CAPITOLO I
PENA E RIPARAZIONE
PAR. 1
STORIA DELLA PENA E NASCITA DELLA PRIGIONE :cenni
Prima del diciannovesimo secolo in quasi tutta Europa l'istruttoria
penale era un meccanismo che produceva"verità" in assenza
dell'accusato. Tutta la procedura, fino alla sentenza, rimaneva segreta
sia al pubblico che all'accusato stesso: il sapere era privilegio assoluto
dell'accusa: anche la confessione, seppur utile, non era indispensabile
. Il magistrato poteva accettare denunce anonime, utilizzare
insinuazioni, interrogare l'imputato in modo capzioso. Costruiva così
una verità ed i giudici la ricevevano compiuta.Solo a questo punto
terminava la segretezza ed il rito diveniva pubblico nella sua parte
più essenziale: il castigo. La pena era una sontuosa cerimonia
pubblica incentrata sul corpo del condannato sottoposto a quegli
“splendidi supplizi” cui tutti dovevano assistere. Il supplizio penale
era vissuto come rituale politico: il delitto, oltre che la vittima
immediata, attaccava soprattutto il sovrano e nel supplizio si
ricostituiva la sovranità per un istante ferita. Da qui deriva l'estremo
squilibrio, l'eccesso, il fasto nell'esecuzione della pena: il supplizio
non doveva assicurare la giustizia, ma ristabilire il potere. Dalla
7
seconda metà del secolo diciottesimo, inizia a diffondersi una protesta
contro i supplizi visti ormai come pratiche punitive eccessive. Nasce
una nuova "dolcezza" nel punire dovuta anche al cambiamento della
natura dei delitti che vengono commessi: con l'aumentare del
benessere c'è una diminuzione dei delitti di sangue e comunque delle
aggressioni, mentre si diffondono i delitti contro la proprietà. Si
verifica quindi un "addolcirsi dei crimini prima dell'addolcirsi delle
leggi".Da ora in poi le nuove pene andranno modulate relativamente
al crimine, ed in particolare alla sua possibile ripetizione "non mirare
all'offesa del passato, ma al disordine futuro".Si teorizza ampiamente
sui principi informatori della pena da comminare. Si riflette sulla
necessaria proporzione che deve riflettersi fra crimine commesso e
pena inflitta, sui reali destinatari degli effetti della pena, sulla
necessità di leggi chiare ed eque e sulla certezza della pena, sulla
scientificità delle regole cui affidarsi per la verifica del delitto. Affiora
la necessità di avere codici chiari e pene differenziate a seconda del
destinatario.Il passaggio è radicale. Non più pene clamorose ma
inutili, piuttosto pene dolci, che rappresentino una retribuzione data
dal colpevole alla società che egli ha offeso. Il castigo ha perso quel
carattere di festa sontuosa e terribile ed è diventato una scuola. Dagli
inizi del 1800 la punizione perde ogni dimensione spettacolare anzi
deve avvenire nel segreto; pubblico sarà il processo giudiziario che
porta alla sentenza. Si è invertita l'alternanza di segretezza
(processo)-pubblicità (supplizio-pena) propria del periodo storico
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precedenteLa prigione è prevista tra le altre pene, ma molto criticata,
perché inutile alla società, anzi nociva: è costosa, mantiene i
condannati nell'ozio, moltiplica i loro vizi ed è inoltre sprovvista di
effetti diretti sul pubblico.Ecco invece che nel giro di pochi decenni la
detenzione diventa la forma principale di castigo. Ogni infrazione
importante, quando non merita la morte, viene punita con la
detenzione: come "un medico che per tutte le malattie usa lo stesso
rimedio".Già all'inizio del diciannovesimo secolo si possono osservare
alcuni grandi modelli consolidati di carcerazione punitiva. Il più
antico, forse l'ispiratore di tutti gli altri, è il Rasphuis di Amsterdam,
fondato nel 1596 dove il lavoro è parte fondante della pena ed
obbligatorio, nonché retribuito. Il modello inglese di prigione
aggiunge a tutto ciò l'isolamento per evitare promiscuità, cattivi
esempi, possibilità di evasione, ricatti e complicità per l'avvenire.
Infine secondo il modello di Philadephia gli individui vengono
suddivisi in più sezioni, non tanto in base ai crimini commessi,
quanto alle loro predisposizioni verso il crimine. I detenuti che pur
lavorano e guadagnano, vengono qui osservati in maniera
costante.Tutti questi modelli convergono in un unico comune
denominatore: "la prevenzione dei delitti è il solo fine del castigo";non
si punisce per cancellare un delitto, ma per trasformare un
colpevole.La prigione si muove ormai verso la formazione d'individui
docili e ben ammaestrati, usando tecniche del tutto simili a quelle
usate nell'esercito, negli istituti religiosi, nelle scuole, nelle fabbriche,
9
negli ospedali. Ma la prigione in qualche modo si ritorce contro la
società: essa produce criminalità, non la elimina, aumenta la recidiva,
crea un'organizzazione di delinquenti solidali gli uni con gli altri,
gerarchizzati, pronti per future complicità.Mentre fallisce nel ridurre
il crimine, riesce bene a produrre una delinquenza di tipo specifico,
controllata dal centro,addirittura dal potere.Avendo ben accettato il
potere di punire gli uomini comprendono o perlomeno tollerano di
essere puniti, come in una forma di contratto. Abituati inoltre alla
disciplina ed al controllo nella scuola, nella caserma, nella
fabbrica,nell'ospedale, gli individui si assoggettano bene anche al
progressivo abbassamento del livello a partire dal quale diviene
naturale ed accettabile essere puniti.Da qui l'estrema solidità
dell'istituzione della prigione pur screditata fin dalla sua nascita. Si
vedono bene gli inconvenienti della prigione e come essa sia
pericolosa quando non è inutile; tuttavia non vediamo con quale altra
cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe
fare a meno. A più di duecento anni di storia dalla sua nascita la
prigione rappresenta ancora il principale metodo punitivo utilizzato
nel nostro paese, come anche nella maggior parte dei paesi esteri.
10
PAR. 2
IL CARCERE COME PARADIGMA DEL MODELLO DI SVILUPPO
OCCIDENTALE
Nella società feudale il carcere inteso come pena, nella forma della
privazione della libertà, non esiste.Il carcere medievale, punitivo e
privatistico si fonda sulla categoria etico-giuridica del "taglione", a
cui si associa il concetto di “espiatio”, forma di vendetta basata sul
criterio di pareggiare i danni derivati dal "reato".La prigione, o
meglio la detenzione, era solo un passaggio temporaneo nell’attesa
dell’applicazione della pena reale, cioè la privazione nei riguardi del
“colpevole” di quei beni riconosciuti universalmente come valori
sociali: la vita, l’integrità fisica, il denaro.La crudeltà e la
spettacolarità assolvevano la funzione di deterrente nei confronti di
coloro che intendevano trasgredire le regole imposte dal "signore". Si
vedano in proposito i roghi dell’inquisizione della “santa romana
chiesa”.In alcuni casi la pena veniva sanzionata secondo criteri più
“umani”, in uso anche presso altre civiltà, soprattutto di origine
tribale: l’allontanamento dalla comunità (temporaneo o definitivo) o
il concetto di “compensazione” (il colpevole veniva costretto a
compensare in qualche modo, ad esempio attraverso un lavoro di
“utilità sociale”, il danno recato alla comunità o a individui).La
"privazione della libertà" come sanzione penale si affermerà solo
quando tutte le forme della ricchezza verranno ridotte alla forma più
11
semplice ed astratta: il lavoro umano misurato nel tempo.Ciò accadde
con la rivoluzione francese,quando si ebbe l’avvento del dominio
della borghesia e del capitalismo diffuso. Dunque fù necessario che si
affermasse il lavoro salariato e che il valore di scambio diventasse un
valore dominante.Fù altresì necessario che si compisse il processo che
porterà la borghesia (mercantile prima e poi capitalistica) al ruolo di
classe dominante e, dall’altra parte, che crescesse a dismisura quel
fenomeno di masse di vagabondi, mendicanti e sradicati dalle
campagne, nei confronti dei quali la borghesia, arrogante e
spregiudicata, si porrà il problema del controllo sociale e
dell’imposizione dell’ideologia del lavoro coatto con i mezzi più
terribili conosciuti dall’umanità.Vale la pena ricordare che fabbriche,
banche, carceri ed orologi, nonché ospedali e manicomi, si
sviluppano nella loro concezione “moderna” e si diffondono tutte
nello stesso periodo storico, fra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800,
ovvero con l’avvento della rivoluzione industriale e, di conseguenza,
col passaggio dalla società feudale alla società
disciplinare.Oggigiorno, con l’avvento della rivoluzione tecnologica,
assistiamo ad un ulteriore passaggio del modello societario umano,
dalla società disciplinare alla società di controllo, il cosiddetto
“carcere immateriale”, ovvero carcere globale. In questo nuovo tipo
di società, caratterizzata dalla perdita di ogni diritto acquisito, forte
pressione migratoria, squilibrio sempre maggiore nella distribuzione
delle ricchezze, e soprattutto nuova concezione del lavoro, basata su
12
flessibilità e precarietà, emerge un potenziamento senza precedenti
delle strutture segregative, carceri, comunità, ospedali e cliniche
psichiatriche (manicomi), affiancate a nuovi strumenti di controllo
(strutture e “servizi” socio-assistenziali, videosorveglianza,
tecnosorveglianza, farmacosorveglianza).L’avvio del processo di
accumulazione capitalistica porta alla dissoluzione della società
rurale ed alla nascita del futuro proletariato industriale.Il processo
che porterà al dominio borghese ed alla società industriale, inizia
però almeno due secoli prima, con il lento ma progressivo
sradicamento della cultura popolare, con l’apparizione dei primi
luoghi di concentramento di lavoro forzato (fabbriche, officine,
miniere), e con il progressivo mutamento degli assetti e dei rapporti
sociali, dovuto alla crescente poderosa pressione della borghesia su
un’aristocrazia indebolita ed in declino e su un proletariato povero,
incolto, confuso e disorientato.Già nella sua prima fase questo
passaggio costringe i più, per sopravvivere, a trasformarsi in barboni,
mendicanti, vagabondi, briganti. Una massa di non occupati (quello
che Marx più tardi chiamerà "l’esercito industriale di riserva") che
vive di espedienti e contro di cui, sin dal secolo XVI e XVII, si
svilupperà, in tutta Europa, una legislazione sociale fortemente
repressiva, caratterizzata da durissime pene corporali: un vero e
proprio sterminio della massa dei disoccupati per attenuare la
pressione sociale che essi esercitavano.Al contempo si assiste ad un
progressivo e sostanziale cambiamento del concetto di pena e si
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forma il nucleo dell’ideologia penale pre-illuminista. A poco a poco
in Inghilterra i ladri e le prostitute, insieme ai vagabondi, ai poveri e
ai ragazzi abbandonati anziché essere sottoposti alle comuni sanzioni
dell’epoca vengono raccolti nel palazzo di Bridewell (concesso dal
sovrano) e obbligati a "riformarsi" attraverso il lavoro e la disciplina.
Nasceva così nel 1557 la prima house of correction o workhouse
(concetti e pratiche tornati prepotentemente alla ribalta oggigiorno),
caratterizzata dall’organizzazione rigida del tempo strutturato in
gesti sempre uguali e ripetitivi.A tal scopo vennero approvati
(dapprima in Inghilterra e successivamente in tutta Europa) una serie
di istituti, come quello del 1601 che riduceva il rifiuto del lavoro ad
atto criminale, ed altri con i quali veniva stabilita l’obbligatorietà del
lavoratore ad accettare la prima offerta di lavoro che gli venisse
rivolta e contemporaneamente gli veniva vietato di contrattare col
proprio padrone.E’ il periodo delle house of correction in Inghilterra,
delle rasp-huis nei Paesi Bassi e dell’ hòpital in Francia.Questa
situazione europea dura fino alla chiave di volta rappresentata dalla
rivoluzione francese.Successivamente, le nuove teorie rivoluzionarie
borghesi, politiche e sociali, favoriscono l’affermarsi di una nuova
struttura giuridico-normativa (in Francia il codice rivoluzionario del
1791 e in Germania il codice bavarese del 1813) che stabilisce
un’equivalenza tra delitto e pena cercando di sottrarre quest’ultima
all’arbitrio.In questo clima vengono accolte con favore le teorie di
alcuni "riformatori" inglesi tra cui spicca Jeremy Bentham, che
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assegna al carcere, prioritariamente, un carattere intimidatorio e di
totale controllo al fine di realizzare il ruolo produttivo e
risocializzante. E’ il progetto Panopticon basato sul “principio
ispettivo” che i pochi (carcerieri) possano controllare i molti
(detenuti), e il controllo possa essere esercitato su tutti gli atti del
carcerato nell’arco delle 24 ore giornaliere.Nasce così la nuova
struttura architettonica del carcere moderno (carcere Benthaniano),
fatta di “bracci” (o “raggi”) e rotonde, costruito cioè in modo che i
carcerieri stando fermi nel posto di guardia posto sulla rotonda
possano avere la visuale piena su un intero braccio di celle, o su più
bracci (struttura a raggiera). Al contempo ogni detenuto sa che ogni
suo movimento è controllato “a vista” con estrema facilità.E’ il
risvolto carcerario della pretesa della ricca borghesia in ascesa di
riuscire a controllare totalmente le classi subordinate.Sul piano
pratico vengono introdotte, dapprima in Inghilterra (legge del 1810
e il Goal Act del 1823) e poi in tutta Europa, alcune innovazioni:
separazione tra i sessi, isolamento notturno e lavoro diurno in
comune. Le condizioni di vita nelle carceri peggiorano, così come
peggiorano le modalità di vita e lavoro per i poveri nelle
workhouses.Per quanto riguarda l'Italia,nella seconda metà del XVII
secolo si realizza una delle prime esperienze carcerarie moderne: a
Firenze all’interno dell’Ospizio del S. Filippo Neri per giovani
abbandonati viene istituita una sezione destinata fondamentalmente a
giovani di buona famiglia con problemi di disadattamento. E’ il primo
15
caso di isolamento cellulare a scopo correzionale: la sezione era
infatti composta da otto cellette singole in cui i giovani erano
rinchiusi in isolamento giorno e notte.A Milano alla fine del XVII
secolo vengono realizzati una "Casa di Correzione" e un "Ergastolo".A
Napoli è in funzione la Vicaria: vi sono rinchiusi un migliaio di
prigionieri in condizioni terribili, molto al di sotto dei livelli di
sopravvivenza. Altrettanto aberranti sono le condizioni della Casa dei
poveri, il cosiddetto "Serraglio". A Roma nel 1770 viene realizzato il
carcere cellulare del San Michele (prigione vaticana).Nel 1811 in
tutti i paesi italiani sottomessi alla dominazione napoleonica, viene
introdotto il codice penale francese del 1810 il cui nucleo
fondamentale è rappresentato dalla difesa della proprietà privata e
dell’autorità dello Stato. Si diffondono anche nel nostro paese i
principi della pena detentiva e del lavoro forzato.Nel 1839 vengono
approvati, in vari Stati italiani, nuovi codici penali e riforme
dell’istituzione carceraria maggiormente rispondenti al momento
storico di un paese che si avvia all’unificazione, ad una presenza
considerevole di proletariato e sottoproletariato la cui potenzialità di
ribellione alle regole della borghesia capitalistica spinge il potere
statuale a realizzare una gestione del carcere di tipo terroristico-
ideologico come strumento per il controllo sociale.Nel 1889 viene
emanato il codice penale Zanardelli, entrato in vigore nel ’90, che
sostituisce il codice sardo del 1859: viene abolita la pena di morte
(sostituita con l’ergastolo) ma restano severissime le pene per i reati
16
contro la proprietà. Nel 1891 viene approvato il nuovo regolamento
generale per gli istituti carcerari.Si vanno diffondendo frattanto una
serie di concezioni portate avanti da alcuni intellettuali (Lombroso,
Ferri, Garofalo, ecc.) che considerano il reato come "fatto umano
individuale" causalmente determinato. La misura della pena risponde
quindi al principio della "pericolosità sociale", non più alla gravità
del reato; ma i vari governi che si succedono si oppongono a questo
concetto e si attestano su una linea conservatrice.Le forti
mobilitazioni sociali successive alla prima guerra mondiale che oltre
alla classe operaia urbana coinvolsero anche le campagne e il
proletariato contadino, creò un forte stato di allarme tra le classi
dominanti. Queste, agitando lo spettro della rivoluzione bolscevica
attraverso i media del tempo con toni fortemente demagogici,
riuscirono a mobilitare i settori della piccola borghesia (rovinata
dalla guerra) che vedeva i suoi privilegi residui minacciati dalle
richieste popolari. Così si spianò la strada al fascismo.La repressione
per il fascismo era un’esigenza di politica economico-sociale (come
del resto lo è per i governi odierni).L’azione di intimidazione e di
repressione nei confronti del proletariato urbano e rurale superò di
gran lunga ciò che era consentito dalla pur durissima “repressione
legale” dei paesi a regime formalmente democratico.Gli accordi del
fascismo con la Chiesa cattolica (Patti Lateranensi dell’11 febbraio
1929) rivestirono la pena di caratteristiche moralizzatrici come era
secoli addietro, considerando il reo come “peccatore che deve
17
compiere un percorso di espiazione e rimorso”. Nel 1926 viene
approvata la nuova legge di Pubblica Sicurezza (si introduce il
confino di polizia). Nel 1930 è approvato il codice Rocco. Nel 1931 è
approvato il Regolamento carcerario che rimarrà in vigore fino alla
riforma del 1975. Nel 1934 vengono approvate altre leggi (n.1404 e
n.1579) che regolamentano il funzionamento del Tribunale dei
minorenni e delle Case di rieducazione per minorenni e che
istituiscono i Centri di Osservazione, con lo scopo di “fare l’esame
scientifico del minorenne, stabilirne la vera personalità, e segnalare i
mezzi più idonei per assicurare il recupero alla vita sociale”.Nel
1930 venne anche approvato il codice di procedura penale dove, nel
famigerato art.16, si garantiva l’impunità agli agenti di pubblica
sicurezza “per fatti compiuti in servizio e relativo all’uso delle armi o
di altro mezzo di coazione fisica”. Una licenza di uccidere che
ricomparirà, con l’accordo di quasi tutte le forze politiche negli anni
’70 .Un altro elemento caratteristico dell’ideologia che ispirò il codice
Rocco è quello che pone a carico dell’accusato l’onere di dimostrare
la propria innocenza e non all’accusatore dar prova dell’accusa,
stravolgendo anche le basi del diritto romano: alla faccia di tutti gli
stupidi simboli e riti che tentavano di stabilire un legame proprio con
la romanità.Il Regolamento carcerario del 1931 si fonda
sostanzialmente su questo assunto:Lo Stato incarna il bene comune, lo
Stato è al centro della vita del cittadino, il delinquente è un nemico
del popolo, quindi dello Stato, poiché offende la dignità dello Stato e
18
si contrappone ai sentimenti popolari e alle pubbliche virtù. La pena
dunque deve avere una funzione afflittivo-punitiva e deve essere
esemplare. Il carcere di conseguenza sarà inflessibile e distruttivo nei
confronti degli "incorreggibili", flessibile e attenuato per gli altri :
"Occorre stabilire norme di vita carceraria che siano bensì idonee ad
emendare il condannato, ma non tolgano alla pena il carattere
afflittivo ed intimidativo ... E perché la pratica resti ferma ed
ossequiente al pensiero del legislatore, ho riconosciuto la necessità
non solo di dettare i precetti positivi, ma di formulare altresì una
disposizione, che implica il divieto di ogni giuoco, festa o altra forma
di divertimento che a quell’austerità [del carcere] possa recare
offesa..." (Relazione di presentazione al nuovo regolamento per gli
Istituti di Prevenzione e Pena).Lo stesso Mussolini intervenendo nel
dibattito parlamentare sulla presentazione del nuovo Regolamento
penitenziario ci tenne a dire la sua mettendo in guardia coloro che
studiano le carceri dal “vedere questa umanità sotto un aspetto forse
eccessivamente simpatico ... Credo che sia prematuro abolire la
parola pena e credo che non sia nelle intenzioni di alcuno convertire
le carceri in collegi ricreativi piacevoli, dove non sarebbe tanto
ingrato il soggiorno”. E’ questa l’essenza dell’ideologia fascista della
punizione espressa dal duce del fascismo che però oggi ritroviamo
tranquillamente espressa, e senza vergogna, dalla gran parte delle
forze politiche che si autodefiniscono, bontà loro, democratiche.
Negli anni successivi al secondo dopoguerra rimase in vigore il
19
regolamento penitenziario fascista del 1931, fino alla riforma del
1975.Nel capitolo successivo approfondirò le riforme che via via si
sono venute succedendo,con particolare attenzione alla attuale realtà
carceraria,per ora,basti questo accenno.
PAR. 3
LA PENA:una definizione
Nella tradizione manualistica recente o meno è largamente diffusa la
definizione di pena come "conseguenza giuridica di un reato, cioè la
sanzione predisposta per la violazione di un precetto penale"
1
.Evidentemente si tratta di una definizione di carattere formale che
lascia impregiudicati i problemi più radicali che vengono dibattuti
intorno alla pena stessa ,quali la giustificazione , la struttura
,l'oggetto.Discostandoci dal carattere formale di tale definizione e
volgendo lo sguardo a quella che ne è la portata sostanziale ci
troviamo di fronte tuttavia ,ad una serie di presupposizioni
generalmente assunte dai giuristi operatori ,dalle quali muove la
definizione stessa ;ci si riferisce a tutta la realtà giuridica che si cela
dietro la comminazione di una sanzione ovvero,la presenza di un
ordinamento giuridico positivo ,la sussistenza ,all'interno dello stesso
di un complesso di norme distinte dalle altre e qualificabili come
1
Bettiol,Diritto penale,Padova 1976,p.684
20
precetti penali e la conseguente possibilità di identificare certe
condotte soggettive come meritevoli di una specifica sanzione
2
.Guardata in questa prospettiva la definizione prima menzionata e la
pena rileva in senso lato come ogni provvedimento minacciato o
inflitto ,per il caso di violazione del praeceptum iuris contemplato
dalla norma penale, giustificato dalla necessità di indurre alla
obbedienza di determinati precetti con la più energica sanzione di
giustizia, coloro sui quali impera la legge dello stato
3.
.Avanzare oggi
una definizione di pena è impresa ardua ,come già avvertiva Nietzche
:"Il concetto di pena non presenta più in realtà ,in uno stato molto
tardo della civiltà un unico significato ,bensì un intera sintesi di
significati;la precedente storia della pena in generale ,la storia della
sua utilizzazione ai fini più diversi , finisce per cristallizzarsi in una
sorta di unità ,che è difficile a risolversi,difficile ad analizzarsi ,e
,occorre sottolinearlo ,del tutto impossibile a definirsi "
4
.La visione
del filosofo tedesco è acuta nel cogliere la complessità attuale del
concetto ,non riconducibile ad una unica dimensione teorica .Solo
l'indagine storica ed in modo particolare quella storico-giuridica
,puo' dar atto ,grazie alla "comparazione diacronica"
5
dei moltepici
2
Cavalla,La pena come problema,Padova,1979
3
Manzini V.,Trattato vol.I n°43,vol II n°549 Considera solo il momento della esecuzione la
definizione di Vidal et Mignol(COURS DE DROIT CRIMINEL)"la pena è un male inflitto ,in nome
della società ed in esecuzione di una condanna giudiziaria,all'autore di un delitto ,perchè è
colpevole e socialmente responsabile di questo delitto.
4
F.Nietzsche,Genealogia della morale(1887),vol.VI,tom.II,trad. it.,Milano 1968 ,279.
5
A.Guarino,La rimozione del diritto e l'esperienza romana,in Labeo 42,1996,7-34.
21
significati combinatisi nel corso del tempo,contribuendo a far
comprendere la pena come "istituzione sociale"
6
.Dal punto di vista
del diritto la pena è la conseguenza giuridica di un reato ,cioè la
sanzione predisposta per la violazione di un precetto penale
7
. Come
tutte le definizioni , anche questa ,per essere inclusiva delle
molteplici sfaccettature conseguite nel corso della storia ,è molto
ampia ma dice poco sulla natura e le funzioni sociali della
pena.Sarebbe necessaria ,infatti una storicizzazione del concetto
,come intuiva Nuvolone
8
.Affrontare l'intero fenomeno "pena"
concentrandosi esclusivamente sulla riforma istituzionale del sistema
penale in vigore o su una rinnovata efficienza ,tra l'altro sempre
auspicabile del sistema penitenziario,significa dare risposte parziali
,di mera"ingegneria istituzionale "
9
e di "penologia tecnocratica"
10
.Il
problema della pena necessita di una riflessione più ampia ,che tenga
conto della sfasatura esistente tra la riflessione teorica e la prassi
.Bisogna essere coscienti del significato politico-simbolico della pena
,che la rende una istituzione
11
collegata ai fattori sociali politici e
6
Sul significato ampio che il concetto di "istituzione"assume nell'indagine storico-giuridica,vedi
R.Orestano,Ventotto pagine necessarie (1951)in "diritto incontri e scontri,Bologna 1981,122-126
7
Fra i tanti,v.G.Bettiol-L.Pettoello Mantovani,Diritto penale,padova 1986,779 s.
8
IL penalista italiano ,in uno dei suoi ultimi lavori interamente dedicato alla pena,così
scriveva:"bisogna distinguere la pena come categoria logica dalla pena come categoria
storica:chiaramente è da questo secondo angolo visuale che va studiata la pena nel diritto vigente"
(P.Nuvolone ,Pena(dir.pen.)in EdD 32,1982,790)
9
E.Santoro,Carcere e società liberale,100
10
M.Pavarini,Lo scopo della pena,340-341
11
Come afferma D.Garland,Pena e società moderna,59:"la pena è una precisa successione legale
di eventi ,ma la sua esistenza e il suo campo di intervento dipendono da un più vasto contesto di
forze e di circostanze sociali",per comprenderne il senso complessivo -prosegue Garland-"abbiamo
22
culturali di una determinata organizzazione sociale
12
. Nell'approccio
polidimensionale al significato del punire ,accanto agli indispensabili
contributi nell'analisi filosofica e sociologica ,un apporto puo' venire
anche dalla ricerca storico-giuridica .La consapevolezza dello storico
di avere sempre a che fare con realtà complesse e di compiere per
mezzo delle proprie indagini una relativizzazione dell’oggetto
studiato concorre a ritenere la pena non un mezzo tecnico-legale-
amministrativo, finalizzata al solo trattamento dei criminali ,quanto
piuttosto il prodotto complesso di una koinè
13
che risente delle
"incertezze e contraddizioni della nostra società"
14
.Sul piano storico
infatti la pena è stata lo strumento con cui ogni società organizzata
ha cercato di contenere il costante fenomeno della criminalità,ed in
questo,costituisce lo specchio fedele dei progressi e regressi
dell'umanità.Nel mondo primitivo la pena consisteva nell'isolamento
del colpevole dal proprio gruppo sociale e riguardava i casi di offese
arrecate al gruppo stesso.Questo allontanamento poteva consistere o
nella soppressione fisica del soggetto o nella sua espulsione,per
proposto di utilizzare il concetto di istituzione sociale.La penalità infatti ,non deve essere intesa
come un particolare tipo di evento o di relazione,ma come un'istituzione sociale che,per definizione
sottintende la complessità di struttura e di significato"
12
Al riguardo resta ancora valida la lezione di Durkheim E. sulla funzione della pena come collante
sociale(E. Durkheim,la divisione del lavoro sociale 1983 trad.it.,Milano 1996,126);a cui si ispira R.
Girard, IL capro espiatorio(1982),trad .it.Milano 1987.
13
Per D.Garland ,Pena e società moderna,332,la pena sarebbe:"espressione del potere esercitato
dallo Stato ,un'affermazione di moralità collettiva ,un veicolo per rivelare le emozioni ,una politica
sociale condizionita dalla sfera economica ,un'incarnazione delle sensibilità condivise e un insieme
di simboli che mostrano un ethos culturale e contribuiscono a creare un'identità sociale".
14
Era la conclusione a cui giungeva un attento studioso italiano della pena:P.Nuvolone,Pena(dir.
pen.),cit.817.
23
esempio nell'esilio,che comportava comunque,la" morte civile" del
soggetto,quale la perdita della cittadinanza e di ogni
diritto.Nell'evoluzione delle varie civiltà,la pena si è andata
caratterizzando come limitazione o privazione di singoli beni
individuali,che possono essere la vita(pena capitale),l'integrità
personale(pena corporale:mutilazione), la libertà(pena
detentiva),l'onore(pene infamanti : gogna , pubblicazione della
sentenza di condanna)o il patrimonio(pene pecuniarie: multa ,
ammenda).La pena è stata strumento variamente utilizzato a seconda
dei tempi, dei regimi,dei tipi di società,ma sembra che le sue origini
debbano essere ricondotte alla necessità di superare la vendetta
privata per raggiungere un'idea di giustizia e di difesa sociale.L'idea
di pena appare storiamente ineliminabile,in quanto legata alle
fondamentali categorie umane del bene e del male,del merito e del
castigo:espressione stessa dell'insopprimibile senso di "giustizia ".Sul
fronte opposto si collocano coloro che,in una visione più o meno
consapevolmente utopistica,dedita a vagheggiare di una società
interamente pacificata nella quale non albergherebbe più violenza
alcuna,ne reato,vedono nella pena soltanto il frutto di una assurda
pretesa ,da parte dell'uomo,di esercitare un ministero che spetta a Dio
solo
15
.Sotto l'etichetta comunemente denominata dell'abolizionismo
penale,si raccoglievano,intorno agli anni' 70 studiosi e giuristi che
15
S.Cotta,Innocenza e diritto .Note sulla ambivalenza della pena,in:Il mito della pena ,"Archivio di
filosofia"p.46
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sostanziavano le loro opinioni circa la ingiustificabilità e dunque la
mancanza di valore del fenomeno pena in due argomenti:
1) la pena è certamente inefficace in quanto nei secoli,la sua
presenza non ha tolto né contenuto la criminalità;
2)la pena è sempre ingiusta in quanto la sua applicazione esige
comunque la presenza di una forza coercitiva superiore alla forza di
resistenza del reo,cossicchè la pena dipenderebbe,come da una
"conditio sine qua non",da un fenomeno che non ha niente a che fare
con la natura dei valori; Sul presupposto che sia possibile una società
senza conflitti e perciò senza delitti,ogni uomo sarebbe in grado di
conoscere la verità e procurarsi il bene di cui ha bisogno
cosicché,esso è in questo senso,di principio,libero.L'idea di una
società interamente pacificata però,presuppone che taluno conosca e
sappia soddisfare i bisogni di tutti;ciò significherebbe arrogare
all'uomo il possesso di principi da cui dedurre nozioni e prescrizioni
universalmente valide. Tutto ciò è però indimostrabile,in quanto la
pretesa del possesso della verità si risolve comunque nella pretesa ad
imporre una particolare verità sino a sopprimere chi ne domandi
un'altra più fondata.
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Quando si rinuncia all'utopia di una società
interamente pacificata,si deve rinunciare anche all'idea,che
costituisce la premessa di ogni tesi abolizioni stica,per cui ciascuna
volontà individuale è insindacabile.Questa idea è
contraddittoria;infatti,l'indifferenziata legitti mazione di tutti i
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E. Opocher,La società criticata ,p.333ss,"la pretesa indebita alla società dei perfetti.
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