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1. INTRODUZIONE
Questo lavoro ha un vizio d’origine: mi riguarda, come donna, lavoratrice e madre. Tre
termini di cui ho voluto indagare la reciproca dipendenza a partire dalla mia esperienza e da
quella della generazione a cui appartengo, ma che mi hanno costretto, lungo il percorso, a
guardare indietro, alla ricerca di una consapevolezza smarrita o mai completamente acquisita.
L’intento è quello di ristabilire un ordine, di capire quanto e perché la possibilità di
essere madre condizioni quella lavorativa e, insieme, quanto la posizione lavorativa influenzi
la fecondità: il gap occupazionale italiano tra uomini e donne e il bassissimo tasso di fecondità
sono indubbiamente, come vedremo, due facce della stessa medaglia. Dettaglio non secondario,
l’uso del termine possibilità è voluto, nella misura in cui la maternità riguarda anche chi sceglie
di non essere madre: agli occhi di un datore di lavoro, l’opzione rimane aperta per lungo tempo
e, insieme, la più bassa remunerazione e la segregazione occupazionale femminile riguarda
tutte, nella misura in cui le diverse aspettative finiscono con l’investire la donna. È, a conti fatti,
una questione di genere e, come tale, dovrebbe essere affrontata.
Inizialmente, avevo pensato di restringere lo sguardo all’ambiente aziendale, alla ricerca
dei meccanismi organizzativi che considerano o rendono difficoltosa la conciliazione dei tempi
di lavoro con quelli familiari. Differenze retributive, soffitto di cristallo, segregazione
orizzontale e verticale mi sono sembrati il naturale prosieguo di un ambiente stantìo, poco
aperto alle innovazioni e in generale più interessato a premiare la presenza rispetto alla qualità.
Tanto è vero che, come avrò modo di indicare più avanti, la qualità della formazione non ha un
valore molto alto: il voto finale può incidere positivamente sulle possibilità di continuare un
percorso coerente con i propri studi, ma non su quelle occupazionali. Non mi pare, questo, un
dettaglio di poca importanza, soprattutto se si considera che le donne sono ormai mediamente
più istruite degli uomini, si laureano di più e con voti migliori. Se riduciamo la questione ai
suoi termini essenziali, è un po’ come dire a una giovane studentessa che il suo impegno e la
sua preparazione contano relativamente: le modalità con cui ha ottenuto il diploma o la laurea
non sono una discriminante.
Scarsa attenzione alla formazione e scarsa cultura nella gestione delle risorse umane,
unite alle caratteristiche del tessuto imprenditoriale italiano (le aziende sono per lo più micro o
piccole imprese) mi erano, appunto, sembrati i punti più interessanti da indagare per risalire alle
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differenze di genere in campo lavorativo. Se a premiare sono le ore di presenza e non i risultati
e le innovazioni, è evidente che le donne non possono che essere il fanalino di coda: lo scarso
investimento in servizi pubblici e l’ineguale suddivisione del lavoro di cura, ne fanno le
protagoniste del lavoro familiare, sia in termini di aspettative sia spesso in termini pratici. Si
teme, cioè, che non siano presenti quanto un uomo in azienda, che non sappiano sacrificarsi in
ugual misura, indipendentemente dal fatto di aver concretizzato la loro possibilità di essere
madre, e che possano rappresentare un costo in termini economici. E, in effetti, le aspettative
sono spesso confermate, perché al momento la donna è ancora l’unico soggetto della doppia
presenza, è l’unica a cui viene richiesto di conciliare tempi di vita e tempi di lavoro.
Quando, però, al discorso prettamente aziendale e alla gestione delle risorse umane, ho
cercato di collegare l’evidente difformità tra le statistiche sugli abbandoni lavorativi post-
maternità, le testimonianze di demansionamenti e climi intimidatori, oltre alle esperienze che
osservo quotidianamente, con le scarse denunce portate avanti dalle donne, mi è sembrato che
mancasse qualche tassello. E ho iniziato a muovermi lungo la strada della consapevolezza e
della rassegnazione.
Sono partita da un articolo di Micheli sull’attuale clima di rassegnazione
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, da attribuirsi
secondo lui a una catena di delusioni che ha minato dalle fondamenta il solido castello con cui
le generazioni nate dopo gli anni ’80 sono cresciute. Generazioni che hanno ricevuto le risorse,
ma non hanno maturato sufficiente consapevolezza degli strumenti necessari per ottenerle e
che, trovandosi d’un tratto senza le garanzie che avevano considerato inattaccabili, non hanno
saputo reagire in modo adeguato. La rassegnazione specifica, riguardante cioè ambiti particolari
come il lavoro, è diventata nel tempo aspecifica. Mi è parso di poter collegare questo articolo
con la rassegnazione a reagire del genere femminile di fronte alle evidenti disparità che ancora
le riguardano. Le madri di oggi, a mio avviso, non avevano mai messo in dubbio durante gli
anni della formazione il diritto ad essere protagoniste nel mondo allo stesso modo dei propri
compagni di scuola e si sono ritrovate solo in un secondo momento a constatare uno sfasamento
rispetto alle proprie aspettative.
A questo punto del percorso, è diventato necessario indagare sia il livello di
consapevolezza delle donne della mia generazione e di quelle successive, nate dopo il ‘75 e da
poco affacciatesi alla maternità o alle prese con colloqui di lavoro in cui la domanda sui propri
1
MICHELI A. G., Come spiegare l’ in a z io n e delle nuove generazioni. Derive biografiche e condizionamenti
generazionali, in «Rassegna Italiana di Sociologia», 1/2013, il Mulino, pp. 89-118.
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progetti familiari è del tutto ricorrente e evidentemente discriminante, sia il peso dei discorsi di
genere a livello mediatico. Perché, se il problema c’è ed è reale, occorre chiedersi se viene
percepito come tale e che tipo di istanze vengono poste alla politica.
Un articolo di Repubblica sulle evidenti disparità occupazionali delle giovani laureate a
tre anni dalla laurea ha, poi, riaperto gli interrogativi: i lettori non sono stati in grado di cogliere
l’argomento e lo hanno del tutto deviato, come vedremo, su altre questioni. Ho considerato,
quindi, necessario ripartire da capo e stabilire alcuni punti fermi. Ho ripercorso le statistiche su
situazione occupazionale, fecondità, tempi di cura e riepilogato le caratteristiche del welfare
italiano. Ho analizzato, poi, gli strumenti disponibili in Italia e all’estero a difesa della maternità
e della genitorialità, cercando di evidenziare quelli più utili a riequilibrare i ruoli. Ho ricostruito,
cioè, il contesto in cui io, donna, cerco di muovere i passi nel quotidiano lavorativo e familiare:
sistema azienda e sistema stato. E, terminata l’analisi quantitativa, nel cercare di risalire alle
origini del concetto di conciliazione, mi sono per forza di cose imbattuta nel femminismo, in
quel movimento che ora so essere stato rivoluzionario e che per primo ha affrontato tutti questi
concetti, che per primo ha introdotto, con Laura Balbo, il termine “doppia presenza”, che ha,
come vedremo, sostenuto la genitorialità condivisa, ma di cui, a noi, alla mia generazione, sono
arrivati i risultati, ma non probabilmente gli sforzi e il lavoro su di sé. Il femminismo e la
femminista, oggi, sono percepite in maniera completamente diversa, e a tratti opposta, da come
lo erano in passato. Ed evidentemente qualcosa nel frattempo deve essere accaduto.
A questo punto del percorso, ho conosciuto, a una conferenza organizzata da Altereva,
Carla Quaglino, figura storica del femminismo torinese e membro attivo della Casa delle Donne
di Torino. Grazie a lei, sono riuscita a ricostruire gli obiettivi originari del movimento
femminista e soprattutto il contesto in cui la sua generazione si è mossa, fondamentali per capire
qualcosa di più sull’identità della mia generazione e sul concetto di consapevolezza di genere.
Ho dovuto, innanzitutto, imparare a conoscere un passato che non mi era stato sufficientemente
mostrato, prima di affrontare il capitolo che ho chiamato “Questioni di cultura”. Ho dovuto
guardare alla mia condizione dall’esterno per riuscire a vedere quanto forti siano ancora le
aspettative sociali e gli stereotipi che riguardano la suddivisione del lavoro di cura e del mondo
produttivo e riproduttivo.
La parte qualitativa della ricerca è iniziata qui ed è consistita fondamentalmente in
un’intervista esplorativa a Carla Quaglino, che mi è servita ad allagare le direzioni in cui mi
stavo muovendo e a chiarire i concetti di conciliazione e di lavoro di cura, e, a seguire, a
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Elisabetta Mesturino, segretario generale Filcams Torino. Con loro e grazie a loro, sono riuscita
a organizzare quel che mi premeva di più inizialmente e cioè un focus group con alcune
lavoratrici madri e a connotarlo nei termini con cui avevo condotto la mia analisi. Il focus group
si è svolto, infatti, nella Casa delle Donne di Torino e hanno partecipato anche Carla Quaglino
e Patrizia Celotto, altro nome importante del femminismo torinese. Le intervistate sono, così,
riuscite non solo a interrogarsi sulle realtà aziendali e le difficoltà di conciliazione con i tempi
di vita, ma anche a guardarsi, a mettere a confronto le proprie consapevolezze e, in sostanza, a
ripartire da sé. Le madri, inoltre, dovevano essere nelle mie intenzioni in qualche modo
rappresentative di una realtà ritenuta accettabile: non dovevano, cioè, essere state al centro di
casi limite quali licenziamenti o mobbing troppi evidenti, ma aver semmai avuto difficoltà a
interagire con l’azienda nel negoziare un po’ di flessibilità o essere state demansionate. Mi
interessava capire qual è la normalità, quel livello oltre il quale mano a mano che ci si sposta
peggiorano, sì, le condizioni e le conseguenze, ma che si pone in qualche modo come modello
e che, pertanto, come tale deve essere il primo ad essere corretto.
Oltre ai contatti torinesi e soprattutto durante la prima fase esplorativa, ho avuto modo
di intervistare anche la consigliera di parità della provincia di Cuneo, Daniela Contin, due
piccoli imprenditori locali, il referente della sezione CISL di Saluzzo (CN), un padre che ha
usufruito dei permessi per allattamento e una dipendente di una compagnia assicuratrice
costretta alle dimissioni dopo la maternità. Quotidiani sono stati anche gli scambi di opinioni
con madri, padri, donne e le incursioni nei social network alla ricerca di qualche spunto che
potesse aiutarmi a districare la questione.
Dopo aver chiarito alcune definizioni di base, per cui sono stati fondamentali i testi di
Chiara Saraceno, Elisabeth Badinter e Pierre Bourdieu, ho cercato di fornire un quadro ben
delineato della situazione che riguardasse lavoro, istruzioni, fecondità e servizi. Ho ricordato le
principali linee guida dell’Unione Europea e gli obiettivi del trattato di Lisbona, per poi tornare
negli ambienti lavorativi in cui le donne si muovono quotidianamente e che hanno come primo
punto di riferimento. Quegli stessi ambienti da cui spesso fanno fatica a uscire per delineare
delle considerazioni di massima.
Infine, sono tornata alle questioni invisibili: cultura, consapevolezza – e qui il passaggio
attraverso gli anni del femminismo è stato d’obbligo – e rassegnazione. Il focus group è arrivato
alla fine del percorso, sia in senso cronologico sia in senso logico, di struttura argomentativa,
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perché necessitava, per essere condotto, di avere ben chiare tutte le questioni di cui quella di
genere è insieme risultato e punto di partenza.