2
constitutum est”)
1
; in secondo luogo, non può prescindersi dalla
normazione, ovvero quell’insieme di atti e comportamenti che i
consociati ritengono fondamentali per una civile convivenza; infine,
occorre un’organizzazione, in quanto una società priva di qualunque
assetto organizzativo non può gettare le basi per la sua
realizzazione
2
. È evidente che i tre elementi non possano prescindere
l’uno dall’altro, non potendo esistere normazione senza un apparato
organizzativo che, a sua volta, non può fare a meno di una
molteplicità di soggetti. Se cosi è, ovvero se occorrono questi tre
elementi per riscontrare la presenza di agglomerati giuridici, si può
notare come essi siano presenti anche in ordinamenti diversi
dall’ordinamento giuridico per eccellenza che, nelle culture
occidentali moderne, è rappresentato dallo Stato. Si assiste, infatti,
all’affiancamento ad esso di ordinamenti quali ad es. quello
religioso, quello sportivo e quello comunitario.
1
Si notino nella definizione latina alcune particolarità: innanzitutto, l’uso del plurale
“hominum” che rafforza il concetto di pluralità o di necessaria presenza dell’altro. In secondo
luogo, l’inciso iniziale “hominum causa” si presta a due letture differenti ma, con ogni
probabilità, intimamente correlate: può, infatti, essere inteso sia come complemento di causa che
come complemento di scopo, con la conseguenza di intendere il diritto come un’invenzione fatta
dagli uomini e per gli uomini.
2
Locke, a tal proposito, dando un’altra giustificazione alla nascita del diritto, fondata sul
contrattualismo o sul contratto sociale, vede la nascita dell’ordinamento giuridico
nell’abbandono dello stato di natura, ovvero quando gli individui decidono di organizzarsi per
evitare di distruggersi a vicenda: “ne cives ad arma ruant”.
3
Il compito che spetta all’interprete, una volta riscontrata
l’esistenza di queste “altre forme di vita nell’universo giuridico”, è
quello di trovare i punti di contatto tra l’ordinamento statale e gli
altri ordinamenti. Onere questo che deve, tra l’altro, considerare le
differenze tra i vari ordinamenti, in quanto se per l’ordinamento
confessionale e per l’ordinamento sportivo si tratta di sistemi nati
per sviluppare la personalità dell’uomo, per usare un’espressione
contenuta nell’art. 2 della Costituzione, non altrettanto può dirsi per
l’ordinamento comunitario. Nato, probabilmente, con scopi limitati
− analogamente a quanto già riscontrato negli altri ordinamenti −
consistenti nell’impedire la corsa al riarmo dello Stato che si era reso
protagonista dello scoppio della seconda guerra mondiale, attraverso
la geniale intuizione di Robert Shumann, esso ha avuto modo di
svilupparsi e di rafforzarsi al di là di ogni aspettativa e previsione
dei padri fondatori. Si assiste, oggi, alla realizzazione di un apparato
organizzativo e normativo di enorme portata in grado di imporre la
sua prospettiva a quella dei singoli Stati. Non si può fare a meno di
notare che, quando lo Stato si è trovato di fronte ad un altro
ordinamento con cui instaurare un rapporto, al fine di promuovere lo
sviluppo della persona umana, ha sempre esercitato liberamente la
sua sovranità, che si è tradotta ad es. ora nelle intese con le
confessioni religiose ora nelle leggi che hanno compiutamente
regolato il movimento sportivo. Nel caso del diritto comunitario,
4
invece, lo Stato si è trovato di fronte ad un’organizzazione che, se in
un primo momento ha riconosciuto e rispettato la sovranità dei
singoli Stati, successivamente ha avuto modo di svilupparsi
prescindendo dalle dinamiche operanti all’interno dei territori
nazionali. Una sorta di moderno “cavallo di Troia” che, una volta
fatto entrare dentro le mura dello Stato, ne ha minato alcuni aspetti
fondamentali: dal ruolo delle Istituzioni alle funzioni della
magistratura, dalle fonti del diritto fino alla posizione della Corte
costituzionale. Proprio l’attività della Corte può essere considerata
uno degli aspetti più rilevanti nel processo di integrazione
dell’Unione europea, anche se in non poche occasioni ha preferito
sposare una politica difensiva rispetto alla dirompente avanzata del
diritto comunitario; forse consapevole di rischiare di perdere il ruolo
assegnatole dal costituente, ovvero di supremo organo garante della
Costituzione.
5
CAPITOLO I
LA CONFIGURAZIONE DEI RAPPORTI CON
L’ORDINAMENTO COMUNITARIO NELL’EVOLUZONE
DELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE
COSTITUZIONALE
6
1. Premessa
Il rapporto tra le fonti del diritto comunitario e le fonti del
diritto interno ha creato non pochi problemi agli interpreti, al punto
che ancora oggi i risultati acquisiti non possono certo dirsi
soddisfacenti. L’evoluzione che ha dato vita all’attuale assetto è
stata, infatti, frutto di numerosi sforzi dottrinali e di una corposa
opera di razionalizzazione da parte della Corte costituzionale
3
.
Il problema fondamentale risiede nella esistenza di due
ordinamenti, quello nazionale e quello comunitario, destinati ad
interagire costantemente alla luce dell’obiettivo prefissato dai Padri
3
Nella sterminata letteratura in ordine ai rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, si
segnalano: V. ANGIOLINI-N. MARZONA, Diritto comunitario-diritto interno:effetti
costituzionali e amministrativi, Padova 1990; L. CALIFANO, Separazione e integrazione fra
ordinamento interno e ordinamento comunitario nella recente giurisprudenza della Corte
costituzionale, in St. parl. pol. cost.., 111/1969; M. CARTABIA-M. LUCIANI, Note sui
rapporti fra Costituzioni nazionali e integrazione sopranazionale nella giurisprudenza dei
tribunali costituzionali europei, in Dir. Pubbl. 1995; F. DONATI, Diritto comunitario e
sindacato di costituzionalità, Milano 1995; E. MENCARELLI, La legge comunitaria tra vincoli
di attuazione del diritto comunitario e autovincoli legislativi dei procedimenti di recepimento, in
AA.VV., Trasformazioni della funzione legislativa, I, Vincoli alla funzione legislativa, a cura di
F. Modugno, Milano 1999; A. RUGGERI, Continuo e discontinuo nella giurisprudenza
costituzionale a partire dalla sent. n. 170 del 1984, in tema di rapporti tra ordinamento
comunitario e ordinamento interno: dalla teoria della separazione alla prassi della integrazione
sistemica?, in Giur. cost., 1991.
7
fondatori dell’Unione: la piena integrazione tra gli stati dell’Unione
Europea.
Tuttavia, al momento della creazione delle tre Comunità, le
esigenze contingenti - legate alla questione dell’appartenenza del
bacino della Ruhr - erano talmente importanti che non si poteva
certo pensare a tutti i profili problematici che l’istituzione di un
organismo, con potere di emanare atti pienamente efficaci all’interno
del territorio degli stati, poteva comportare. Ma il problema della
possibile coesistenza di atti emanati da due ordinamenti diversi
venne alla luce al momento dell’esecuzione dei trattati istitutivi;
esecuzione che avvenne non tramite legge costituzionale, a causa
dell’opposizione del partito comunista, ma con legge ordinaria. Tale
soluzione era evidentemente incompatibile con l’assetto delineato
dalla Costituzione
4
soprattutto sotto il profilo della normazione sulla
4
Per un inquadramento generale in tema di fonti del diritto, oltre a V. CRISAFULLI, Lezioni di
diritto costituzionale, II, Le fonti normative, Padova 1984, v. A. PIZZORUSSO, Delle fonti del
diritto, in Commentario del Codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma
1977; A. RUGGERI, Gerarchia, competenza, e qualità nel sistema costituzionale delle fonti
normative, Milano 1977; G. ZAGREBELSKY, Il sistema costituzionale delle fonti del diritto,
Torino 1984; F. SORRENTINO, Le fonti del diritto, Genova 1994; F. MODUGNO, Appunti per
una teoria generale del diritto. La teoria del diritto oggettivo, Torino 1989; L. PALADIN,
Saggio sulle fonti del diritto italiano: le problematiche della definizione e dell’individuazione,
in Quad. cost. 1993; G. ALPA, I principi generali e le fonti del diritto, in Pol. Dir. 1992; T.
MARTINES, Istituzioni di diritto pubblico, a cura di L. Ventura, Milano 1999; P. RESCIGNO,
Corso di diritto pubblico 1999/2000; R. BIN-G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Torino
2000.
8
normazione: i Trattati prevedevano un sistema di fonti (in particolare
regolamenti e direttive) di rango quantomeno uguale, se non
addirittura superiore, derogando alla regola, risalente al Crisafulli,
del numerus clausus delle norme primarie.
È evidente l’illegittimità di una tale soluzione; tuttavia ragioni
di carattere essenzialmente politico più che giuridico hanno indotto a
trovare una giustificazione a questo assetto, in quanto una logica
prevalentemente nazionale avrebbe comportato una crisi
istituzionale e una possibile estromissione dell’Italia dall’Unione.
2. La copertura costituzionale delle fonti comunitarie
La situazione di conflitto tra ordinamento interno e
ordinamento comunitario, quale si era venuta a creare a seguito della
sentenza n. 14/1964 - che aveva configurato un sistema basato sulla
parità tra le fonti primarie nazionali e le fonti comunitarie - venne
parzialmente risolta dal Giudice delle leggi con la sentenza n.
183/1973. La sentenza n. 14 aveva, infatti, concluso, essendo in
presenza di atti aventi pari rango nella gerarchia delle fonti, che un
atto comunitario (come ad esempio un regolamento) poteva essere
abrogato da una legge nazionale successiva sulla base del noto
9
canone della lex posterior
5
. Di fatto una soluzione del genere
rimetteva il primato del diritto comunitario, sancito nell’art. 189
Trattato CEE, alla buona volontà delle maggioranze politiche e dei
parlamenti nazionali.
La situazione muta radicalmente nel 1983 quando la Corte
trova una giustificazione all’esecuzione dei Trattati con legge
ordinaria tra le stesse norme della Costituzione, addirittura tra i
principi fondamentali, allo stesso tempo confermando il primato del
diritto comunitario. Vi si legge: “La disposizione dell'art. 11 della
Costituzione significa che, quando ne ricorrano i presupposti, è
possibile stipulare trattati i quali comportino limitazione della
sovranità, ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinaria”
6
. Per
quanto riguarda il caso di un regolamento successivo ad una legge
5
Cfr. sent. n. 14/64, punto 6 del cons. in dir, “Non vale, infine, l'altro argomento
secondo cui lo Stato, una volta che abbia fatto adesione a limitazioni della propria sovranità, ove
volesse riprendere la sua libertà d'azione, non potrebbe evitare che la legge, con cui tale
atteggiamento si concreta, incorra nel vizio di incostituzionalità. Contro tale tesi stanno le
considerazioni ora esposte, le quali conducono a ritenere che la violazione del trattato, se
importa responsabilità dello Stato sul piano internazionale, non toglie alla legge con esso in
contrasto la sua piena efficacia.
Nessun dubbio che lo Stato debba fare onore agli impegni assunti e nessun dubbio che il trattato
spieghi l'efficacia ad esso conferita dalla legge di esecuzione. Ma poiché deve rimanere saldo
l'impero delle leggi posteriori a quest'ultima, secondo i principi della successione delle leggi nel
tempo, ne consegue che ogni ipotesi di conflitto fra l'una e le altre non può dar luogo a questioni
di costituzionalità.”
6
Cfr. sent. n. 183/73, punto 6 del cons. in dir.
10
ordinaria nulla quaestio, applicando in tal caso i principi generali
sulla lex posterior; invece, nel caso in cui sia la norma di legge la
fonte sopravvenuta, questa non potrà prevalere sulla fonte
comunitaria in virtù della copertura offerta dall’art. 11 Cost. Si passa
da un’ottica formale-procedimentale, fatta propria dalla sentenza del
1964, ad un’ottica assiologico-sostanziale grazie alla copertura
offerta dal valore della pace e giustizia tra le nazioni sancito nell’art.
11. Per di più, la Corte precisa che una tale interpretazione
dell’articolo 11 è l’unica ragionevole in quanto “la disposizione
risulterebbe svuotata del suo specifico contenuto normativo, se si
ritenesse che per ogni limitazione di sovranità prevista dall'art. 11
dovesse farsi luogo ad una legge costituzionale. È invece evidente
che essa ha un valore non soltanto sostanziale ma anche
procedimentale, nel senso che permette quelle limitazioni di
sovranità, alle condizioni e per le finalità ivi stabilite, esonerando il
Parlamento dalla necessità di ricorrere all'esercizio del potere di
revisione costituzionale”
7
. In altre parole la funzione dell’articolo 11
è quella di garantire la possibilità di una esecuzione dei trattati con
legge ordinaria, in quanto la necessaria procedura aggravata sarebbe
superflua in virtù del preventivo assenso che il Costituente ha
operato riguardo l’ingresso di norme di un ordinamento terzo.
Limitandoci per il momento a queste prime osservazioni vi è subito
7
Cfr. sent. n. 183/1973, punto 6 del cons. in dir.
11
da rilevare la contraddittorietà delle conclusioni cui giunge la Corte
sulla base del fatto che, se da un lato predilige una logica
assiologico-sostanziale (con il richiamo al valore della pace e
giustizia fra le nazioni), dall’altro ricade nel formalismo in quanto
ritiene sufficiente il procedimento ordinario per l’esecuzione dei
trattati in virtù di una norma costituzionale che “tacitamente” lo
ammetterebbe.
Inoltre un’interpretazione siffatta dell’articolo 11 peccherebbe
per eccesso e per difetto: per eccesso perché sarebbe veramente
forzato far rientrare tra le norme coperte dal valore della pace e
giustizia delle nazioni direttive o regolamenti che nulla hanno a che
vedere con tali valori (si pensi ai regolamenti riguardanti le pratiche
e i trattamenti enologici); per difetto laddove non comprende anche
trattati internazionali diversi da quelli comunitari (come ad esempio
la normativa internazionale sul disarmo nucleare).
I problemi maggiori, tuttavia, nascenti dalla sentenza n. 183
derivano principalmente dalla nota teoria c.d. dei controlimiti,
escogitata dalla Corte nell’intento di salvaguardare i principi
costituzionali.
12
3. I controlimiti
La teoria dei controlimiti prende le mosse da un postulato
tanto semplice quanto fondamentale: tutte le volte che una norma
comunitaria si pone in contrasto con un principio fondamentale o
con i diritti inalienabili della persona umana essa, per sistema,
recede sempre. In sostanza la norma comunitaria deroga a qualunque
norma interna, sia pure di rango costituzionale, purché non sia un
principio fondamentale
8
. Sembrerebbe che la logica privilegiata sia
quella sostanziale; tuttavia il ragionamento seguito non riesce a
sfuggire alle maglie di un rigido formalismo. Infatti, in caso di
contrasto tra una norma comunitaria e una norma interna servente un
principio fondamentale prevale sempre la norma interna. Traslando
il ragionamento sulle norme della Costituzione si concluderebbe che
l’articolo 11 si arresta laddove “impatti” con un principio
fondamentale. Con una conseguenza tutt’altro che trascurabile:
l’articolo 11 si attesterebbe, nell’ambito della gerarchia delle fonti,
su una posizione intermedia tra i principi fondamentali e le altre
norme costituzionali, nonostante la espressa qualificazione dei primi
dodici articoli della Costituzione come “Principi fondamentali”.
8
Cfr. S. BARTOLE, voce Principi generali del diritto (dir. cost.), in Enc. dir., XXXV (1986),
497. V. anche F. SORRENTINO, I principi generali dell’ordinamento giuridico
nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto, in Dir. e soc., 1987, 181 ss.
13
Occorre precisare che una logica inversa che, al contrario, desse
sempre prevalenza all’articolo 11 sarebbe parimenti illegittima in
quanto la norma comunitaria godrebbe della stessa forza passiva di
un principio fondamentale; in tal modo si avrebbe una fonte di
potere costituito (quale la norma comunitaria) avente la stessa forza
di una fonte di potere costituente.
In realtà, il vizio di fondo risiede nella considerazione che la
teoria dei controlimiti si muova su una logica sostanziale; se così
fosse, in caso di urto tra due principi fondamentali la tecnica da
utilizzare sarebbe quella del bilanciamento, ossia di un procedimento
basato sull’interpretazione dei principi contrastanti finalizzato al loro
contemperamento e, se del caso, anche al sacrificio di uno dei due.
Ma, beninteso, sulla base di un giudizio a posteriori e non
pregiudizialmente schierato a favore di questo o quel principio.
Bisogna, comunque, riferire che la Corte costituzionale non hai mai
fatto valere i controlimiti nonostante siamo passati più di trenta anni
dalla loro istituzione. È possibile che in quest’arco di tempo non si è
mai presentata una norma comunitaria in contrasto con un principio
fondamentale quale ad esempio il principio di uguaglianza?
Francamente sembra un po’ strano che in tutto questo tempo la Corte
non abbia mai invalidato un regolamento o una direttiva per
violazione di un principio fondamentale. Al punto che forse si deve
distinguere un piano giuridico dove risiede la teoria dei controlimiti
14
da un piano politico che vede dominante la causa di integrazione
europea, assolutamente inconciliabile con la Costituzione nazionale
della quale è “custode geloso”, all’interno dei confini dello Stato, la
Corte costituzionale.
4. Problematiche aperte dalla sentenza n. 183/1973
L’espediente utilizzato nella sentenza n. 183, come si è avuto
modo di vedere, doveva servire ad assicurare il rispetto del primato
del diritto comunitario sul diritto interno; solo attraverso una norma
costituzionale, infatti, si poteva impedire la violazione di norme
comunitarie da parte di norme nazionali, come espressamente
sancito nella sentenza n. 14/1964.
Con una conseguenza tutt’altro che trascurabile: una legge
italiana, di contrario avviso rispetto ad una norma comunitaria,
doveva essere necessariamente impugnata davanti alla Corte
costituzionale per rilevarne l’incostituzionalità sulla base del
parametro dell’art. 11 Cost. Una soluzione perfettamente
rispondente al dettato costituzionale, ma inadeguata se l’obiettivo
era quello di assicurare il primato del diritto comunitario sulla base
dell’orientamento espresso dalla Corte di Lussemburgo. La risposta
di quest’ultima non tardò a venire: con la sent. 9 marzo 1978, in
causa 106/77, Simmenthal, la Corte di Giustizia replicò alla Consulta
15
affermando l’inammissibilità di un sistema che vedeva il primato del
diritto comunitario subordinato alla pronuncia di una Corte
costituzionale. Effettivamente l’impressione è che l’impegno a
rispettare gli obblighi comunitari, se prima era rimesso alla volontà
del legislatore, dopo il 1973 era lasciato al prudente apprezzamento
della Corte costituzionale
9
. Non si dimentichi, inoltre, la natura
incidentale del giudizio costituzionale che presuppone un giudizio
pendente e un preventivo accertamento, da parte del giudice a quo,
circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione. In
sintesi, fondata era la preoccupazione della Corte di Giustizia circa
la mancanza di efficacia diretta degli atti comunitari; d’altra parte,
corretta era l’impostazione della Corte costituzionale riguardo la
necessità di una sua pronuncia se il parametro di riferimento era
l’art. 11 Cost.
9
L’effetto derivante da tale impostazione potrebbe essere l’estromissione dell’Italia dal
processo d’integrazione comunitaria, sia che si ritenga che la eventuale declaratoria di
incostituzionalità non potrebbe aggredire che l’ordine di esecuzione nel suo complesso,
riguardando lo stesso il Trattato complessivamente inteso e non le sue singole norme; sia che si
immagini una sentenza che censuri la legge di esecuzione del trattato “nella parte in cui”
consente l’ingresso di singole specifiche norme contrastanti coi principi supremi, secondo
l’ipotesi prospettata nella sentenza n. 232 del 1989. In tal caso, infatti, la gravità della pronuncia
avrebbe l’effetto politico, non meno importante quindi, di mettere in discussione la
partecipazione dell’Italia alla Comunità.