hanno già al loro interno una dose di conflittualità, si trovano a dover interagire
continuamente e questo crea tensione.
La tensione è dunque un aspetto ineliminabile e “normale” delle realtà relazionali
e quindi anche di quelle organizzative. Ma non è necessariamente un aspetto
negativo; infatti, secondo molte teorie organizzative (soprattutto secondo il “modello
a rete”, forma di autorganizzazione ad alto livello di indipendenza delle proprie
componenti), aziende che hanno al loro interno livelli adeguati di conflittualità
risultano essere maggiormente efficienti. La competitività e il desiderio di successo
sono elementi fortemente incoraggiati da molti moderni modelli manageriali. Inoltre, il
conflitto può costituire un efficace momento di messa in discussione degli assunti,
delle pratiche e dei valori ormai consolidati, i quali in caso di disfunzione possono
rivelarsi inadeguati a risolvere i problemi.
E’ per questo che una grande parte delle teorie del cambiamento organizzativo
(quelle che vengono definite “modelli bidimensionali”, come ad esempio l‘
“Organizational Development“, o la “socioanalisi” di Elliot Jacques) si rifanno ad una
gestione ottimale del conflitto come chiave per un funzionamento efficace ed
efficiente degli “ingranaggi” aziendali.
In particolare queste “tecnologie di intervento sul conflitto” pongono in primo
piano, oltre ad un miglioramento qualitativo della leadership, il miglioramento dei
rapporti interpersonali e lo sviluppo delle capacità individuali concentrando la propria
attenzione sul problema dell’integrazione fra individui e organizzazione, e
intervenendo, in sintesi, sulle risorse umane.
L’aspetto umano dell’azienda è stato preso in considerazione soltanto a partire
dalla metà del secolo scorso, quando alcuni studiosi del lavoro hanno capito
l’importanza della componente psicosociale dell’organizzazione. La prima esplicita
polemica contro il vigente orientamento organizzativo razionale la troviamo con la
“Scuola delle Relazioni Umane” di Elton Mayo la quale tentava di conciliare la “logica
dei sentimenti” con la “logica economica”. Vari studi si sono susseguiti poi in questo
senso ed hanno ampliato il concetto di “sentimento” introducendo nuovi elementi,
fino a giungere all’ “Approccio delle Risorse Umane”, detto anche “approccio
integrazione-motivazione”, sostenuto da autori quali Argyris, Likert e McGregor;
secondo questi studiosi, l’essere umano è una “risorsa” per l’azienda in quanto ogni
individuo porta nel suo mondo lavorativo le sue capacità, le sue competenze, le sue
potenzialità, e tutto un bagaglio di sentimenti e di emozioni, compreso un elemento
importante come la motivazione. Tutto questo rappresenta un tipo di energia,
un’energia vitale e importante per una buona attività del sistema. (Marocci, 1994)
Alcuni studiosi, durante il corso dell’ultimo decennio, hanno individuato una
tipologia di conflitto lavorativo “degenerato”, che danneggerebbe inevitabilmente il
sistema produttivo poiché mira all’esclusione degli individui dal mondo del lavoro. E’
questo il caso di ciò che viene definito “Mobbing”, ovvero “violenza psicologica sul
luogo di lavoro”.
Intorno al mobbing è stata costruita una teoria che, a partire dai Paesi
Scandinavi, si è diffusa nel resto d’Europa e poi nel Mondo; la diffusione della teoria
ha portato a veri e propri studi scientifici sul fenomeno, per valutarne l’incidenza, ma
anche per portarne a conoscenza le popolazioni, sensibilizzando gli organi
competenti sul problema.
Il fenomeno-mobbing è esploso nell’ultimo decennio (in Italia da molto meno) e
recenti ricerche hanno rilevato che le vittime di questo meccanismo sarebbero più di
12 milioni soltanto in Europa. Ma che cos’è il Mobbing? E cosa ha di diverso dal
“normale” conflitto lavorativo?
Per rispondere a queste domande abbiamo dedicato la prima parte di questo
lavoro ad una revisione di ciò che letteratura e media presentano riguardo al
fenomeno; alla fine di questa revisione sono sorti però dei dubbi riguardo alla teoria e
soprattutto riguardo alla sua “scientificità”. Le critiche portano a pensare che il
“mobbing” sia, piuttosto che costrutto scientifico, una “rappresentazione sociale”
che la cultura contribuisce a creare.
Per avvalorare questa ipotesi abbiamo proceduto, nella seconda parte del
lavoro, ad un’analisi narrativa, prendendo in considerazione le testimonianze di
mobbing che possiamo ritrovare in abbondanza all’interno dei testi relativi al
problema. E’ importante, al riguardo, premettere che in questa sede non intendiamo
mettere in discussione la veridicità delle storie analizzate, ma soltanto stabilire se
queste storie presentino tratti comuni capaci di ascriverle ad un nuovo “genere
letterario”, e se ne scaturiscano elementi-chiave attorno ai quali avverrebbe la
costruzione della rappresentazione sociale del mobbing.
PRIMA PARTE:
LA LETTERATURA
CAPITOLO 1.
LA TEORIA DEL MOBBING.
1.1. Definizioni di mobbing: dall’etologia alla psicologia
Il termine “mobbing” deriva dall’inglese “to mob”, che letteralmente significa
“assalire tumultuando, affollarsi attorno a qualcuno” (Nuovo dizionario Inglese-
Italiano, Italiano-Inglese Hazon Garzanti). E’ stato usato in origine nell’ambito
dell’etologia (la scienza che studia il comportamento degli animali) dove lo studioso
Konrad Lorenz lo utilizza per indicare il comportamento di alcuni uccelli (ad esempio i
gabbiani) i quali, per rispondere all’invasione del territorio da parte di un intruso, si
coalizzano e lo attaccano in gruppo respingendolo mediante l’emissione di gridi
particolari, la formazione in volo o l’accerchiamento a terra.
Il vocabolo descrive dunque una situazione di aggressione tesa
all’emarginazione e all’isolamento di un soggetto non desiderato. Applicato alla realtà
umana, il significato rimane sostanzialmente lo stesso anche se una sola parola
sintetizza un fenomeno dalle molteplici sfumature.
La parola “mobbing” è stata utilizzata per la prima volta per descrivere situazioni
di vita umana da uno studioso svedese, Heinemann, che nel 1972 lo introduce
nell’ambito di una ricerca sull’aggressività fra bambini, dandogli un significato
analogo a quello di “bullismo”: “comportamenti distruttivi messi in atto da piccoli
gruppi di bambini contro un altro bambino” (Heinemann, 1972). Successivamente il
termine viene preso in prestito da Heinz Leymann, psicologo svedese a cui fu
commissionata dal Ministero Nazionale per la Salute e la Sicurezza del lavoro una
ricerca da effettuare nei vari ambienti lavorativi, a causa dell’incremento massiccio
dell’assenteismo dovuto al disagio lavorativo (Leymann e Gustavvson, 1984). Con
questa ricerca Leymann riscontra che nelle attività professionali accadono fenomeni
analoghi a quelli di bullismo fra bambini, seppur con qualche differenza: infatti il
bullismo si manifesta per lo più con attacchi di violenza fisica, mentre sul lavoro le
aggressioni sono per lo più atte a indebolire e distruggere psicologicamente. A
seguito dei risultati della ricerca effettuata, esce la prima pubblicazione scientifica
con la quale si ufficializza l’uso del termine “mobbing” spostandone l’utilizzo dai
bambini al mondo del lavoro.
Nel 1986 Leymann pubblica “The mobbing encylopaedia”, diventando così il
pioniere di questo nuovo campo della psicologia del lavoro, e dando vita ad un filone
di ricerche e di letteratura sull’argomento, che ben presto si trasferisce dalla
Scandinavia al resto del mondo. Egli definisce così il mobbing:
“Il terrore psicologico o mobbing lavorativo consiste in una comunicazione ostile
e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui
generalmente contro un singolo che, a causa del mobbing, è spinto in una posizione
in cui è privo di appoggio e di difesa e lì costretto per mezzo di continue attività
mobbizzanti. Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta (definizione
statistica: almeno una alla settimana) e su un lungo periodo di tempo (definizione
statistica: una durata di almeno sei mesi).” (Leymann, 1990)
In questa definizione vengono messi in risalto i caratteri di frequenza e di
continuità nel tempo del fenomeno; in seguito Leymann chiarisce meglio le
dimensioni su cui il processo si sviluppa:
“In caso di conflitto, le azioni che hanno la funzione di manipolare la persona in
senso non amichevole si possono distinguere in tre gruppi di forme di
comportamento. Un gruppo di azioni verte sulla comunicazione con la persona
attaccata, tendendo a portarla all’assurdo o alla sua interruzione (con lui/lei si urla, si
rimprovera, si critica continuamente il suo lavoro o la vita privata, si compie
terrorismo telefonico, non gli si rivolge la parola, si rifiuta il contatto, si fa come se
non ci fosse, si mormora in sua presenza, ecc…). Un altro gruppo di comportamenti
punta sulla reputazione della persona, utilizzando strategie per distruggerla
(pettegolezzi, offese, ridicolizzazioni effettuate su handicap fisici, derisioni pubbliche
per esempio sulle opinioni personali o sulle idee, umiliazioni). Infine le azioni del
terzo gruppo tendono a manipolare la prestazione della persona, per esempio per
punirla (non gli viene dato alcun lavoro o gli vengono affidati compiti senza senso, o
umilianti, o molto pericolosi, ecc…). Alcuni di questi comportamenti si possono
trovare nella comunicazione umana quotidiana (come essere ignorato dagli altri) o
durante casuali litigi. Solo se queste azioni vengono compiute di proposito,
frequentemente e per molto tempo, si possono chiamare Mobbing” (Leymann, 1993)
Le dimensioni su cui secondo Leymann si svolgono gli attacchi sono dunque tre:
impedire la comunicazione, danneggiare la reputazione, boicottare le prestazioni.
Tutto ciò allo scopo di isolare ed escludere quel soggetto dall’ambiente; per ottenere
questo scopo, le aggressioni dovranno essere frequenti e durature, tanto da non
poter rientrare nel casuale conflitto quotidiano.
Il lavoro di Leymann in Svezia è un notevole punto di riferimento poiché è stato
uno dei primi a saper riconoscere nel mobbing un significativo elemento di stress
lavorativo, trasferendolo dalla sfera della disfunzione individuale alla sfera delle
disfunzioni psico-socio-economiche. (McCarthy, 1996)
La violenza psicologica sul luogo di lavoro diventa così un tema di interesse
scientifico e oggetto di ricerche empiriche, condotte a partire dalla metà degli anni
80, prevalentemente nell’Europa settentrionale, e il termine “mobbing” entra a far
parte del linguaggio di molti studiosi e lavoratori, anche se in altri paesi rimangono
ancora in auge termini come “bullying”, “harrassment” o “harcèlement” i quali
indicano a grandi linee lo stesso fenomeno , ma ciascuno ne rileva aspetti parziali e
diversi:
“bullying”: non necessariamente avviene al lavoro (anche a scuola o a casa);
non sempre è intenzionale (a volte è provocato da conflitti di personalità e da
emotività incontrollabile); può essere anche una violenza “materiale” (danni fisici,
aggressioni, vandalismo) (A. Casilli, 2000). Il termine viene usato prevalentemente
nei paesi anglosassoni dove, in campo lavorativo, come sinonimi di “mobbing”
possiamo trovare anche “bullying at work”, “work harrassment”, “psychological
terror”, “work abuse”, “victimization at work”;
“harrassment” (USA), “harcèlement” (Francia): è di solito un evento singolo (e
non un insieme di comportamenti); si connota come molestia sessuale o
discriminazione razziale (azioni punibili per legge); si concentra su un soggetto
debole o a rischio (A. Casilli, 2000).
Marie-France Hirigoyen, psicanalista francese esperta in vittimologia, è una delle
prime studiose nel suo paese a spostare l’attenzione della molestia in azienda
dall’aspetto sessuale (la molestia sessuale è l’unica a venire presa in considerazione
dalla legislazione francese) all’aspetto morale, psicologico. In particolare definisce la
“molestia morale sul luogo di lavoro” come “qualunque condotta impropria che si
manifesti, in particolare, attraverso comportamenti, parole, atti, gesti, scritti capaci di
arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica o psichica di una
persona, di metterne in pericolo l’impiego o degradare il clima lavorativo.” (Marie-
France Hirigoyen, 1998).
Anche negli altri paesi si sono sviluppati filoni di studi e casistiche relative alle
violenze psicologiche sul luogo di lavoro. Un’ importante ricerca compiuta
dall’Assessorato per le Pari Opportunità del Comune di Losanna (Svizzera), porta ad
una definizione in cui vengono sottolineati gli aspetti determinanti del fenomeno:
“Il mobbing è una situazione di comunicazione non etica caratterizzata dalla
ripetizione, nel lungo periodo, da parte di una o più persone, di comportamenti ostili
diretti sistematicamente contro un individuo che sviluppa, come reazione, gravi
problemi fisici o psicologici. Esso costituisce un processo di distruzione che può
comportare l’invalidità permanente, ovvero la morte della vittima.” (dalla Brochure su
Mobbing e Molestie, 2001). Da questa definizione risalta ancora l’aspetto di
comunicazione degenerata che si crea fra gli attori del mobbing; in aggiunta,
vengono prese in considerazione le conseguenze, anche gravi, che questo tipo di
“comportamenti ostili” possono avere sulla vittima, portandola in alcuni casi anche
alla morte.
Un altro pioniere del mobbing lavorativo è Harald Ege, dottore di ricerca in
psicologia del lavoro, il quale ha portato la sua esperienza di ricercatore dalla
Germania all’Italia, inserendosi in un contesto dove il fenomeno, fino a pochi anni fa,
non era ancora stato preso in considerazione da un punto di vista scientifico. Egli
definisce il mobbing come “una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro,
esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di
colleghi o superiori.” (Ege, 1996). Entrando nel dettaglio, e concentrando l’attenzione
sui protagonisti del processo, egli dice che:
“Il Mobbing si manifesta come un’azione (o una serie di azioni) che si ripete per
un lungo periodo di tempo, compiuta da uno o più mobber per danneggiare
qualcuno (che chiameremo mobbizzato), quasi sempre in modo sistematico e con
uno scopo preciso. Il mobbizzato viene letteralmente accerchiato e aggredito
intenzionalmente dai mobber che mettono in atto strategie comportamentali volte alla
sua distruzione psicologica, sociale e professionale.” (Ege, 1996).
Harald Ege è il fondatore di una delle due maggiori strutture che si occupano di
mobbing in Italia: l’associazione “PRIMA”, Associazione Italiana contro il Mobbing e
lo Stress Psicosociale, con sede a Bologna, la quale si dedica alla previsione delle
cause scatenanti del fenomeno e offre assistenza e sostegno sia medico che legale.
L’altra struttura italiana, pubblica, che si occupa di mobbing è il Cdl, Centro per
la prevenzione, la diagnosi, la cura e la riabilitazione del disadattamento lavorativo,
che si trova presso la Clinica del lavoro di Milano, il cui responsabile è Renato Gilioli,
neuropsichiatra che collabora con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, e autore di
numerose pubblicazioni scientifiche sul tema.
La letteratura italiana sull’argomento negli ultimi anni si è arricchita, grazie a un
crescente interesse verso il fenomeno e verso le conseguenze negative di esso non
solo per la persona ma anche per l’azienda; sono molti gli studiosi che hanno scritto
articoli, libri o che hanno partecipato a convegni in materia, e non solo in campo
psicologico, ma anche in ambito medico-legale, giuridrico e sociologico. Il mobbing è
analizzato anche da un punto di vista sistematico-organizzativo, da parte di autori
come Antonio Casilli che nel libro “Stop Mobbing” (2000) lo definisce come “un
sistema di organizzazione produttiva dell’attività umana, consistente in una
successione di episodi traumatici correlati l’uno con l’altro e aventi come scopo
l’indebolimento delle resistenze psicologiche e la manipolazione della volontà del
soggetto mobbizzato.”
Questa carrellata di definizioni è importante soprattutto per capire bene di cosa
si parla quando si parla di mobbing, e per distinguerlo da cosa non è. Il mobbing non
è un episodio di incomprensione, non è un alterco con un collega o una giornata
andata male; esso consiste in una serie di comportamenti deliberatamente ostili che
devono avere due caratteristiche fondamentali: una certa frequenza e una certa
durata (la cosiddetta “routine del conflitto“). Questi comportamenti vanno soprattutto
a ledere il normale sistema di comunicazione delle informazioni diminuendo le
prestazioni lavorative dell’individuo-vittima, e deteriorando la sua sfera psichica,
spesso con ripercussioni sia sulla salute fisica della persona, sia sull’andamento del
sistema in cui il fenomeno avviene.