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ABSTRACT
La Tesi che vado qui a presentare tratta della Relazione con Dio come esperienza
di Attaccamento: è mio intento in questo scritto, appunto, discorrere sulla possibilità di
vedere la relazione che si ha in ambito religioso, in particolare nella Religione Cristiana
Cattolica, tra credente e Dio alla luce della Teoria dell’Attaccamento formulata da John
Bowlby (1969, 1973, 1980), accostando Dio ad una possibile figura di caregiver mentre
si intende il fedele in condizione figliare.
La teoria dell’Attaccamento e la Religione
Il percorso qui proposto parte dall’Analisi della Teoria dell’Attaccamento, così
come concepita nella trilogia di Bowlby “Attaccamento e perdita” (1969, 1973, 1980):
tale concetto riguarda quel sistema comportamentale innato che ha lo scopo di aiutare il
soggetto a creare legami di valenza emotiva con gli altri e, in secondo luogo, di
soddisfare bisogni di affetto e di percezione di sicurezza. La persona scelta dal piccolo,
solitamente la madre, la quale sarà detta “Caregiver”, diventerà figura importantissima
di legame e sarà ricercata ogni qualvolta lo stesso, anche in fasi successive alla prima
infanzia, si percepirà in pericolo, in solitudine o bisognoso di aiuto e conforto.
La teoria intende l’Uomo come biologicamente predisposto a tale sistema
comportamentale, che è da subito attivato e che si modifica e sviluppa con l’età. Tale
crescita del sistema, con conseguente sua definizione della modalità propria di
Attaccamento, è fortemente influenzata dalle tipologie di feedback che la madre offre
alle richieste di conforto e bisogno del piccolo. Anche grazie a questi, infatti, il bambino
svilupperà un Attaccamento Sicuro o Insicuro; in quest’ultimo caso, arriverà ad essere o
Evitante o Ansioso, salvo casi estremi che sfoceranno in una tipologia Timorosa. Tali
tipologie relazionali si possono individuare tramite una metodologia messa a punto dalla
Ainsworth (1969), denominata Strange Situation, in cui i bambini sono posti in una
situazione di stress emotivo. Dalle loro reazioni si comprende la tipologia di relazione
in base a quelle teorizzate da Bowlby.
Studi successivi, poi, hanno teorizzato che ad ogni tipologia di Attaccamento
corrispondono delle rappresentazioni interne del sØ e degli altri, detti “Modelli Operativi
Interni” (Main, 1985), di tipo positivo o negativo, e che essi influenzano e direzionano
le relazioni che l’individuo andrà a intraprendere per tutta la vita. Tali immagini mentali
non sono stabili, ma possono essere soggette a variazioni e migliorie nel tempo.
Tutto questo, a detta di Kirkpatrick (1990), è riportabile anche nella relazione che
il fedele crea con Dio, in cui questi si pone come Caregiver Celeste, proprio come
nell’immaginario giudaico-cristiano, mentre il credente diventa figlio del Trascendente,
così come afferma il Cattolicesimo quando ci pone nella condizione di figli del Signore.
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La Religione e il suo sviluppo
Nella seconda parte approfondisco il tema della Religione dal punto di vista e
psicologico e antropologico. La Religione è stata da piø psicologi studiata nelle sue
numerosi componenti: Allport (1950) la definisce come un senso di chiamata e di
fiducia totale che un soggetto, detto credente, ripone in una persona o entità
trascendentale, che comunica con questa attraverso molteplici modalità, siano esse
collettive o individualistiche. In seguito, lo psicologo americano definisce anche il
sentimento che si lega a questo costrutto, quello della Religiosità, differenziabile in
tipologia Estrinseca o Intrinseca.
I concetti religiosi nascono nell’individuo fin dai primi anni della sua vita: e Freud
(1905, 1913) e Allport (1950) tracciano due percorsi sulla nascita e crescita delle idee di
Dio e della Sua percezione nell’individuo durante il corso della sua esistenza.
Importante è la teoria di Rizzuto (1970) che esplica la differenza tra Immagine di
Dio e Idea di Dio nell’individuo e nella società. A questa, faccio seguire un breve
“percorso fotografico” di rappresentazioni di Dio così come viene immaginato e
raffigurato sia dai bambini, che ne disegnano la propria percezione mentale, sia dalle
civiltà dell’Uomo, che da sempre ha cercato di rappresentarsi il Trascendente.
Importante è andare a cercare testimonianze bibliche della paternità di Dio: Dio è
rivelato padre sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento, ma in particolar modo è grazie
a Gesø che arriviamo a concepirlo e sentirlo come Papà di ognuno di noi.
Proseguo poi in questa parte confrontando e valutando se si possono ritrovare le
sei componenti della relazione di Attaccamento Bambino-Caregiver teorizzate da
Bowlby (1969) anche nel legame Dio-Credente. Esse si possono riscontrare anche nel
rapporto di fede con l’Onnipotente, in cui questo si dimostra vero Caregiver in quanto
porto sicuro, costante nella presenza vicino all’uomo, base sicura da cui partire per le
personali esplorazioni e raggiungibile e accessibile attraverso la preghiera.
La relazione di Attaccamento con Dio Padre
La terza parte è l’unione delle due precedenti: essa conclude il percorso,
approfondendo gli esiti, con le relative conseguenze, dell’intendere il rapporto con Dio
come legame di Attaccamento, mostrandone le teorie, le modalità e le ricerche svolte
nel tempo dalla Psicologia. Di particolare interesse ai fini di questa tesi, e di ciò che essa
tratta, è la teoria di Kirkpatrick (1999): questi ipotizza l’esistenza di due possibili
comportamenti messi in atto dal soggetto credente verso Dio, uno di tipo
Corrispondente e uno di tipo Compensativo. Kirkpatrick, inoltre, prosegue i suoi studi
approfondendo come i Modelli Operativi Interni influenzino la relazione col Padre.
Arrivando alla conclusione, indico alcune ricerche che meglio aiutano a
comprendere come la Psicologia ha studiato la relazione tra il Credente e Dio, gli
strumenti di maggior rilevanza nello studio di questo costrutto, i limiti, i pregi mostrati
nelle sperimentazioni e, infine, quali prospettive di ricerca si aprono nel futuro.
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INTRODUZIONE
“Il bambino acquista il primo senso della propria esistenza dai gesti e dalle parole che la
madre gli dedica. ¨ come se negli occhi, nel sorriso, nel tocco della madre, il bambino
leggesse per la prima volta il messaggio: ‘Esisti!’. E anche la madre riscopre la propria
esistenza. ¨ legata a questo essere da vincoli estremamente concreti ed impalpabili, così
come non è mai stata legata a nessun altro se non con sua madre nel lontano passato”.
(Adrienne Rich, “Nato di Donna”)
“Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad
acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore
del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male, perchØ
tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”.
(Libro dei Salmi 23, 1-4)
Scelgo di introdurre questo mio scritto attraverso queste due citazioni, l’una
proveniente dal libro “Nato di donna” (1996) della poetessa e saggista statunitense
Adrienne Rich e l’altra dalla Bibbia. Tale scelta è guidata dal senso che suscitano in me
tali frasi, e che sento legato al tema di questa tesi di laurea riguardante la relazione con
Dio come esperienza di attaccamento.
La citazione della Rich indica bene il rapporto tra un bimbo e il suo caregiver: il
bambino, rivolgendosi alla madre con tutto se stesso, tenta di comunicare le proprie
esigenze, cercando conferma di sØ e delle sue necessità espresse; dall’altra parte la
madre, solitamente il principale caregiver di ogni bimbo, riscopre se stessa, il suo ruolo
e ricorda come lei stessa, da bambina, si rivolgeva alla propria madre così come ora suo
figlio verso lei, indicando una certa trasmissione intergenerazionale della modalità di
attaccamento.
I versetti del Salmo 23 ci indicano bene l’immagine che il popolo ebreo, dalla cui
cultura è nata la Bibbia, aveva di Dio: una guida (“il mio pastore”, da notare la relazione
con il mondo della pastorizia, fondamentale e diffusa attività nella cultura giudaica) che
conduce chi si affida a lui a “pascoli erbosi” e “acque tranquille”, che sostiene e che in
una “valle oscura” è vicino, allontanando ogni sentimento di paura e dando sicurezza.
Se unissimo le due citazioni, se provassimo a complementare i soggetti e le azioni
che rispettivamente il bambino con il credente e Dio con la madre compiono nella loro
relazione con l’altro, potremmo ben accostare Dio alla figura del caregiver e quella del
credente a quella del bimbo che al primo si rivolge. Possibile, quindi, comparare una
relazione di attaccamento madre-figlio ad un legame di natura religiosa credente-Dio?
Si può parlare di “Attaccamento” quando un individuo si relaziona con l’Altro?
La Psicologia, in particolare quella della Religione, studia da tempo gli aspetti
dell’atteggiamento degli individui verso la Religione: questa, generalmente, viene intesa
come “senso d’appello, di subordinazione, di abbandono ” (Allport, 1950, p. 42) di un
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soggetto, chiamato credente, verso entità superiori e può avere molteplici forme
individuali o collettive, informali o istituzionalizzate.
La Psicologia della Religione studia della stessa la dimensione soggettiva, ossia
come l’individuo si rapporta al credo che gli è dato dall’ambiente e dalla cultura che
incontra, i fenomeni considerati religiosi all’interno di uno specifico contesto culturale e
come la Fede di un individuo influenzi il pensiero e il comportamento del credente
intrecciandosi con il suo sviluppo mentale: l’interazione tra dimensione psichica e
religiosa di un soggetto, infatti, determina la sua identità, i suoi valori e le sue
motivazioni alla base di ogni sua azione a seconda se egli accetterà o rifiuterà una
qualsiasi dottrina di fede. Da qui, quindi, la Religione sarà trattata dalla Psicologia sia
come oggetto culturale che come evento soggettivo.
La Psicologia della Religione (Granqvist, 1998, p. 3) ha come scopo quello di
comprendere le basi del comportamento degli individui verso il loro credo,
analizzandone i fattori inconsci, culturali, sociali e individuali; da questo, infine, lo
studio proseguirà sia sui sistemi d’influenza che le credenze esercitano sugli adepti delle
Religioni, sia come il soggetto utilizzi il contenuto della sua fede. Essa, quindi, prende
in considerazione comportamenti e atteggiamenti che la persona o il gruppo qualificano
come religiosi, perchØ collegati con la fede in un essere soprannaturale oppure con una
visione della vita che non esclude la dimensione del sacro, e cerca di comprenderne i
fattori motivazionali.
Importante è affermare che la Psicologia della Religione non è affatto competente
a pronunciarsi sulla realtà o sulle proprietà del soprannaturale cui l’atteggiamento
religioso si riferisce. Si tratta di un’esclusione metodologica del trascendente con una
duplice conseguenza: per primo, la Psicologia della Religione (Granqvist, 1998, p. 6)
non si ritiene abilitata a dimostrare oppure a confutare le affermazioni propriamente
religiose, ponendosi al di fuori degli interrogativi di portata teologica ma puntando a
svelare i fattori religiosi che condizionano il comportamento umano nelle sue
componenti, favorendolo o ritardandolo nella sua maturazione; in secondo luogo, la
Psicologia della Religione ritiene che non sia possibile in alcun modo e a nessun titolo
introdurre l’azione del sovrannaturale per spiegare un determinato comportamento, ma
si può solo osservare la componente di Fede e tenerne conto in ambito di ricerca per il
suo risvolto psicologico.
I criteri di studio utilizzati dalla Psicologia per l’analisi della Religione sono
fondamentalmente quattro, come indica Granqvist (1998). Il primo nasce dalla
considerazione che ogni singola azione ha come contenuto tutte le altre azioni della
persona e le intenzioni che sottostanno ad essa e che attraverso essa il soggetto esprime:
importante diventa cercare di comprendere ciò che la persona intende esprimere e
realizzare con il proprio atteggiamento. Secondo criterio è l’intendere la Religione come
totalità dell’individuo credente data la sua influenza sull’attività, sulle scelte, nei
pensieri e nella maturazione psicofisica del credente. La dinamicità, ossia l’intendere
ogni comportamento religioso come qualcosa che cresce e si sviluppa con la persona, è
il terzo criterio: il sentimento religioso vive nella storia dell’individuo, sviluppandosi in
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ogni momento di crescita del singolo e della comunità. Ultimo e quarto criterio è che
non si può pretendere di fare una lettura psicologica della Religione prescindendo dal
significato culturale che essa assume in un determinato contesto culturale.
Importante è la distinzione che nell’ambito della psicologia si ha tra “Religione”
e “religiosità” (Schultz & Lavenda, 2010): la prima è l’insieme delle credenze e
manifestazioni in cui l’Uomo riconosce l’esistenza di un soprannaturale, mentre la
“religiosità” è il sentimento del divino che guida il credente alla relazione con un essere
trascendentale. Spesso le due vengono confuse, dando luogo a confusioni
terminologiche e concettuali che si cerca sempre di evitare ponendo delle definizioni di
partenza. Da questa distinzione nasce la definizione di credente, inteso come colui che
nella propria psiche ha sintetizzato significativamente col tempo la propria Religione
alla religiosità, ossia ha maturato la capacità di trovare risposte adeguate ai propri
bisogni e alla necessità di felicità duratura.
Solo da pochi decenni la teoria dell’Attaccamento, originariamente ideata da
John Bowlby (1969), e proseguita con gli studi di Mary Ainsworth (1978), è stata
accostata all’ambito religioso fino ad interrogarsi sulla possibilità di leggere il rapporto
divinità-credente come legame di Attaccamento caregiver-bambino. Piø precisamente,
dagli inizi degli anni ’90 Kirkpatrick (1990) negli Stati Uniti e Granqvist (1998) in
Europa hanno iniziato a trattare il rapporto con Dio, inteso come caregiver, in
quest’ottica, sviluppando teorie innovative e svolgendo ricerche con soggetti di tutte le
età e fede. Diventa questo, in tale scritto, lo scopo: indagare, attraverso una ricerca
bibliografica, come la letteratura, sia scientifica che non, abbia trattato tale argomento
nel corso degli anni, cercando di dimostrare le varie teorie e indicando le ricerche
sperimentali principali ad esse correlate.
Considerazione finale di tale introduzione è che ogni qualvolta parlerò di
“Religione” e di “Dio”, usando tali termini o parole ad essi collegati, mi riferirò
all’ambito Cristiano Cattolico, salvo nelle occasioni dove io stesso indicherò il
riferimento ad un altro credo o ad altre entità superiori.
Al termine di questa riporto un articolo del Catechismo della Chiesa Cattolica
dove risulta descritta una perfetta relazione di Attaccamento col Padre, che ben può
aiutare ad introdurci nello scritto: “Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo,
perchØ l’uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sØ l’uomo e
soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa” (Catechismo
della Chiesa Cattolica, pt. 27).
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PARTE 1 . LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO E LA
RELIGIONE
1 – TEORIA DELL’ATTACCAMENTO
1.1 Origini della teoria.
Con il termine “Attaccamento” (Bowlby, 1969) s’intende il legame emotivo che
un individuo stabilisce con una persona considerata capace darle attenzione, affetto e
sicurezza. Con questa definizione il piø delle volte ci si riferisce al primo legame che il
bambino instaura con una figura specifica, tendenzialmente la madre: il piccolo è,
infatti, biologicamente predisposto a sviluppare un legame di attaccamento verso chi si
prende cura di lui, il suo “Caregiver”.
Il primo a proporlo come concetto utile per spiegare il comportamento dei
bambini fu John Bowlby (1969) nella sua opera in tre volumi “Attaccamento e
Perdita”(1969, 1973, 1980): egli elabora le varie fasi e conseguenze della relazione di
attaccamento prendendo spunto da studi precedenti a lui in ambito etologico e
psicoanalitico.
Inizialmente fu Freud, in “Tre saggi sulla sessualità” (1905), ad affermare che “la
relazione del bambino con la madre è unica, senza paralleli, tale che una volta stabilita
si mantiene inalterabile per tutta la vita come la prima e piø forte relazione d’amore, e
come il prototipo di tutte le successive relazioni d’amore, e questo è vero per entrambi i
sessi ”(Freud, 1905, p. 77). Egli proseguiva dicendo che il bambino, alla vista della
madre, va incontro ad una generica eccitazione libidica data da pulsioni di
sopravvivenza di base che lo spingono verso un “oggetto bersaglio”, su cui riduce la
crescente tensione interna generata dalla stessa pulsione motrice; da questo, quindi, non
esisterebbe un reale desiderio di rapportarsi alla madre e l’Attaccamento, inteso come
legame con un oggetto, risulta essere una mera pulsione secondaria.
A questo seguì Lorenz con la sua “Teoria pulsionale etologica”(1978): in essa si
afferma che le pulsioni sono istinti caratteristici di ogni singola specie in relazione alla
propria struttura genetica; l’ambiente e l’esperienza agiscono come “modulatori”
dell’espressione degli istinti di base della specie. Egli osserva che la relazione fra
stimolo e tipo di risposta è innata, poichØ è uguale in tutti gli individui della stessa
specie, e che l’energia istintuale è specifica per ogni tipo di comportamento messo in
atto dall’individuo in risposta allo stimolo stesso; spesso tali comportamenti specie-
specifici non sono consapevoli, neanche nell’Uomo, e possono essere sostituiti in
determinati periodi iniziali della vita di un essere vivente, i “periodi sensibili”: è in essi
che si forma una prima associazione stimolo-innesco del comportamento istintivo,
legame che resterà stabile e immodificabile per tutta la vita. La dimostrazione di tutto
ciò starebbe nel fenomeno dell’”Imprinting”, dimostrato nell’esperimento degli
anatroccoli dello stesso padre dell’Etologia: in natura gli anatroccoli, dopo la nascita,
iniziano a seguire la prima figura che vedono in movimento, che rappresenta per loro