2
Successivamente, nel capitolo terzo, viene approfondito il discorso
della guerra termonucleare in riferimento a quanto Bobbio viene
affermando sull’equilibrio del terrore e di come, di fronte a questo
nuovo fenomeno, è crollata la teoria della guerra giusta, della guerra
che, per alcuni secoli e da molti capi di stato, era vista come un male
necessario per ristabilire la pace e sconfiggere un nemico che ne
minacciava la realizzazione in modo grave.
L’analisi della guerra non poteva essere trascurata dal punto di
vista letterario, ed è quello che abbiamo fatto analizzando la posizione
di due autori appartenenti a due mondi ed epoche lontane e molto
diverse tra loro: Machiavelli e Marinetti.
Il primo, considerava la guerra come una sottile arte che, attraverso
l’organizzazione di truppe adeguate e sofisticate strategie di
combattimento, era finalizzata a mettere in atto i piani di conquista
del principe mentre, il secondo autore, si distingue per l’esaltazione
che fa della guerra considerata come una potentissima macchina
distruttrice che infervora lo spirito dello scrittore futurista mentre
entusiasma un po’ meno quello degli ufficiali a capo delle truppe
composte, per la maggior parte, da soldati-contadini ai quali tutto
interessa fuorché morire per una patria che non mantiene le proprie
promesse di gloria e benessere per tutti.
Dopo questa parentesi letteraria, abbiamo ritenuto necessario, per
non lasciare il nostro discorso incompleto di fronte alle ultime
vicende che, vista la loro gravità non sono certo passate inosservate,
occuparci, nell’ultimo capitolo, della guerra al terrorismo. Partendo
dall’analisi dei cambiamenti che si sono verificati in seguito alla data
dell’11 settembre 2001 che ha ribaltato le teorie della guerra
tradizionale proclamando la nascita di quella che Umberto Eco ha
3
definito “guerra diffusa”, siamo giunti alla conclusione che nel
“mondo globale” non ci sono più solo due fronti nemici a farsi la
guerra ma, ormai nessuno è più al sicuro nemmeno nelle proprie case,
nemmeno nei luoghi che frequenta abitualmente ogni giorno della sua
vita. Tutti corriamo il pericolo di essere distrutti dal nemico nascosto
intorno a noi in ogni luogo; il dualismo amico-nemico non ha più
ragione di essere. Oggi si parla del “kamikaze”, di colui che è
disposto a tutto, anche a sacrificare la propria vita, in onore del suo
popolo pur di sterminare l’estraneo che lo ha invaso e lo minaccia con
la sua diversità e con la sua cultura.
La guerra all’Iraq rappresenta l’ultimo tema di questo lavoro.
Abbiamo cercato di delineare le ragioni di un’eventuale guerra, di
capire chi sono i protagonisti e cosa vogliono ottenere.
Di più non potevamo dire in quanto, si tratta ancora di un capitolo
della storia che deve essere ancora scritto. Possiamo solo augurarci
che, come al solito, non venga scritto col sangue degli innocenti.
4
Capitolo primo
La democrazia e la guerra
Nel rapporto tra guerra e democrazia ci si chiede quali siano le
cause che spiegano certe regolarità, per esempio l’assenza o (la
rarità) di guerre fra democrazie. Infatti il liberalismo sette-
ottocentesco considerava i regimi rappresentativi come
intrinsecamente pacifici: se le decisioni sulla guerra e sulla pace
dipendono dai cittadini, ossia da coloro sui quali ricadono i costi di
un’eventuale guerra, anziché dal capriccio dei sovrani, ciò non può
che avere effetti pacificatori sul comportamento internazionale
degli Stati.
Le democrazie sono allora, per loro natura, più pacifiche di altri
tipi di regimi politici?
Per tentare di rispondere occorre, in primo luogo, guardare alla
ricerca quantitativa sulle guerre, vedere se le democrazie
partecipano con minore, uguale o superiore frequenza alle guerre
rispetto ad altri tipi di regimi politici.
Per quanto riguarda il primo concetto (guerra) la soluzione quasi
universalmente accettata nella letteratura specialistica si rifà ai
criteri stabiliti da Small e Singer (1972)
1
: si definisce “guerra” un
conflitto armato fra unità politiche sovrane (ossia Stati riconosciuti
diplomaticamente come tali dalla maggioranza degli altri Stati che
compongono la comunità internazionale) che registri un numero di
caduti in combattimento non inferiore a mille. Come tutte le
definizioni operative anche questa definizione, non è senza
1
Small, M. e Singer, D. The Wages of War, 1816-1965, New York, Wiley (citato da A.Panebianco in
Guerrieri Democratici, Bologna, Società editrice il Mulino, 1997, p.84 ).
5
problemi: il criterio di sovranità, che rinvia a forme di
riconoscimento diplomatico reciproco, tende infatti ad escludere
dal novero delle “guerre” le guerre civili. Inoltre e soprattutto,
esclude le guerre coloniali, ossia quei conflitti armati, anche di
notevole intensità che hanno costellato le diverse fasi
dell’espansionismo e dell’imperialismo europeo, nonché le guerre
di liberazione proprie della fase della decolonizzazione.
Molto più complicato da risolvere è il problema della definizione
operativa di “democrazia”. Secondo la notissima definizione
operativa di Dahl (1971)
2
una poliarchia è da considerarsi tale se e
solo se possiede le seguenti caratteristiche, garantite
costituzionalmente e tutelate nella pratica: libertà associativa;
libertà di espressione; diritto di voto attivo e passivo; diritto di
competere per il sostegno elettorale; fonti alternative di
informazione; elezioni libere; presenza di istituzioni che
garantiscono una certa dipendenza delle politiche governative del
voto popolare.
Small e Singer (1976)
3
adottano i seguenti, più sbrigativi, criteri:
1) elezioni libere; 2) diritto di voto esteso almeno al 10% della
popolazione maschile adulta; 3) un parlamento che controlla
formalmente il governo oppure che possiede poteri concorrenti.
Doyle (1983)
4
richiede un suffragio esteso almeno al 30% della
popolazione adulta maschile e inoltre, la piena sovranità
2
Dahl, R. Poliarchy, New Haven, Conn., Yale University Press; trad. It. Poliarchia, Milano, Angeli, 1980 (
citato da A. Panebianco in Guerrieri democratici, Bologna, Società ed. il Mulino, 1997, p. 85 ).
3
Small, M. e Singer, D., The War-Proneness of Democratic Regimes, 1816-1965, in << Jerusalem Journal of
International Relations >>, I, pp. 50-69. ( citato da A. Panebianco, Opera cit. p. 85 ).
4
Doyle, M., Kant, Liberal Legacies, and Foreign Affairs, in << Philosophy and Public Affairs >>, 12, pp.
205-235 e 223-353 (citato da A. Panebianco, Opera cit. ).
6
governativa sugli affari militari ed esteri, nonché una continuità di
regime di almeno tre anni.
Se si estende l’analisi al periodo 1960-80 trova conferma
l’assenza di correlazione fra guerra e tipo di regime politico. I
regimi democratici partecipano a guerre con la stessa frequenza con
cui vi partecipano altri tipi di regimi politici. Nei termini in cui è
sempre stata formulata la tesi liberale classica del pacifismo delle
democrazie apparirebbe dunque falsificata dai dati disponibili.
Anche se le democrazie partecipano alle guerre con altrettanta
frequenza dei regimi autoritari, ciò non basta a liquidare del tutto la
tesi secondo cui le democrazie sarebbero regimi politici
tendenzialmente più pacifici dei regimi autoritari. Una lancia a
favore del tendenziale pacifismo delle democrazie a confronto dei
regimi autoritari è spezzata, ad esempio, da Schweller (1992)
5
che
scopre una assai maggiore riluttanza delle democrazie ad utilizzare
lo strumento della “guerra preventiva” (l’attacco a freddo contro
un altro Stato di cui si sospettano le azioni bellicose) rispetto ai
regimi autoritari.
La guerra preventiva è lo strumento utilizzato dagli Stati in
presenza di un crescente differenziale di potenza: è utilizzato, per
esempio, da potenze declinanti contro potenze in ascesa.
Utilizzando una pluralità di casi storici Schweller individua invece
forti differenze fra i comportamenti dei regimi democratici e dei
regimi autoritari.
Infatti ad utilizzare la guerra preventiva in presenza di una
potenza rivale in ascesa risultano essere soltanto le potenze dotate
di un regime autoritario. Se la potenza in declino è invece una
5
Schweller, R.,Domestic Structure and Preventive War, in << World Politics >>, 44, pp. 235-269 ( citato da
A. Panebianco, opera cit., p. 87 ).
7
democrazia il suo comportamento è diverso da ciò che la teoria
realistica della “transazione di potere” ipotizza. Se anche la
potenza sfidante, in ascesa, è una democrazia, allora la potenza
democratica in declino cercherà un accomodamento pacifico; se,
invece, la potenza sfidante è un regime autoritario, allora la potenza
democratica in declino, anziché sferrare una guerra preventiva
cercherà di dare vita a una alleanza difensiva, per “contenere” la
potenza autoritaria in ascesa. Le cause di questo speciale
comportamento delle democrazie vanno rintracciate secondo
Schweller, in fattori tipici di tali regimi, i quali tendono a inibire il
ricorso alla guerra preventiva. Si va dal classico argomento della
riluttanza dei cittadini a pagare i costi della guerra al fatto che
l’ambiente politico competitivo delle democrazie, la divisione dei
poteri e la pubblicità del processo politico, favoriscono il ricorso
alla mobilitazione politica da parte dell’opposizione allorché si
ventilano ipotesi di guerra e ciò, di per sé, rende cauti i governanti,
alla circostanza, infine che pesano sull’azione dei governanti e
inibiscono il ricorso alla guerra preventiva i valori politici tipici
delle società a regime democratico.
C’è, osserva Schweller, un’importante eccezione: è il caso di
Israele nel suo rapporto con gli Stati arabi dal ’47 ad oggi. Ma il
caso di Israele è il caso di una democrazia che si trova a
fronteggiare “costrizioni sistemiche estreme: è un piccolo stato,
geograficamente isolato da altre democrazie che è continuamente in
lotta per sopravvivere”.
Da un lato, dunque, le democrazie tendono a non ricorrere alla
guerra preventiva a differenza dei regimi autoritari. Dall’altro lato,
l’eccezione rappresentata da Israele mostra che, in circostanze
8
estreme, anche le democrazie adottano un comportamento
“realistico”, ossia utilizzano senza remore tutti gli strumenti
(compresa la guerra preventiva) della politica di potenza, al pari di
tutti gli altri regimi politici. In generale possiamo affermare con
Aron che << le democrazie hanno tendenza a fare la guerra quando
sono esasperate e non quando la congiuntura è loro favorevole >>
6
.
Altra acqua al mulino della tesi della superiore propensione al
pacifismo delle democrazie è portata da Dixon (1993)
7
. Dixon
analizza le dispute interstatali dalla fine della seconda guerra
mondiale alla fine degli anni ottanta e scopre che le democrazie
ricorrono con assai maggiore frequenza degli Stati autoritari agli
arbitrati internazionali e al ruolo del “terzo” come giudice
imparziale delle controversie. In altri termini, benché le democrazie
siano coinvolte in guerre con la stessa frequenza dei regimi
autoritari, esse propendono più dei regimi autoritari a ricorrere a
forme non violente di risoluzione delle controversie interstatali.
Le democrazie tenderebbero ad estendere all’arena
internazionale e alla politica estera, quei principi di risoluzione
pacifica dei conflitti che adottano nella loro vita politica interna.
Questa tesi è abbracciata anche da Ray (1995)
8
nel più
sistematico lavoro fino ad ora pubblicato sull’argomento. Ray cita i
risultati di una ricerca di Bremer (1992)
9
da cui risulta che nel
periodo 1915-1965 sono molto più frequenti le guerre fra
autocrazie che fra autocrazie e democrazie, per appoggiare, sia pure
6
Aron R., Pace e Guerra tra le nazioni, trad. it. Edizioni di Comunità, Milano, 1970.
7
Dixon, W., Democracy and the Management of International Conflict, in << Journal of Conflict Resolution
>>, 37, 1, pp. 42-68 ( citato da A. Panebianco opera cit. p. 89 ).
8
Ray, J., Democracy and International Conflict, Columbia, University of South Carolina (citato da A.
Panebianco, opera cit. p. 89 ).
9
Bremer, S., Dangerous Dyads: Conditions Affecting the Likelihood of Interstate War : 1816-1965, in <<
Journal of Conflict Resolution >>, 36, pp. 309-341 ( citato da A. Panebianco, opera cit. p. 89 ).
9
con qualche cautela, la tesi del “pacifismo” delle democrazie. E’
comunque certo che esistono specificità che contraddistinguono il
rapporto fra le democrazie e la guerra.
Un’importante specificità riguarda il legame fra i cicli elettorali e
la guerra. Un’analisi condotta sul periodo 1815-1980 scopre che
solo tre guerre di una certa importanza videro coinvolta, in tutto il
periodo considerato, una democrazia nell’anno immediatamente
precedente a una elezione politica generale. La regolarità empirica
registrata è la seguente: meno guerre alla fine del ciclo elettorale,
più guerre all’inizio del ciclo. Quando accade che le democrazie
siano coinvolte in guerre alla fine del ciclo elettorale, tali guerre
risultano comportare invariabilmente un numero di morti in
battaglia molto limitato, più limitato di quello che caratterizza le
guerre in cui le democrazie si impegnano all’inizio del ciclo
elettorale. Quando si approssimano le lezioni i governanti in carica
appaiono dunque assai cauti, tendono ad evitare il coinvolgimento
in guerra e se questo comunque accade si tratta di guerre a bassa
intensità, con un numero limitato di caduti in combattimento. Tutto
cambia all’inizio del ciclo elettorale, nel periodo immediatamente
seguente alle elezioni.
Nel periodo post elettorale, quando il potere del pubblico può
essere considerato inferiore rispetto al potere del governo, le
democrazie non solo sono più propense a iniziare guerre ma hanno
maggiore probabilità di diventare bersaglio di altrui mire
aggressive.
Ricapitolando, le democrazie partecipano a guerre con la stessa
frequenza dei regimi autoritari ma appaiono meno disponibili a
ricorrere alla guerra preventiva rispetto ai regimi autoritari.
10
Appaiono inoltre più propense a esplorare strade negoziali e a
ricorrere a forme di arbitrato per la risoluzione pacifica delle
controversie. Infine, appaiono condizionate dai cicli elettorali.
Diverse e concorrenti “teorie” del rapporto fra la democrazia e la
guerra possono essere avanzate. Quattro diverse interpretazioni
sono state proposte: 1) le democrazie non sono pacifiche per le
stesse ragioni per cui non lo sono i regimi autoritari; 2) le
democrazie sono potenzialmente più pacifiche dei regimi autoritari
ma sono vittime del bellicismo di questi ultimi; 3) le democrazie
non sono pacifiche nei loro rapporti con i regimi autoritari per le
stesse ragioni per cui, invece, lo sono nei loro rapporti reciproci; 4)
le democrazie non sono pacifiche per ragioni diverse da quelle per
cui non lo sono i regimi autoritari.
Queste quattro interpretazioni vengono definite rispettivamente:
realista, liberale-ingenua, liberale-sofisticata ( o neo-Kantiana),
liberale-utilitaristica.
L’interpretazione realista prevede la circostanza secondo cui le
democrazie partecipano a guerre con la stessa frequenza dei regimi
autoritari è semplicemente un’ulteriore prova del fatto che il
comportamento internazionale degli stati è dettato dall’anarchia
internazionale e non dalla natura del loro regime interno.
L’interpretazione realista, tuttavia, non riesce a rendere conto di
alcune “anomalie”: ad esempio, il differente comportamento delle
democrazie rispetto ai regimi autoritari in materia di guerra
preventiva o la superiore propensione delle democrazie a ricorrere
a forme di arbitrato nelle dispute interstatali, o, ancora, l’influenza
che i meccanismi elettorali esercitano sul comportamento
internazionale delle democrazie.
11
L’altra interpretazione quella liberale-ingenua assume che le
democrazie siano senz’altro più pacifiche dei regimi autoritari.
L’ingenuità sta nella convinzione sottostante, secondo cui opinione
pubblica ed elettorali manifesterebbero sempre un orientamento
pacifista ( il che è sicuramente falso: i pubblici delle democrazie
possono, in certe circostanze, esibire atteggiamenti e volontà
fortemente aggressivi e bellicosi).
Questa interpretazione inoltre ha la serissima debolezza di non
poter essere facilmente provata. La “prova” si darebbe solo nel
caso in cui fosse possibile stabilire con sicurezza, per ogni guerra,
chi è l’aggredito e chi è l’aggressore. Ma è noto che tolto il caso
speciale della guerra preventiva è difficilissimo stabilire “chi ha
aggredito per primo chi” nella maggior parte delle guerre. Per
Doyle le democrazie liberali partecipano a guerre con gli Stati
autoritari per le stesse ragioni per le quali non si fanno la guerra fra
loro. Per Doyle le democrazie liberali sono portate dalla loro stessa
natura ad essere aggressive, ad adottare uno spirito di crociata nei
confronti dei regimi autoritari. Dal punto di vista delle democrazie
liberali gli Stati sono privi di “legittimità morale”. La regola del
non intervento negli affari interni di un altro Stato non vale, dal
punto di vista delle democrazie liberali, nei confronti degli Stati
che negano i diritti di libertà ai propri membri. Le democrazie
liberali sono pertanto disponibili, almeno potenzialmente, a
politiche aggressive nei confronti di quei regimi. Inoltre, nel caso di
regimi autoritari ad economia collettivista la differenza e l’ostilità
delle democrazie è accresciuta dalla mancanza di una comune
partecipazione a un sistema di libero commercio fondato
sull’economia privata di mercato. Per la prospettiva liberale-
12
Kantiana, la guerra fredda non fu soltanto un braccio di ferro
riducibile alla power politics di tipo realista. Essa era anche una
competizione esasperata dal confronto fra la formula politica
liberale e la formula politica comunista.
L’ultima interpretazione può essere definita liberale-utilitarista.
Nella versione di Lake (1992)
10
la differenza fra i regimi autoritari
e i regimi democratici sta nella superiore capacità dei primi di
estarre coercitivamente risorse dalla società. Ciò innesca un
meccanismo imperialista. I regimi autoritari sono portati
all’espansione (che produce guerre) per almeno tre motivi: per
ridurre la possibilità di exit (ossia di fuga dei sudditi verso territori
nei quali il tasso di sfruttamento statale sia più basso); per suscitare
minacce esterne che servono a tenere sotto pressione e a controllare
i propri sudditi; per ampliare, infine, attraverso l’espansione
territoriale, il totale delle risorse a disposizione dello Stato.
I regimi democratici sono diversi, la loro capacità di estrarre
coercitivamente risorse è limitata a causa dei vincoli istituzionali
tipici di tali regimi. Tuttavia, il loro coinvolgimento nelle guerre
non si distingue da quello dei regimi autoritari sia perché esse sono
portate a intervenire negli affari interni dei regimi autocratici sia
perché sono bersagli per le politiche espansionistiche di tali regimi.
Le democrazie godono di maggior consenso e maggior risorse cui
attingere in situazioni di emergenza ad è questa la principale
ragione per la quale le democrazie sono solite vincere le guerre che
le vedono coinvolte contro i regimi autoritari.
10
Lake D., Powerful Pacifists: Democratic States and War, in << American Political Science Review >>, 86,
1, pp. 24-37 ( citato da A. Panebianco, opera cit. p. 93 ).
13
1.1 La pace separata
Fin quando le democrazie erano poco numerose e constatato il
fatto che esse partecipavano alle guerre con la stessa frequenza dei
regimi autoritari, non c’era modo, né motivo, per notare una
“stranezza”, una singolare circostanza: il fatto che le democrazie
non si fanno la guerra fra loro o se la fanno assai raramente. Questa
regolarità empirica viene notata da Babst (1972)
11
.
Nel 1976 Small e Singer “liquidano” la questione sostenendo che
se non risultano esserci guerre fra le democrazie, ciò va senz’altro
attribuito a circostanze accidentali: come, in alcuni casi, l’assenza
di confini comuni tra democrazie o, in altri, l’eccesso di
sproporzione di forze fra democrazie confinanti.
Jack Levy (1988)
12
definirà l’assenza di guerre fra democrazie
come ciò che più si avvicina a una “legge empirica” della politica
internazionale. I contorni della “cosa”, la regolarità empirica
secondo cui le democrazie non si fanno la guerra fra loro, non sono
così nitidi come potrebbe apparire da queste prime battute.
C’è poi il problema del grado di istituzionalizzazione o
consolidamento della democrazia. Ha senso includere fra le
democrazie i regimi democratici appena nati, nei quali i
meccanismi e gli istituti della democrazia non si sono ancora
consolidati? La maggior parte degli autori risponde di no ed
esclude dalla lista i casi di democrazie che non abbiano esibito una
certa capacità di durata e di stabilità.
11
Babst D., A Force for Peace, in << Industrial Research >>, 14, pp. 55-58 ( citato da A. Panebianco, opera
cit. p. 94 ).
12
Levy J., Domestic War and Peace, in << Journal of Interdisciplinary History >>, 18, 4, pp. 653-673 ( citato
da A. Panebianco, opera cit. p. 95 ).
14
Maoz e Russet (1993)
13
, controllando i dati per il periodo 1946-
1986 mostrano che l’assenza di guerre fra democrazie non è un
“artefatto statistico”, una correlazione spuria determinata
dall’operare di altri fattori (causa l’assenza di confini o il livello di
sviluppo economico). Resta la questione dei casi dubbi, delle
apparenti eccezioni, la cui lista, è piuttosto ristretta. Tolti alcuni
casi, come, ad esempio, la guerra fra Ecuador e Colombia del 1863
che fu una guerra fra due regimi democratici non ancora
istituzionalizzati e altri casi analoghi di non difficile spiegazione i
casi dubbi più importanti sembrerebbero ridursi a due: la guerra
ispano-americana del 1898 e il caso della Germania imperiale
durante la prima guerra mondiale. A sua volta Doyle (1983)
14
afferma che il caso della Germania Imperiale del 1914 può essere
spiegato tenendo conto delle specificità del regime politico tedesco
il quale aveva molti degli attributi della democrazia liberale ma non
tutti: mancava la responsabilità del governo verso il parlamento
nonché il pieno controllo del parlamento sul bilancio dello Stato.
Una sorta di pace separata sembra esistere (e resistere) fra le
democrazie.
Secondo Russett (1993)
15
la regolarità avrebbe davvero qualcosa
di impressionante dal momento che su circa settantuno guerre
interstatali nel periodo 1915-1992 che coinvolgono circa 270 Stati
non si può registrare nessun caso di guerra fra democrazie stabili
unanimemente riconosciute come tali ma solo, peggiore delle
ipotesi, un ristrettissimo numero di casi dubbi.
13
Maoz Z. e Russet B., Normative and Structural Causes of Democratic Peace. 1946-1986, in << American
Political Science Review >>, 87, 3, pp. 624-638 ( citato da A. Panebianco, opera cit. p. 96 ).
14
Doyle M. Ibidem,
15
Russett B., Grasping the Democratic Peace, Princeton, N.J., Princeton University Press. ( citato da A.
Panebianco, opera cit. p. 97 ).
15
Sono cinque le principali candidate al titolo di “teoria esplicativa
più plausibile” della pace separata. La prima è quella neo-Kantiana.
Kant indica, in “Per la pace perpetua” tre condizioni come
necessarie per la pace:
1) tutti gli Stati coinvolti devono avere una costituzione
repubblicana;
2) devono istituire fra di loro un foedus pacificum;
3) deve essere fra loro in vigore il dovere di ospitalità proprio del
diritto cosmopolitico e che, pertanto, grazie ad esso, lo “spirito
del commercio” con i suoi effetti pacificatori, possa
dispiegarsi.
E’ necessario perché si istauri la pace perpetua, che tutti e tre le
condizioni siano simultaneamente presenti.
La teoria neo-Kantiana dice che le democrazie liberali hanno
realizzato, nei loro rapporti reciproci, tutte e tre le condizioni
indicate da Kant. Da un lato, giocano le istituzioni e i valori su cui
si fonda la democrazia liberale. A differenza dei regimi autoritari le
democrazie agiscono sulla scena internazionale sotto il peso di forti
vincoli interni e questo consente di instaurare un clima di reciproca
fiducia. Inoltre contano i valori e le norme su cui si fondano i
regimi democratici. Valori e norme che vietano la risoluzione
violenta dei conflitti. La consuetudine di rapporti pacifici fra
democrazie liberali stabili le porta a instaurare relazioni di fiducia a
un livello tale che, superata una certa soglia, le regole anarchiche
dello “Stato di guerra” cessano di valere fra loro, la possibilità del
ricorso alla guerra diventa progressivamente impensabile. Infine, il
fatto che tali democrazie si fondano sulla libertà economica
consente allo “spirito di commercio” di prosperare.