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PREMESSA
Studiate tra le fila di romanzieri e teorici dell’Ottocento, nel tentativo di dar forma
a una teoria unitaria che riuscisse a conciliare le diverse possibili interpretazioni del
concetto, le questioni sul point of view assumono in breve tempo un posto di rilievo
all’interno dei dibattiti narratologici dell’epoca, fino a espandere i propri confini oltre
il romanzo, raggiungendo, a tempo debito, anche il cinema. Dovendosi adattare alle
caratteristiche di un medium rappresentazionale, dove ciò a cui lo spettatore assiste
dipende necessariamente dalla presenza di un narratore impersonale, il punto di vista dal
quale la storia viene mostrata non solo assume una rilevanza di tipo narrativo, come
nel caso del romanzo, ma anche, appunto, di rappresentazione. L’appartenenza dello
sguardo a un personaggio intradiegetico o alla stessa istanza narrante determina,
infatti, la scelta delle inquadrature e della loro articolazione. Gli studi narratologici in
ambito cinematografico mostrano la validità di alcune tra le proposte teoriche derivate
dalle considerazioni sulla letteratura e, presto, vengono individuate le strutture
fondamentali utili a determinare la soggettività nel film. Tali conclusioni, però,
sembrano limitarsi al solo cinema “dal vero”, senza interessarsi agli eventuali riscontri
possibili nel cinema d’animazione. Il percorso che andremo a svolgere in questa
dissertazione tenterà di determinare l’efficacia delle teorie del punto di vista applicate
al cinema d’animazione Disney, facendo riferimento in particolare ai film prodotti dai
Walt Disney Animation Studios.
Si è preferito partire dalle origini del problema, analizzando il pensiero di Henry
James, lo scrittore statunitense che per primo ha utilizzato e si è interrogato sul
termine “point of view”, studiandone i pregi e le criticità attraverso i suoi stessi
romanzi. Verranno quindi presentate le idee sviluppate dai teorici della prima e
seconda generazione, in particolare le divulgazioni di Lubbock e Friedman, i quali
hanno tentato, ognuno con le proprie variazioni e aggiunte, di fondare una vera e
propria teoria del punto di vista, fornendo delle metodologie di analisi applicabili ai
testi letterali. Ci siamo voluti soffermare sui quattro principali autori che hanno
contribuito, con le loro ipotesi e le loro intuizioni, a dar vita a teorie tutt’oggi
applicabili alla letteratura e che si estendono, in parte, anche al mondo
cinematografico. Stanzel si è cimentato nello studio del rapporto che intercorre tra il
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narratore e il modo in cui racconta la storia di cui si fa portavoce, individuando le tre
Erzählsituationen in cui la narrativa può essere classificata. Il suo cerchio tipologico
permette ancora oggi di comprendere l’evoluzione diacronica del romanzo e degli stili
che si sono susseguiti nel tempo. Importanti sono anche i contributi sulla tecnica
camera eye, che ricorda un metodo di ripresa cinematografica in cui il narratore diventa
un ricettore passivo degli eventi, e sul concetto di perspectivism, con il quale Stanzel
riconosce l’importanza della mediazione di un personaggio per orientare il lettore
all’interno dello spazio diegetico. Il neologismo “focalizzazione”, ideato da Genette
per ovviare alla molteplicità di significati insiti nei termini “point of view”, indica il
rapporto che intercorre tra il narratore e la sua conoscenza dell’universo della storia.
Genette parla di focalizzazione in termini quantitativi, definendo le tre tipologie –
interna, esterna e zero – in base alla quantità di informazioni che il narratore conosce
sulla storia narrata. Le sue categorie sono applicabili anche a livello cinematografico e
tutt’oggi utilizzate, seppur con alcune variazioni. A Chatman si deve l’introduzione
dei termini slant e filter, utilizzati per designare e separare i punti di vista del narratore,
il primo, e dei personaggi, il secondo. Punti di vista che possono rivelarsi diversi, o
addirittura completamente opposti. Chatman parla anche di centro d’interesse o
interest focus, molto importante nel campo cinematografico. Vedremo come possano
esistere, sia nella letteratura ma anche nel cinema, narratori inattendibili e personaggi
“fallibili”, che rendono la storia ambigua e creano situazioni di ironia o mistero.
L’approccio delle teorie cognitiviste al problema del punto di vista combina le idee di
Henry James con studi di tipo cognitivo, basati sia sulla dimensione ottico-prospettica
elaborata nel modello della visione di Manfred Jahn, sia sulla teoria dell’immagine
mentale che permetterebbe al lettore di ricreare l’universo narrativo attraverso
processi mentali bidirezionali. Il concetto di focalizzazione di Genette viene così
reinterpretato come un processo atto a guidare l’immaginazione del lettore attraverso
il suo rapporto con il narratore, il quale si serve delle windows of focalization per veicolare
il punto di vista da cui la storia dipende. Jahn introduce la “scala di focalizzazione”
che, insieme al modello della visione, costituisce un metodo preciso per l’analisi della
focalizzazione in un testo.
Dopo queste premesse narratologiche, la nostra attenzione si è rivolta al mondo
del cinema, il quale, nonostante le evidenti discordanze in merito alla rappresentazione
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del tempo e dello spazio, sembrerebbe condividere con la letteratura una caratteristica
fondamentale: la narratività. Considerando cinema e letteratura come forme di
linguaggio il cui comune obiettivo è il trasferimento di un messaggio dal contenuto
diegetico, i due media necessitano della presenza di una figura organizzatrice: il
narratore. Vedremo come, secondo Peter Verstraten, sembrerebbero esistere due
figure differenti, il visual narrator e l’auditive narrator, le quali si occupano rispettivamente
della rappresentazione della diegesi attraverso le immagini e il sonoro. Prima di
affrontare l’apparato teorico, ci siamo soffermati brevemente sulle origini del punto
di vista cinematografico, riscontrando come l’evoluzione delle forme del narrare
attraverso il montaggio abbia dato la possibilità allo spettatore di allargare il suo
sguardo oltre l’inquadratura, nel fuoricampo. La frammentazione del racconto filmico
in inquadrature contigue, che assumono un significato all’interno di una
composizione strutturata secondo canoni specifici per ogni periodo storico o
avanguardistico, ha consentito al cinema di svilupparsi come lo conosciamo ora,
svincolato dalla “staticità” delle vedute unipuntuali dei suoi esordi. Attraverso un
confronto tra la teoria genettiana della focalizzazione e la sua controparte
cinematografica, sottolineeremo le caratteristiche principali delle sue diverse
declinazioni per quanto riguarda il discorso filmico. Ci serviremo degli esempi
presentati da Verstraten per mostrare le svariate possibilità di relazione tra il narratore
e il personaggio focalizzatore, le quali determinano il punto di vista che lo spettatore
assumerà durante la visione del film. A partire da queste considerazioni, affronteremo
il problema della soggettività in ambito cinematografico, discutendo le principali
inquadrature da cui dipende l’articolazione del discorso filmico e dando particolare
rilievo alla soggettiva. Quest’ultima può essere definita come un shot/reverse shot, una
struttura che Edward Branigan denomina con i termini POV shot (Point Of View
shot). Il teorico considera le diverse forme di POV shot come le maggiori espressioni
di soggettività e dichiara la supremazia del personaggio e della sua percezione
nell’individuazione del punto di vista narrativo.
Queste basi teoriche ci serviranno per compiere un’analisi del punto di vista e della
focalizzazione nell’ambito del cinema d’animazione Disney, esaminando il corpus
filmico di riferimento nel tentativo di verificare l’applicabilità di tali teorie su un genere
che si discosta dal cinema “tradizionale”. Proveremo innanzitutto a fornire una
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presentazione accurata della figura del narratore e del suo rapporto con i personaggi
e con lo spettatore. Seguendo le orme di Verstraten, mostreremo le innumerevoli
possibilità di variazione della focalizzazione, sottolineando le caratteristiche proprie
di ciascuna situazione attraverso alcuni casi esemplari. Successivamente, la
classificazione dei casi in cui sono riscontrabili le tipologie di POV shot descritte da
Branigan ci permetterà di verificare la loro efficacia al di fuori del cinema classico.
L’obiettivo di questa dissertazione è quindi quello di argomentare, attraverso un
ricco comparto di esempi significativi adottati come riferimento, come le teorie
narratologiche del punto di vista siano valide non solo nel cinema “tradizionale” live
action, ma anche nel cinema d’animazione firmato Disney, nonostante l’apparente
distacco rappresentazionale dei due generi.
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1. IL PUNTO DI VISTA: UN PROBLEMA NARRATOLOGICO
1.1. Prime riflessioni
1.1.1. Il reflector di Henry James
Il concetto di punto di vista non si propone inizialmente come una teorizzazione
narratologica concreta, ma nasce e si sviluppa grazie alle idee dello scrittore
statunitense Henry James (1843-1916), il quale si limita, senza necessità di
formalizzazione, a esprimere proprie riflessioni sulla questione, provandone le
potenzialità e i limiti nei suoi stessi romanzi. Più che parlare di punto di vista, il
romanziere utilizza termini come prospettiva ristretta, centro della visione, centro
della coscienza, centro di interesse, ecc. In particolare, la sua “teoria narrativa” ruota
intorno al concetto di visione indiretta, secondo il quale la storia deve essere raccontata
attraverso lo sguardo e la percezione di un personaggio che vive al suo interno e che
svolge la funzione di filtro, di riflettore, attraverso cui osserviamo i fatti e le vicende,
abbandonando la visione ottocentesca dell’autore onnisciente (Meneghelli, 1998).
Nella prefazione a Ritratto di signora, James si serve di un’immagine evocativa per
descrivere il concetto di punto di vista. Si tratta della metafora della casa dalle infinite
finestre, che è diventata il simbolo del suo pensiero.
La casa del romanzo, insomma, non ha una finestra, ma un milione, un numero
incalcolabile di possibili finestre, ognuna delle quali è stata aperta o può ancora essere
aperta, sull’ampia facciata, dalla necessità della visione individuale e dalla pressione
della volontà. Poiché queste aperture, di forma e di misura differenti, si affacciano tutte
sulla scena umana, ci saremmo aspettati una vista molto più uniforme di quella che
troviamo. Soltanto nel migliore dei casi sono finestre, altrimenti si tratta di semplici
fessure sconnesse, collocate in cima a un muro cieco, non certo di porte che, girando
sui loro cardini, si aprano direttamente sulla vita. Ma possiedono tutte una caratteristica
particolare: a ciascuna di esse c’è una figura con un paio d’occhi, o almeno con un
binocolo, che costituisce, ogni volta, uno strumento unico per l’osservazione, in grado
di assicurare, a chi ne faccia uso, un’impressione distinta da ogni altra. Lui e i suoi vicini
guardano lo stesso spettacolo, ma uno vede di più dove l’altro vede di meno, uno vede
nero dove l’altro vede bianco, uno vede grande dove l’altro vede piccolo, uno vede
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cose grossolane dove l’altro vede cose raffinate, e così via. Per fortuna non è possibile
stabilire su cosa, per ogni specifico paio di occhi, la finestra non si apra: la fortuna sta
proprio nell’incalcolabilità del raggio. La scena umana, il paesaggio che si dispiega, è
“la scelta del soggetto”; l’apertura praticata, ampia, provvista addirittura di un balcone,
oppure piccola e stretta, è la “forma letteraria”; ma, sia considerate insieme che
separatamente, esse non sono nulla senza la presenza appostata dell’osservatore –
senza, in altre parole, la coscienza dell’artista. (Prefazione a Ritratto di signora, 1908,
citato da Meneghelli, 1998, pp.10-11)
Come Meneghelli sottolinea in Teorie del punto di vista (1998), esistono due diversi
livelli di lettura delle parole dello scrittore. Nel primo ci si riferisce al punto di vista
dell’autore, il quale, libero di rappresentare la propria interpretazione del mondo,
diventa egli stesso una finestra da cui il lettore può osservare uno spettacolo unico,
proprio dell’autore che lo ha immaginato. Ad un livello ulteriore, invece, “la finestra
diventa la visione che della storia ha un personaggio, il punto di vista da cui viene
condotta la narrazione” (Meneghelli, 1998, p. 9).
James definisce con il termine reflector il personaggio dai cui occhi osserviamo la
storia e individua la sua duplice funzione: è uno specchio che mostra la sua percezione
della realtà, deformandone e reinterpretandone i fatti secondo la propria visione, e un
“fascio di luce” che illumina la storia, arricchendola di particolari emozioni e opinioni
che solo quel personaggio può provare e pensare. Ciò che James chiama prospettiva
ristretta permette allora di narrare i fatti attraverso la soggettività dello sguardo e delle
percezioni di un personaggio designato, scelto all’interno dell’universo narrato come
diaframma attraverso cui osservare (Meneghelli, 1998). La scelta di questo particolare
osservatore determinerà la prospettiva non solo fisica, ma anche valutativa e
qualitativa da cui la storia verrà compresa (Pugliatti, 1989).
Il punto di vista diventa, quindi, un principio costruttivo: l’intera sfera delle relazioni
tra i personaggi e soprattutto dei loro incontri e percorsi all’interno dell’universo
narrato vengono studiati nel dettaglio per permettere alla storia di essere narrata. Per
raccontare una vicenda, infatti, il personaggio riflettore dovrebbe essere presente
durante l’azione, o almeno avere modo di entrarne a conoscenza. Sono chiare, a
questo punto, la cruciale necessità di un corretto reperimento delle informazioni che
il narratore deve fornire al riflettore e le conseguenti limitazioni a cui il narratore è
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soggetto, dovendosi adattare di volta in volta alla personalità e alle caratteristiche di
tale personaggio e prestare attenzione a ciò di cui può o non può essere a conoscenza
(Meneghelli, 1998).
Non va dimenticato, inoltre, uno dei problemi sollevati dalla teorizzazione del
concetto di punto di vista: la sua ambiguità di significato. L’espressione, anche nel
senso comune, può designare il ‘luogo da cui si guarda’ ma anche ‘opinione, modo di
vedere una situazione’. Per quanto riguarda l’uso del termine in narrativa, è opportuno
distinguere tra l’angolazione da cui il narratore guarda alla storia e i giudizi espressi
dal narratore e/o dai personaggi rispetto a quella storia. Nel discorso teorico di James
l’espressione assume un valore di tipo spaziale e viene appunto definita come una
“sistematica restrizione del campo visivo, percettivo e conoscitivo del narratore”
(Meneghelli, 1998, p. XV).
È in questo senso che lo scrittore statunitense descrive la scelta del punto di vista
come un criterio di “economia” e di “coesione”. Egli parla di economia riferendosi
alla possibilità di compiere una selezione del corpus narrativo, sia in termini del modo
di raccontare, sia rispetto a che cosa può essere narrato (rispetto a ciò che si trova nel
campo visivo o percettivo del personaggio riflettore). Per quanto riguarda la coesione,
egli intende l’unitarietà data al testo scritto dalla presenza di un “centro”, il
personaggio, da cui poter controllare l’intera narrazione.
L’altra grande decisione dell’autore, dopo quella del punto di vista, ricade sulla
scelta della tecnica da utilizzare per raccontare i fatti, libero di servirsi della prima o
della terza persona, tenendo ben presenti i limiti e i vantaggi che ne derivano. Ciò che
per James è fondamentale è privilegiare, in ogni caso, un punto di vista interno alla
storia. È in questo senso che egli individua nel narratore esterno in terza persona con punto
di vista limitato il miglior metodo narrativo in assoluto, riscontrando in esso la
possibilità di evitare il rigore del racconto in prima persona, vincolante dal punto di
vista espressivo e linguistico poiché il vocabolario e il tono devono essere propri del
personaggio che parla (in Quel che sapeva Maisie (1897), per esempio, la protagonista è
una bambina di dieci anni ed è facilmente intuibile, in questo caso, la difficoltà di
scrivere un romanzo adottando la prima persona), e di servirsi allo stesso modo dello
sguardo del personaggio coinvolto nell’azione. In questa particolare modalità
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narrativa “chi osserva è comunque raccontato da qualcun altro” (Meneghelli, 1998, p.
XVII).
Il narratore eterodiegetico non deve però essere inteso alla stregua di un narratore
onnisciente: l’idea di una prospettiva interna deve, al contrario, limitare l’ubiquità
dell’onniscienza e fornire una visione il più possibile verosimile alla realtà vissuta dai
protagonisti, per garantire al lettore un’esperienza emotiva intensa, quasi catartica, in
cui poter fare i conti con situazioni del vivere quotidiano attraverso il racconto
(Turchetta, 1999).
Si potrebbe a questo punto obiettare che, in questo modo, il racconto perderebbe
la sua oggettività, tipica di una narrazione con narratore onnisciente collocato
all’esterno dell’universo narrato in grado di vedere ogni situazione da una posizione
privilegiata rispetto ai personaggi e libero di spaziare attraverso i loro diversi punti di
vista per mostrare la loro interiorità e la loro percezione del mondo. Secondo la teoria
jamesiana, invece, è proprio la narrazione attraverso il punto di vista di un personaggio
a raggiungere il più alto grado di oggettività. È noto che l’autore di un testo narrativo
non può fare a meno dell’istanza mediatrice del narratore, ma può provare a
nasconderla al lettore oppure, secondo le idee di James, può affidare il compito a un
personaggio che, al contrario, renderà perfettamente evidente e chiaro il suo ruolo di
intermediario. Per lo scrittore statunitense, infatti, il problema della soggettività ricade
solo sulla figura dell’autore che, in questo modo, viene “dimenticato” dal lettore, il
quale attribuisce la narrazione al personaggio interno alla storia. La figura narrante
può essere un testimone che racconta in prima persona la storia dell’“eroe”, oppure
un narratore che assume il punto di vista dell’eroe, raccontando la sua storia in terza
persona e “fingendo” di ottenere le informazioni dal personaggio stesso e non
dall’autore (Meneghelli, 1998).
Servendosi di questa formula narrativa James compie una prima distinzione tra
sguardo e voce, affrontata più nello specifico da teorici e critici successivi, considerando
il primo come proprio del personaggio riflettore e la seconda come entità esterna e
indefinita che lo “guarda guardare” (Meneghelli, 1998, p. 21).
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1.1.2. Verso una cornice teorica: gli studiosi della prima e seconda
generazione
Le idee e le riflessioni di Henry James furono riprese dai teorici degli anni venti e
trenta del Novecento. Percy Lubbock e Joseph Warren Beach vengono definiti i
“sistematizzatori” della teoria jamesiana. Ciò che entrambi si propongono di fare,
seppur in modi differenti, è creare una categorizzazione delle strategie narrative di
James per renderle applicabili ad altri romanzi dell’epoca. I due teorici non si limitano
a una mera formalizzazione della teoria, ma tentano una rielaborazione della stessa
(Meneghelli, 1998).
Da questo momento in avanti, la discussione teorica verterà sulla distinzione tra i
due modi fondamentali del racconto, adattando al romanzo moderno le nozioni di
showing (mostrare), in cui il narratore agisce dietro le quinte, e telling (raccontare), in cui
il narratore assume una posizione rilevante, già affrontate da Platone e Aristotele
1
. In
particolare, Lubbock organizza la sua teoria basandosi su tale distinzione,
individuando quattro tipologie di narrazione, che vengono qui riportate in base alla
predominanza del telling e dello showing:
1. in terza persona con narratore autoriale, chiamato “metodo pittorico”;
2. in prima persona;
3. in terza persona dal punto di vista del personaggio (il reflector di James);
4. in terza persona senza commento del narratore o riportata da un punto di vista
interno alla storia, chiamato “metodo scenico” (Niederhoff, 2015).
Lubbock definisce il “metodo scenico” o “drammatico” come la modalità di
rappresentazione in cui “l’azione si svolge sotto i nostri occhi”, apparentemente senza
l’ausilio di un’istanza narrante che descriva i fatti o i personaggi, i quali vengono
mostrati mentre parlano e agiscono (Meneghelli, 1998, p. 56). Nel “metodo pittorico”,
invece, l’autore si serve di un narratore onnisciente per comunicare al lettore la storia
secondo il suo punto di vista. Secondo Lubbock il metodo pittorico è proprio della
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Per una più ampia trattazione dell’argomento si rimanda al libro di André Gaudreault Dal
letterario al filmico (2006).
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narrativa, ma il teorico vede nel metodo scenico il modo migliore per ricreare in un
romanzo il dramma e il coinvolgimento a cui si assiste nelle opere teatrali, in cui tutta
l’azione viene rappresentata in modo diretto sul palcoscenico. Nonostante la
supremazia affidata a questo metodo, Lubbock ne riconosce il limite di non poter
affrontare l’analisi introspettiva di un personaggio, i suoi pensieri non detti, le sue
passioni, che in questo caso dovrebbero essere necessariamente esplicitati in dialoghi
o azioni. Ciò che un romanzo pittorico è in grado di fare è, infatti, servirsi
dell’onniscienza del narratore per raccontare al lettore l’evoluzione dell’anima del
personaggio, senza che questa venga messa a nudo nella storia.
Esistono, tuttavia, delle strategie per creare un “quadro drammatico” all’interno di
un romanzo pittorico. Seguendo le orme di James, Lubbock individua come una di
queste sia l’utilizzo della terza persona, che consente di creare una narrazione che
avviene dal punto di vista di un personaggio interno alla storia.
Nessuno se ne accorge ma dietro quell’occhio adesso ci sono due menti; e una di queste
è la mente dell’autore, che adotta e condivide la posizione della sua creatura, ma al
tempo stesso accresce la sua intelligenza. […] dietro di lui c’è qualcun altro che, pur
osservando le cose dalla stessa angolazione, vede di più e utilizza la propria mente
(Meneghelli, 1998, p. 60).
Nasce con le teorie di Lubbock l’idea, già introdotta da James, di “narrazione
mimetica”, in cui la storia viene presentata facendo affidamento sullo showing,
attraverso un narratore in terza persona che appartiene all’universo narrato e dove gli
avvenimenti si svolgono in modo diretto come su un palcoscenico senza, almeno in
apparenza, l’intermediazione di una voce e di uno sguardo (un punto di vista) esterno
(Meneghelli, 1998).
Gli studi di James, Beach e Lubbock rappresentano la posizione anglosassone
rispetto al problema del punto di vista e i tre autori vengono definiti i “teorici della
prima generazione”. Ad essi si rifà direttamente Norman Friedman, il quale non si
limita a una reinterpretazione degli scritti di James, ma appartiene, secondo
Meneghelli (1998), alla “fase delle tipologie”, fase in cui lo scopo non è più solo quello
di sistematizzare e formalizzare le idee in una teoria concreta, ma anche fornire
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strumenti di analisi testuale che possano definire il generale funzionamento della
narrativa.
Nel suo saggio Point of view in fiction: The development of a critical concept (1955),
Friedman parte da una riflessione sulla figura del narratore e si interroga sulla
collocazione spaziale (di prospettiva e di distanza) del narratore rispetto alla storia. Il
teorico si pone quattro fondamentali domande a tal proposito:
- Chi parla al lettore?
- Da quale punto di vista o posizione il narratore osserva e racconta la storia?
- Quali canali di informazione utilizza per veicolare la storia?
- A quale distanza dalla storia il narratore pone il lettore?
Dalle relazioni che intercorrono tra le risposte a queste domande, Friedman
individua otto tipi narrativi, qui riportati brevemente utilizzando alcune parole
dell’autore tratte dalla traduzione italiana a cura di Paola Pugliatti (1989, p. 83-89):
1. Onniscienza dell’autore, in cui “la storia può essere contemplata da qualsiasi
angolatura”, con un punto di vista illimitato. Al lettore vengono forniti tutti i
tipi di informazione, compresi i pensieri e le opinioni dell’autore oltre a quelli
dei personaggi. Ogni cosa è mostrata sempre attraverso la voce autoriale, che
“non si limiterà a riferire ciò che avviene nella mente dei personaggi, ma potrà
anche criticarlo”.
2. Onniscienza neutra, differisce dalla tipologia precedente solo nella misura in cui
“sono assenti le intrusioni dirette dell’autore”, che pur racconta i fatti dal suo
punto di vista.
3. L’“io” testimone oculare, è contraddistinto dalla presenza di un narratore-
testimone interno alla storia, il quale fa le veci dell’autore parlando in prima
persona e riferendo al lettore solo le informazioni in suo possesso, non avendo
accesso alla mente dei personaggi.
4. L’“io” protagonista, in cui il narratore-testimone è un narratore-protagonista che
“racconta la propria storia in prima persona”, limitando di fatto le
informazioni ai propri pensieri, sentimenti e opinioni. In questo modo,
“l’angolo di percezione è quello del centro fisso”.