio convenuto che l’accento deve essere posto, non già su macchine o
istituzioni, bensì su persone. Ancora, che il rifiuto di accettare acriticamente modelli
stranieri costituisce in effetti la seconda fase della decolonizzazione, e che non ci si
deve rassegnare all’idea che al mondo intero non resti che copiare i modelli dei paesi
altamente industrializzati. Va evitata la persistente confusione tra crescita e sviluppo e
abbiamo decisamente posto l’accento sul fatto che obiettivo primo dello sviluppo è di
condurre all’autorealizzazione e alla partecipazione creativa nell’uso delle forme
produttive di una nazione e del suo intero potenziale umano […] le ideologie della
crescita al Nord hanno troppo spesso perso di vista la qualità della crescita. Un popolo
consapevole della propria identità culturale può adottare e adattare elementi conformi al
proprio sistema di valori, in tal modo gettando le basi di un appropriato sviluppo
economico” (Brandt, 1980).
L'analisi condotta da Brandt può, comunque, essere ampliata e adeguata a uno sviluppo
che non sia esclusivamente di tipo economico ma che comprenda anche gli altri settori
della società, definendo così il processo di modernizzazione.
"Per modernizzazione si intende l’insieme dei processi di cambiamento su larga scala
mediante il quale una determinata società tende ad acquisire le caratteristiche
economiche, politiche, sociali e culturali considerate proprie della modernità"
(Martinelli, 1998).
La sua caratteristica più propria è la globalità in una duplice accezione: nel senso che
riguarda tutti gli aspetti, economici, sociali, politici, culturali delle società in cui si
esplica e coinvolge tutte le sfere di azione e di vita dei loro abitanti; e nel senso che, pur
riguardando in primo luogo e direttamente le società europee, ha investito
progressivamente, con ritmi e sequenze diverse, il mondo intero inserendolo più o meno
forzatamente all’interno di un unico sistema globale che appare oggi fortemente
interdipendente dal punto di vista economico e strettamente connesso dal punto di vista
culturale.
Inoltre Brandt, in questo discorso, pone l’accento su un punto importante che sul finire
degli anni ’70 avevano già messo in evidenza i membri dell’UNESCO con il concetto di
sviluppo endogeno, ossia la critica alla tesi seconda la quale era necessario, per avviare
lo sviluppo o, più precisamente, il processo di modernizzazione, imitare
meccanicamente le società industriali, senza tenere in debita considerazione le
particolarità di ciascun paese.
Questa tesi si contrappone a quella dominante sino a quel periodo che profettizava un
unico modello di sviluppo per tutti paesi, secondo la linea tracciata negli anni ’60 da
Rostow e dalla sua teoria degli stadi su cui si basava la "teoria della modernizzazione".
1.2. La teoria della modernizzazione
La cornice all’interno della quale si sviluppa la teorie della modernizzazione è costituita
principalmente da due elementi: l’evoluzionismo e lo struttural-funzionalismo.
Il primo elemento si rifà al pensiero di Spencer, Durkheim e altri che ha trovato
supporto nella teoria darwiniana dell’evoluzione la quale, secondo Mutti (1973) si basa
su quattro elementi fondamentali:
• l’affermazione dell’esistenza di leggi naturali immanenti sulle quali poggia lo
sviluppo sociale dell’uomo;
• il carattere dell’universalità di queste leggi;
• l’idea di un processo continuo, cumulativo e irreversibile che comporta il
passaggio da forme di organizzazione sociale semplici a forme di organizzazione
via via più complesse, secondo una sequenza prefissata di stadi;
• l’esistenza di un processo evolutivo di tipo graduale, indotto esclusivamente da
forze endogene al sistema considerato.
Il secondo elemento si rifà, invece, allo struttural-funzionalismo di Parsons (1951) e in
particolare al suo “pattern variables”.
L’obiettivo di questa scuola di pensiero è di determinare i fattori che sottostanno al
funzionamento di un determinato sistema sociale che acquista, nel pensiero di Parsons,
un’importanza fondamentale. Il principale obiettivo di questo autore è individuare i
meccanismi che agiscono per prevenire e affrontare minacce all’ordine esistente, ossia
individuare i meccanismi che permettono la conservazione del sistema sociale.
Questa è una visione, diciamo, statica della visione struttural-funzionalista, ma vi è
anche una visione, per i nostri fini più utile, di tipo dinamica che è stata affrontato in
due modi (Mutti, 1973):
• un’analisi delle relazioni sociali attraverso le variabili strutturali o “pattern
variables”;
• un’analisi del mutamento sociale in base al modello differenziazione-
integrazione strutturale.
La prima analisi prende in considerazione le cinque variabili del modello di Parsons
(pattern variables) tramite le quali è possibile differenziare le società per il loro diverso
grado di modernizzazione. Il “pattern variables” prospetta un passaggio:
• dal particolarismo all’universalismo, da una situazione come quella
caratteristica della società tradizionale dove l'uomo è valutato in quanto essere
particolare, a una situazione, prevalente nella società moderna, dove l'uomo è
valutato in base a caratteristiche che condivide insieme agli altri. Nelle società
moderne, ad esempio, tutti gli individui sono considerati detentori del diritto di
cittadinanza;
• dalla diffusione alla specificità che consiste nel passaggio da una società
tradizionale, dove tendono a prevalere i rapporti in cui gli individui sono
coinvolti per tutti gli aspetti della loro personalità, a una società moderna, dove,
invece, prevalgono rapporti in cui gli individui sono coinvolti solo per alcuni
aspetti della loro personalità, a seconda del ruolo che essi ricoprono in quel
particolare rapporto;
• dall’affettività alla neutralità affettiva, dove la neutralità affettiva costituisce un
carattere tipico della società moderna in cui si intende il controllo nella vita
pubblica delle emozioni da parte dell'individuo, confinandole solo alla vita
privata;
• dalla ascrizione all’acquisizione. Gli individui nella società moderna sono
valutati solo in base alle capacità acquisite, alle capacità, al merito e non, come
avviene nelle società tradizionali, sulla base di caratteristiche naturali, come la
razza o il sesso, o ereditarie;
• dall’orientamento verso la collettività all’orientamento verso il privato. In
questo caso la società moderna distingue, diversamente da quella tradizionale,
le relazioni che perseguono un interesse collettivo, come nel caso medico-
paziente, e quelle che perseguono un interesse personale.
Questo insieme di trasformazioni sono molto importanti e, in sintesi, definiscono il
passaggio dalla società tradizionale alla società moderna.
La seconda analisi, condotta da Smelser e Parsons (1956) invece si sofferma sulle
differenziazioni strutturali, come la differenziazione delle attività economiche, o
divisione del lavoro, e la differenziazione delle attività familiari.
La differenziazione, o per meglio dire la specializzazione strutturale della società è un
elemento fondamentale del processo di modernizzazione nel quale aumenta anche
l’interdipendenza tra la varie parti, o unità, della società.
L’elemento chiave di queste analisi è l’emergere di una visione che vede tutte le società
sviluppare un processo che le porterebbe a muoversi dalla tradizione alla modernità
secondo un modello ideale dicotomico che costituisce un continuum di tipo
evoluzionistico.
Si suppone che la società tradizionale abbia, in sintesi, una predominanza del modello di
azione ascrittiva, particolaristica, diffusa e affettiva, una struttura di parentela estesa con
molteplici funzioni, poca mobilità spaziale e sociale, una economia basata
prevalentemente sul settore agricolo, una tendenza verso l’autarchia delle unità sociali,
una indifferenziata struttura politica, con èlites tradizionali e fonti di autorità
gerarchiche.
Al contrario, la società moderna è caratterizzata dalla predominanza dell’acquisizione,
da un modello di azione universalistico, specifico, orientato alla neutralità affettiva, una
struttura familiare nucleare che serve a limitate funzioni, un sistema occupazionale
altamente differenziato e complesso, alta percentuale di mobilità spaziale e sociale, una
predominanza delle attività economiche secondarie e produzione per il commercio,
strutture politiche altamente differenziante e fonti di autorità legali e razionali.
Altri modelli dicotomici simili che si richiamano, almeno per la loro struttura, a quello
di Parsons, sono quelli di Durkheim (1962) e Tonnies (1963).
Il primo modello contrappone la solidarietà meccanica alla solidarietà organica. Nelle
società tradizionali vi sarebbe una scarsa divisione del lavoro, non vi sarebbe spazio per
le individualità e per la differenza e le varie unità starebbero insieme perché soggette
all’autorità delle unità superiore come il capo-famiglia o il capo-clan. In questa società
vigerebbe una solidarietà meccanica che si manifesta in un diritto penale che punisce in
maniera esemplare coloro che violano le leggi della comunità.
Nelle società moderne, invece, vi sarebbe un ampia differenziazione del lavoro e gli
individui, che stanno insieme perché non in grado di essere autosufficienti, svolgono,
nella società, tutti una funzione diversa. Le sanzioni del diritto penale avrebbero come
obiettivo quello di ristabilire l’ordine turbato dalla violazione. Vi sarebbero sanzioni
sostitutive e non repressive come nel primo caso. La solidarietà non si fonda più
sull’uguaglianza ma sulla differenza e sarebbe di tipo organico.
Il secondo modello invece contrappone la comunità (Gemeinschaft) alla società
(Gesellschaft). Il primo modello di comunità è basato sui rapporti caratterizzati
dall’intimità, dalla riconoscenza e dalla condivisione. Nella comunità non vi è una
differenziazione e ciò comporta che gli individui agiscano sempre con la totalità del loro
essere.
Con l’avvento della modernità la comunità si trasforma in società dove, al contrario, gli
individui vivono isolati l’uno dall’altro, per conto loro e il rapporto prevalente è quello
di scambio tra il venditore e il compratore che non mette in relazione gli individui nella
loro totalità, ma soltanto secondo le funzioni che il ruolo svolto in quel momento
permette (Bagnasco, Barbagli, Cavalli, 1997).
E’ importante notare che mentre Durkheim giudica l’avvento della modernità in termini
positivi, per Tonnies, invece, tale avvento rappresenta una perdita rispetto ai valori
autentici di solidarietà che trovano realizzazione soltanto nell’ambito della comunità.
I maggiori interpreti della teoria della modernizzazione possono essere considerati W.
W. Rostow, autore dell’opera “Gli stadi dello sviluppo economico” (1960), che come lo
stesso titolo suggerisce si sofferma soprattutto sull’aspetto economico della
modernizzazione, e F.K. Organski autore de “Gli stadi dello sviluppo politico” (1970)
che si sofferma, invece, maggiormente sul ruolo dello Stato durante questo processo.
Secondo Rostow, il processo che determina il passaggio dalla società tradizionale alla
società moderna può essere diviso in cinque stadi o fasi che si susseguono, uno dopo
l’altro, raggiunta una determinata “soglia critica”. Questi stadi sono:
• la società tradizionale che si fonda su una tecnologia che possiamo ancora
definire prenewtoniana in cui non vi è un atteggiamento scientifico, non è ancora
iniziato il processo di “secolarizzazione”, ossia di emancipazione della società
civile e della conoscenza scientifica dal controllo religioso, e in cui l’evoluzione
della società e dell’uomo è il risultato di un agire spontaneo, comunque
condizionato da credenze ultraterrene e tradizioni. “Il nome Newton viene qui
usato come un simbolo dello spartiacque storico, a partire dal quale si diffuse tra
gli uomini il concetto di un mondo esterno e suscettibile di sistematiche
trasformazioni produttive” (Rostow, 1960). In questa fase la produttività non
supera mai un certo limite ed è destinata al semplice autosostentamento sebbene
potesse essere aumentata grazie al miglioramento delle opere di irrigazione o
alla scoperta e diffusione di nuovi prodotti agricoli;
• nel secondo stadio, quello dei prerequisiti per il decollo, la società incomincia a
utilizzare gli strumenti propri di quella che può essere definita la scienza
moderna grazie anche ai contatti tra le diverse culture provocate da un’invasione
militare o scambi economici e culturali. Si sviluppa l’idea che il progresso
economico sia non solo possibile ma anche desiderabile. L’agire dell’uomo non
è più rivolto “verso i giorni aurei del passato con uno standard di vita e di
comportamento limitato al presente” (Tawney, 1932), bensì al futuro;
• il terzo stadio, il cosiddetto stadio del decollo economico, si verifica nel
momento in cui all’accelerazione dell’innovazione tecnologica si unisce
l’affermarsi di una nuova èlite fautrice del progresso economico e capace di
realizzare politiche pubbliche per l’aumento, soprattutto in campo agricolo, della
produttività. “Si diffuse gradualmente nella vita politica l’idea secondo la quale
[…] l’incremento della produzione e il benessere fossero legittimi obiettivi della
politica statale” (Rostow, 1975). Si assiste a un consistente aumento del tasso
degli investimenti produttivi e allo sviluppo dell’attività industriale;
• lo stadio successivo è quello della spinta verso la maturità dove la tecnologia si
diffonde maggiormente e il commercio internazionale diventa una parte
essenziale del settore economico. "La maturità vera e propria è definita dalla
capacità di produrre ciò che si sceglie di produrre" (Martinelli, 1998). Si
sfruttano razionalmente le risorse a disposizione e si ottiene una produzione
diversificata;
• infine, quando la crescita del reddito disponibile favorisce la creazione di
un’ampia domanda per i beni considerati, sino a qualche tempo fa, di lusso o
comunque diversi da quelli essenziali, il paese raggiunge il cosiddetto stadio
finale del consumo di massa. Oltre all’aumento del reddito pro-capite, aumenta
anche la forza-lavoro industriale e, come conseguenza, la popolazione urbana.
Allo stesso modo con cui Rostow ha suddiviso in stadi il processo di sviluppo
economico, Organski (1970) suddivide lo sviluppo politico, più precisamente in quattro
stadi, e ha collegato ciascuno stadio ad una fase particolare dello sviluppo economico.
Il punto di partenza di Organski è che “lo sviluppo politico può essere definito come
l’aumento dell’efficienza governativa nell’utilizzare le risorse umane e materiali della
nazione per fini nazionali” (Organski, 1970).
Gli stadi che Organski individua sono: la politica dell’unificazione primitiva; la politica
dell’industrializzazione; la politica del benessere nazionale; la politica
dell’abbondanza.
• Nella prima fase dell’unificazione primitiva, l’obiettivo fondamentale del
governo è cercare di raggiungere il più ampio controllo possibile, sia a livello
politico sia amministrativo, sulla popolazione, in poche parole, la creazione di
uno Stato nazionale, ponendo così i presupposti per la formazione di un mercato
nazionale;
• nella seconda fase, quella dell’industrializzazione, lo Stato e la nuova classe
sociale al potere devono favorire l’accumulazione del capitale necessario per lo
sviluppo proprio dell’industrializzazione, anche se ciò comporta elevati costi
sociali per la popolazione;
• nel terzo stadio, il compito primario è quello di alleviare i costi sociali imposti
alle masse nella seconda fase, attuando quelle che potremmo definire “politiche
di stato sociale o welfare” miranti a garantire la prosperità economica, una sua
maggiore diffusione tra la popolazione e, soprattutto, una riduzione del numero
degli indigenti.
• l’ultima fase, sicuramente la più complessa, ha la funzione di governare alcune
contraddizioni del processo di modernizzazione, come la disoccupazione di
massa e la concentrazione del potere economico e politico.
E’ dunque il passaggio dalla società tradizionale alla società moderna il tema principale
della teoria della modernizzazione la quale si sforza di individuare quegli elementi, quei
requisiti o fattori che possono favorirne la realizzazione.
La maggior parte degli studiosi afferma che i valori, le istituzioni e gli schemi d’azione
della società tradizionale sono sia espressione sia causa del sottosviluppo e
costituiscono il principale ostacolo nella via per lo sviluppo. Per entrare nel mondo
moderno, le società sottosviluppate devono superare le norme e le strutture tradizionali
aprendo la via alle trasformazioni politiche, economiche e sociali.
In generale, la fonte primaria che rende possibile il cambiamento è da ricercarsi
nell’innovazione, cioè, nel rigetto delle procedure legate alle istituzioni tradizionali,
insieme all’adozione di nuove idee, tecniche, valori e organizzazioni.
Queste assunzioni, inoltre, partono dal presupposto che il fattore che ha dato l’incipit al
processo di modernizzazione nei paesi ora sviluppati è stato il risultato di endogene
trasformazioni culturali e istituzionali.
A questa tesi si contrappose “l’approccio diffusionistico” che accusa la visione
tradizionale dello sviluppo di considerare questo processo esclusivamente come un
processo reso possibile da fattori endogeni e di trascurare invece la possibilità che il
cambiamento nei paesi in via di sviluppo potesse essere favorito anche da fattori
esogeni, cioè, dalla diffusione di istituzioni e valori moderni dei primi paesi
modernizzati.
Uno dei principali esponenti di questa tesi è stato Marion J. Levy (1970) il quale
definisce determinante il ruolo assunto dai paesi sviluppati nei cambiamenti sociali
avvenuti in quelli in via di sviluppo. Secondo Levy, infatti, “ogni volta che c’è stato un
contatto tra i membri delle società relativamente modernizzate e i membri delle società
relativamente non modernizzate, prescindendo dai brevi incontri e dallo sterminio dei
rappresentanti di una società o dell’altra, ne è sortito un unico generale tipo di
mutamento sociale”.
Il cambiamento delle strutture sociali dei paesi più arretrati tende sempre a indirizzarsi
verso quelle dei paesi più progrediti. Inoltre, da questa situazione, potrebbe derivarne un
vantaggio per quelli che Lerner (1973) definisce “i nuovi arrivati”. Il processo di
modernizzazione per questi non si svolge al buio in quanto hanno la possibilità di fare i
paragoni con i paesi già modernizzati e quindi di conoscere in anticipo le fasi della
transizione.
Come conseguenza, le èlites del Terzo Mondo che si prefiggono l’obiettivo di avviare il
processo di sviluppo devono prendere in considerazione il modello occidentale
adottando e adattando la sua tecnologia, assimilando i suoi valori e i suoi modelli
d’azione, importando le sue istituzioni finanziarie, industriali e i suoi sistemi di
educazione.
Per i teorici della modernizzazione questo non può che significare che il mondo è
convergente verso una società uniforme e standardizzata rassomigliante agli Stati Uniti
e all’Europa Occidentale, una convergenza così forte che il processo di
modernizzazione è definito anche come processo di occidentalizzazione o
europeizzazione.
Inoltre, affermando che il processo di sviluppo delle società è simile in ogni area del
mondo, a prescindere da ogni loro aspetto peculiare la principale differenza tra le
nazioni già sviluppate e quelle in via di sviluppo, secondo tale teoria, non si trova nella
natura del processo, ma nella sua velocità e intensità.
All’interno del dibattito tra i teorici della modernizzazione vi è, tuttavia, il problema di
accordare la priorità a questo o a quel fattore che determina o condiziona lo sviluppo; la
contrapposizione tra gli studiosi nasce, in altri termini, per la scelta del "motore del
cambiamento".
Mentre infatti le interpretazioni materialistiche pongono al centro dell’analisi i rapporti
sociali di produzione, le interpretazioni idealistiche assegnano, invece priorità alle
norme sociali.
Entrambe condividono, tuttavia, la prospettiva fondamentale evoluzionistica e
dicotomica, condividono cioè la concezione della modernità come progresso e radicale
diversità rispetto al passato, come trasformazione epocale e come stadio più evoluto del
percorso dell’uomo nella storia.
Il più delle volte i teorici della modernizzazione individuano in un unico elemento, in
un’unica variabile indipendente, il “motore dello sviluppo” che può essere di differenti
tipi.
McClelland identifica il motore dello sviluppo in un elemento psicologico e non
materiale. “Lo sviluppo economico accelerato è stato generalmente spiegato in termini
di fattori esterni: occasioni favorevoli per il commercio, risorse naturali fuori dal
comune, conquiste che hanno aperto nuovi mercati o prodotto stabilità interna. Io invece
sono interessato ai fattori interni, ai valori e alle motivazioni che spingono gli uomini a
sfruttare circostanze favorevoli, ad avvantaggiarsi di favorevoli condizioni di scambio,
in breve a dirigere il proprio destino” (McClelland, 1959).
La più importante di queste motivazioni è il cosiddetto “need for achievement”, ossia il
bisogno di realizzazione, il bisogno di svolgere bene il proprio compito non tanto a
scopi di riconoscimento, quanto per conseguire un senso di realizzazione personale, che
permette ad una società tradizionale di acquisire quella imprenditorialità necessaria per
potersi spingere verso la società moderna. In pratica, secondo McClelland, “il bisogno
di realizzazione è un fattore causale, un mutamento nell’animo degli uomini che
produce lo sviluppo economico piuttosto che essere prodotto da esso”. Ma da cosa è
prodotto questo bisogno di realizzazione?
Egli appare affascinato dall’ipotesi di Weber (1979) secondo cui il protestantesimo
avrebbe avuto un ruolo importante nello sviluppo di quella imprenditorialità necessaria
per l’affermarsi della rivoluzione industriale, ma, dopo aver effettuato alcune analisi,
afferma che molto probabilmente questa connessione era puramente casuale.
McClelland allora svolge degli studi e arriva ad una sua personale conclusione secondo
la quale il bisogno di autorealizzazione sarebbe stato favorito dal tipo di letture a cui gli
individui, in giovane età, si sono sottoposti.
Hirschman (1958) si basa sull’idea che il sottosviluppo è caratterizzato non solo e non
tanto dalla relativa scarsità delle risorse, ivi compresa la capacità di produrre
(l’imprenditorialità) ma anche da una limitatezza dei rapporti di mercato, quindi da un
debole mercato e da un altrettanto debole Stato.
Parte dall’idea che le risorse esistenti non sono collegate tra loro e rimangono spesso
nascoste o “dormienti”. Da qui l’esigenza di un fattore catalizzatore che può essere
svolto dallo Stato, segnalando agli imprenditori le occasioni di investimento e
eliminando le barriere o le strozzature che possono impedire lo svolgimento dell’attività
economica. Per fare questo occorre un cambiamento della società, del modo di pensare
e di organizzare la vita sia degli individui sia della collettività. Occorre modificare il
modo di produzione ma anche, e soprattutto, le istituzioni.
Lo sviluppo economico può essere favorito da un intervento dello Stato che si manifesta
tramite l’erogazione di sussidi, la costruzione di infrastrutture o la produzione di beni
ritenuti strategici.
E’ necessario perciò stimolare queste strutture e rafforzarle con un processo collettivo di
apprendimento (Hirschman,1958).
Lerner (1973) afferma che i tratti caratteristici della moderna società sono
un’urbanizzazione crescente, l’aumento dell’alfabetizzazione, una maggiore influenza
dei mezzi di comunicazione e una più ampia partecipazione politica (tramite il voto) e
economica (se si prende in esame il reddito pro-capite).